giovedì 10 febbraio 2022

A Irene Brin non faceva difetto l’audacia


Per quanto concerne le scritture, mi preme prima di tutto sottolineare la presenza ricorrente dei passi femminili per tutto il Novecento sia nella cosiddetta letteratura alta, sia nei meno nobili meandri dell’industria culturale. Invero è questo secondo frangente, scarsamente indagato e a tratti misconosciuto, che mi sta più a cuore, come si potrà capire dagli ampi riferimenti a Irene Brin <1 e a Mura <2. Anche rispetto al cinema vorrei riuscire a considerare le immagini delle donne che camminano tanto nella produzione più blasonata, quanto in quella popolare, adottando uno sguardo lungo, e quindi forse ancor meno esauriente, che sappia però cogliere in una sorta di sincopata sequenza di montaggio, costruita per analogie e assonanze visive, poche schegge degli anni del muto, porzioni più consistenti dei film del regime e di quelli dell’immediato dopoguerra, fino a lambire alcune emergenze forti del cinema della modernità, punteggiato come è da innumerevoli e finanche vistose passeggiate femminili.
Un passo dietro l’altro
Se diamo ascolto alle severe, ma benevole, parole di Irene Brin nei panni della contessa Clara, il passo e lo sguardo sono inestricabilmente, misteriosamente e forse pericolosamente connessi, o quanto meno lo sono nelle raccomandazioni dei nuovi galatei così in voga nel secondo dopoguerra: "Ci sono donne che, quando vanno a far spesa la mattina, corrono furiosamente, radendo i muri, quasi non volessero esser viste. Il pomeriggio, per lo “struscio” nelle vie del centro, vanno languidamente ancheggiando, quasi volessero esser viste da tutti". (Brin 1986, 47-48) <3
Pertanto, nel capitoletto dedicato al camminare, l’autrice suggerisce a signore e signorine come trovare un proprio passo, grazioso, calmo e invariabile, compiendo piccoli esercizi, “magari portando con sé un libro da appoggiare rigidamente sul cuore” (Brin 1986, 47).
[...]
In marcia, sul posto
Scorrendo i titoli del ventennio, guardando alle storie di arditissime collegiali, di vivaci modiste o di donne sole e in qualche modo fuori della norma, è facile rinvenire un analogo percorso narrativo e ideologico che conduce le protagoniste dalla sfera pubblica della città e del lavoro a quella, privatissima, del matrimonio, che le muta, nell’ultima inquadratura, in spose liete, obbedienti e dimentiche della iniziale irrequietezza.
Nello stesso torno d’anni, l’auspicato ripiegamento alla dimensione casalinga pervade, a partire dagli schermi, le pagine di giornali e riviste, <10 infiltrandosi nei cosiddetti racconti di vita, veri e inventati, delle attrici italiane, nel tentativo, mai del tutto riuscito, di imitare e sostituire nei cuori del pubblico il divismo di matrice hollywoodiana. Con l’entrata in guerra questo processo si ispessisce, chiaramente, e a testimoniarlo è, fra gli altri, un bizzarro rotocalco destinato alle truppe e alle loro famiglie, "Fronte. Giornale del soldato" <11 dove, fra i contenuti eminentemente “maschi” tributati allo sport, alle nuove tecnologie militari, ai racconti guerreschi, spicca la pagina dedicata al cinema. Qui Irene Brin, impareggiabile osservatrice del corpo sociale, imbastisce, fascicolo dopo fascicolo, una autentica parata di stelle, arruolando vezzosamente le attrici italiane sulla linea del Fronte. Così, a partire da una domanda stravagante, ossia quale è tra i corpi di armata dell’esercito quello che preferiscono, l’autrice crea una rubrica incentrata sulle risposte delle dive nostrane, richiamandole singolarmente, e dedicando a ciascuna un estroso e frizzante ritratto. Per questa peculiare “inchiesta” Brin adotta la formula dell’incontro, riportando, o più probabilmente immaginando, cinquantanove <12 conversazioni con altrettante protagoniste (o aspiranti tali) degli schermi italiani. In ogni articolo vengono rimarcati i caratteri distintivi del divismo autoctono, che brilla ma in formato ridotto, forte della sua italica autenticità. Ne scaturisce un racconto corale, dove le nostre attrici, stelle minori e vicine, ma sempre graziosissime, sono propriamente chiamate a marciare sul fronte interno: a loro, come al pubblico delle lettrici e delle spettatrici, è affidato il compito di tessere il filo che lega i militari impegnati sulle linee del combattimento e le famiglie rimaste a casa.
Nella ridente costellazione tracciata da Irene Brin sulle pagine di questo rotocalco guerriero, il cielo stretto dell’autarchia è punteggiato da una miriade di luci fisse, quasi immobili, incastonate nella scena familiare. Difatti soltanto due delle cinquantanove intervistate sono ritratte nell’atto di camminare per la città: tutte le altre sono colte nell’intimità della loro casa, intente a sferruzzare indumenti da inviare ai soldati, occupate in cucina, o in giardino; alcune, poco più che adolescenti, pattinano, tirano con l’arco, giocano col cane; altre stanno sul set, in una pausa dal lavoro, nella domesticità di cartapesta del teatro di posa. La giornalista sorprende invece Bianca Della Corte <13 in giro per Roma, nell’abituale passeggiata durante la quale è solita acquistare dei fiori da offrire ai militari feriti e ricoverati nei nosocomi cittadini. L’attrice "Rapida e leggera, attraversava Via dell’Impero, strada abitualmente pochissimo frequentata dalle nostre giovani attrici, use a preferire vie più frequentate e mondane. Così, incuriositi, la seguimmo per qualche minuto, e la vedemmo avviarsi tranquilla, verso l’Arco di Tito, indugiando solo a comprare un mazzolino di viole dalla bimba che le vende, lì davanti. Facemmo in tempo a raggiungerla […] nella sua passeggiata mattinale attraverso i bei marmi dei Fori". (Brin 1941a, 19)
Anche l’aggraziata silhouette di Leda Gloria <14 si muove nello scenario urbano, tanto che l’intervistatrice la scorge, molto presto al mattino, in Piazza di Spagna e annota "Ci parve di riconoscere […] [la sua] figuretta esile e leggiadra che ci precedeva di qualche passo, ma subito immaginammo di esserci sbagliati: quando mai una diva, alle sei di mattina, lascia il suo morbido letto e la sua camera tappezzata di seta, per affrontare la fresca solitudine delle strade vuote? Eppure era proprio lei. Elegantissima, s’intende, e sobria, come suole essere nella vita privata […], con un abitino blù scuro che le dava un’aria di collegiale aristocratica […]. Si è fermata un momento […] poi riprende il cammino, costringendoci a camminare con un passo velocissimo, per restarle vicini, e così quasi di corsa, ci dirigiamo ad un posteggio di autobus […] e Leda Gloria vi sale, rapida e lieve. Vediamo, oltre il vetro del finestrino, agitarsi la sua piccola mano". (Brin 1941b, 19)
Con le sue impeccabili scarpine, dunque, la celebre protagonista di Montevergine (C. Campogalliani, 1939) sfreccia veloce per la città e addirittura sale su un popolaresco autobus. Ciò accade poiché l’attrice, come e forse più delle altre, ha deciso di mettersi in gioco per i soldati, recandosi ogni mattina ad un corso di formazione che le permetterà di divenire crocerossina. Insomma, pur staccandosi dalla staticità casalinga delle altre intervistate, Bianca Della Corte e Leda Gloria hanno ragioni molto precise e finanche patriottiche per allontanarsi dallo spazio domestico, giacché le loro solitarie peregrinazioni per le vie cittadine non corrispondono a uno svago o a un desiderio di libertà, ma sono invece rivolte alle truppe e alle sorti del conflitto bellico.
Passi liberati
Occorre attendere la conclusione della guerra per leggere di una camminata differente, ostinatamente votata alla indolenza di un tempo finalmente ritrovato. È ancora la penna di Irene Brin a tratteggiarla sulle pagine di "Bellezza", in un articolo non a caso intitolato “Passeggiata romana” che descrive il vagare, dapprima oppresso dalla calura, di due ragazze nella città quasi deserta e investita da una luce accecante. L’autrice si sofferma sui loro passi e sui loro sguardi, rintracciando in questo connubio la radice di una libertà inedita e dirompente, che ha a che fare con la fantasia e con una nuova misura di benessere, per il momento soltanto immaginario, ma non di meno corroborante: "In un feroce mattino di primo agosto, [...] Vincenza e Valentina uscirono a passeggio, esattamente come ci si butta dalla finestra. Gli occhiali le difendevano dal riverbero; la solitudine non le difendeva dalla malinconia. Erano eccessivamente libere nei sandali già negletti, negli abiti di surah, che verso maggio erano sembrati loro l’espressione esatta delle necessità e delle dignità estive e, naturalmente, senza fame, senza gaiezza, senza speranza, risalirono Via Condotti vuota quanto la spoglia di una cicala. La scalinata le affascinò, formula inedita di supplizio e la soffrirono, gradino per gradino, fino a Via Sistina allucinante di pietre riscaldate. Che cosa sperare in un mondo dove i passi conducono inutilmente a nuovi selciati arsicci, a nuovi asfalti roventi? Dipende pur sempre dal passo: affacciato alla vetrina di Frattegiani un sandalo composto da striscioline esilissime, alternate a toni preziosi lasciò sperare un cammino da percorrersi in piena frescura". (Brin 1946, 16-17)
È sufficiente appoggiare lo sguardo su un delizioso paio di sandaletti per fantasticare un altro e più piacevole cammino, perfettamente commisurato alla levità di quelle “striscioline esilissime” e al sogno di mete fino ad allora impensate. Sono anche queste spinte, legate al desiderio di beni in qualche modo lussuosi e di stili di vita più confortevoli, a muovere i percorsi delle donne, guidando i loro passi nello spazio di città roventi, non dimentiche della guerra e piegate da feroci ristrettezze. Vincenza e Valentina, le due sconosciute protagoniste di questa passeggiata romana, mutano la loro andatura e il rapporto col circostante guardando la scintillante vetrina di Frattegiani, e incarnano l’aspirazione a un benessere nuovo, a un miglioramento, anzi tutto materiale, della loro esistenza.
[NOTE]
1 Scrittrice e giornalista assai feconda, traduttrice, co-fondatrice assieme al marito Gasparo del Corso della galleria d’arte L’Obelisco, nonché per almeno un trentennio indiscussa arbitra elegantiarum del costume nazionale, Irene Brin (1911-1969) ha conosciuto una fama fragorosa, per esser poi presto dimenticata dopo la sua morte. Recentemente però è stata oggetto di un rinnovato interesse storico-critico, soprattutto in relazione al mondo dell’arte: cfr. Caratozzolo, Schiaffini, Zambianchi 2018. Per un documentato profilo biografico cfr. Fusani 2009; per i rapporti della scrittrice con il cinema cfr. Mosconi 2009; mi permetto infine di segnalare anche Cardone 2019a.
2 Autrice instancabile di romanzi rosa eroticamente trasgressivi, e firma venerata di riviste femminili e rotocalchi, Mura, pseudonimo di Maria Volpi Nannipieri, è stata popolarissima nell’industria culturale italiana dagli anni Venti fino alla sua prematura scomparsa avvenuta nel 1940. Malgrado l’indubbia celebrità, le notizie su questa scrittrice sono piuttosto lacunose. Utili alla costruzione di un profilo sono: Oldrini 2006; Verdirame 2009, 157-162; e per i rapporti col cinema Mosconi 2009.
3 Il volume Dizionario del successo, dell’insuccesso e dei luoghi comuni è una raccolta postuma di brani tratti da I segreti del successo (1954) e Il Galateo (1965), firmati dall’autrice con l’aristocratico e fantasioso pseudonimo di Contessa Clara Ràdjanny von Skéwicht.
10 Dell’ampia bibliografia dedicata alla nascente industria culturale italiana e ai suoi rapporti con il cinema si vedano almeno: De Berti 2000; De Berti e Piazzoni 2009; e per il ruolo giocato dalle donne, mi sia concesso di rimandare a Cardone 2019 b.
11 Edita a Roma da Tuminelli, nominalmente diretta da Paolo Cesarini ma ideata e realizzata da Leo Longanesi, la rivista è finanziata dal Minculpop, tanto che i soldati che ne fanno richiesta possono riceverla gratuitamente. Come oggetto editoriale, Fronte. Giornale del soldato possiede i caratteri tipici dei periodici di intrattenimento a basso costo: la copertina e l ’ultima pagina sono colorate, mentre l’interno
del fascicolo, in bianco e nero, ospita varie rubriche di “svago letterario”.
12 Dei cinquantanove articoli soltanto quello dedicato ad Alida Valli (Brin 1940) è firmato da Irene Brin, mentre quello tributato a Ori Monteverdi (Brin 1941c) è siglato MDC (ossia Maria del Corso, ulteriore pseudonimo della scrittrice); tutte le altre conversazioni non sono firmate. Sono però da ritenersi tutti contributi suoi, come del resto la rubrica di posta dei lettori redatta dalla misteriosa “Irma”, non soltanto per l’omogeneità stilistica rispetto ai testi autografi, ma soprattutto perché è la stessa Brin a dichiararlo nelle sue corrispondenze familiari, come si legge in Mozzati 2016, 99.
13 Stella non certo di prima grandezza, ma confinata in ruoli secondari, Bianca Della Corte ha recitato in una decina di pellicole fra il 1938 e il 1942, prima di sposarsi e abbandonare il set. La sua presenza nella cartografia tracciata da Brin, assieme a quella di figure ancor più decisamente minori, testimonia l’intento della giornalista di chiamare a raccolta tutte le attrici italiane. Su Della Corte cfr. Chiti, Lancia e Poppi 1999, 98.
14 Figura interessantissima nel panorama dello spettacolo italiano, Leda Gloria ha esordito negli anni del muto, è stata protagonista di film importanti, diretti dai maggiori registi del cinema di regime, fra cui Blasetti e Camerini, e ha continuato a recitare anche nel secondo dopoguerra. Per un ritratto dell’attrice cfr. la intervista da lei rilasciata in Savio 1979, 609-621.

Lucia Cardone, Erranti e impreviste. Donne che camminano sugli schermi e nelle città del cinema italiano, Comparative Studies in Modernism n. 17 (Fall) 2020

Claudia Fusani: MILLE MARIÙ. Vita di Irene Brin, Castelvecchi, 2012
All’inizio, sostenuta da Giovanni Ansaldo, Maria Vittoria Rossi - di Sasso, nei pressi di Bordighera - adottò vari eteronimi per “il Lavoro” di Genova, storica testata socialista che nel famigerato ventennio sopravvisse come un’isola di anticonformismo. Fu “Irene Brin” grazie a Longanesi, che su suggerimento proprio di Ansaldo, la volle a “l’Italiano”, dove figurava anche come “Mariù”. Il nome le rimase cordialmente appiccicato. Dava quell’impressione di eleganza cosmopolita di cui la Rossi - coltissima autodidatta che conosceva a menadito Proust - era una straordinaria incarnazione. Più tardi, ricevette anche il nomignolo di “Contessa Clara” Ràdjanny von Skèwitch, per la “piccola posta” de “La Settimana INCOM illustrata”, un ruolo solo apparentemente eccentrico che altrove, nello spargere suggerimenti di bon ton, era ricoperto dalla futura signora Montanelli, quella “Donna Letizia” che di nome faceva Colette Rosselli. Con tutto ciò, Irene Brin non fu niente di meno che la più brava, colta, raffinata, strabiliante giornalista italiana, la cui scrittura etereamente realista e spericolata sorprende ancora oggi, tanto da sembrare inarrivabile. Col marito Gaspero del Corso, in odore di omosessualità, fu anche la conduttrice della romana Galleria dell’Obelisco, dove passò per la prima volta in Italia molta dell’arte internazionale del tempo. Fu anche la prima vera ambasciatrice del “made in Italy” nel mondo. La storia di Irene Brin è anche quella di una colta famiglia ligure della media borghesia, per altro imparentata con l’antifascista genovese e costituente Paolo Rossi, e dunque con la figlia Francesca Duranti. Il nipote della Brin - Vincent Torre, che ricordo benissimo a Genova nel clima della fine degli anni sessanta e che oggi, professore di neuroscienze, continua la tradizione di cultura - ha aperto all’autrice di questo studio biografico la casa di Sasso, permettendole la riproduzione di impagabili documenti.
Carlo Luigi Lagomarsino, Contessa Clara, Fogli di Via, luglio 2012
 
La d’Amico parla anche di come conobbe Flaiano e fornisce preziose informazioni sul suo carattere «estremamente riservato», ma «brillante e spiritoso»: "Flaiano, venuto dalla provincia in cerca di fortuna, avrà avuto le sue difficoltà come tutti noi. Non so dirti, perché ti dava l’aria di farti confidenza ed era invece estremamente riservato. Piuttosto piccolo di statura e non bello, conversatore brillante e spiritoso. Io non ho mai fatto vita di caffè, ma prima delle riunioni per la sceneggiatura di Castellani credo di avere incontrato Flaiano in una piccola galleria d’arte, la Margherita di Gasparo Dal Corso e di sua moglie Irene Brin, una scrittrice di talento molto maggiore di quanto non si creda, la quale teneva una rubrica di corrispondenza con un pubblico prevalentemente femminile. Si firmava contessa Clara, ed era una donna miopissima, sempre vestita in modo vistoso. Anche la Margherita era una delle tappe quotidiane degli intellettuali, che ci passavano sul far della sera, prima di andare in trattoria. Quel continuo stare in conversazione portava a un allenamento dialettico, a un costante scambio di idee..."
Fabrizio Natalini, Ennio Flaiano: una vita nel cinema, Artemide Edizioni, 2005


Si tratta della prima monografia dedicata a una delle più significative gallerie romane del dopoguerra, L'Obelisco (1946-1981), caratterizzata per anticonformismo e apertura internazionale determinata anche dall'importante attività di giornalista di moda di Irene Brin, che la diresse con il marito Gaspero del Corso. Nato da un convegno e da una mostra organizzati dalla Sapienza e dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea di Roma nel 2015, il volume comprende anche altri saggi e testimonianze di storia orale, raccolte per l'occasione da alcuni protagonisti dell'epoca. Specifiche tendenze (il surrealismo, l'arte optical e programmata, Videobelisco), artisti (Bruno Caruso, Afro, Alberto Burri, Giacomo Balla) e fotografi (Pasquale De Antonis) promossi dalla galleria sono approfonditi accanto a una rivisitazione del complesso ruolo che Irene Brin svolse nella moda, nel giornalismo e nella cultura italiana dal dopoguerra alla sua scomparsa nel 1969. Un ricco corredo fotografico, legato anche all'attività di giornalista di moda di Irene Brin, impreziosisce gli innovativi apporti documentari del volume.
Redazione, Schiaffini, Ilaria; Caratozzolo Vittoria, C.; Zambianchi, Claudio, Irene Brin, Gaspero del Corso e la Galleria L'Obelisco, Sapienza Università di Roma, 2018

Il 28 aprile 1951 Pasquale De Antonis inaugura alla galleria romana L’Obelisco la sua prima mostra di fotografie astratte. Il testo di presentazione è firmato da un artista e critico che, già affermatosi come pittore muralista negli anni Trenta, dopo l’esilio americano aveva inaugurato nella capitale una nuova fase della sua ricerca pittorica, sensibile al nuovo clima astratto-informale: Corrado Cagli.
La mostra è cruciale sotto diversi profili: per la prima volta il fotografo teramano presenta una monografica d’autore in una galleria d’arte, inserendosi a suo modo in una tendenza di sperimentazione astratta che aveva trovato nel dopoguerra rinnovato vigore.
[...] Infine la sede, la galleria L’Obelisco, costituisce qualcosa di più che una sede appropriata e à la page nel panorama romano dei primi anni Cinquanta. Non solo perché ospiterà ancora nel 1957 la seconda mostra del fotografo-artista, presentata da Leonardo Sinisgalli, ma anche perché le innovative aperture verso il mondo della moda, del cinema e della fotografia introdotte all’Obelisco da Irene Brin erano state all’origine delle riprese di modelle in musei e location d’arte, immagini che costituiscono uno dei contributi più originali di De Antonis del periodo romano.
[...] In via Leonida Bissolati, non lontano dunque dallo studio di De Antonis, si trovava La Margherita, galleria-libreria antiquaria che Irene Brin aveva cominciato a gestire dal 1943 per arrotondare gli introiti in tempo di guerra, mentre il marito, Gaspero del Corso, era costretto a restare nell’anonimato perché disertore. La scrittrice e giornalista, già inserita in una prestigiosa rete internazionale di relazioni, seppe attrarre, alla Margherita prima e all’Obelisco poi, una clientela composita di intellettuali, poeti, critici, aristocratici, diplomatici, attori, registi e, naturalmente, artisti. De Antonis si inserì in questo contesto, individuando rapidamente nella riproduzione delle opere d’arte un nuovo e promettente territorio di specializzazione professionale. I rapporti con Irene Brin si sarebbero trasformati, poi, in un sodalizio creativo negli anni dell’Obelisco, la galleria aperta nel 1946 dai coniugi del Corso in via Sistina, a poche centinaia di metri dal suo studio di Piazza di Spagna.
Ilaria Schiaffini, La mostra "Fotografie astratte" all’Obelisco nel 1951: il sodalizio fra Pasquale De Antonis e Corrado Cagli, Rivista di Studi di Fotografia, n. 6-2017  

Una ricostruzione della figura di Irene Brin nell’ambito dei rapporti tra Italia e Stati Uniti si trova nel puntuale saggio di Ilaria Schiaffini L’arte sullo sfondo de "L’Italia esplode": Irene Brin e i primi anni della galleria L’Obelisco, pubblicato in Irene Brin, L’Italia esplode. Diario dell’anno 1952, a cura di Claudia Palma, Viella Roma 2014. Nel saggio, oltre alla ricostruzione di mostre ed eventi organizzati dall’Obelisco, vengono raccontati i rapporti della Brin con diversi fotografi tra i quali Henri Cartier-Bresson, David Douglas Duncan, Richard Avedon. Gendel tuttavia non entrò mai veramente in contatto, se non casualmente con i fotografi che da tutto il mondo arrivavano a Roma. Il fatto di non aver mai inteso la fotografia come una vera professione non lo ha in realtà stimolato a conoscere personalmente i fotografi di cui ammirava senza dubbio il lavoro. Anche i rapporti con Irene Brin furono per Gendel occasionali: non ci fu mai tra i due una vera e propria amicizia.
Barbara Drudi, Milton Gendel. Un fotografo, critico d’arte e scrittore tra avanguardia e tradizione (1949-1962), Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia di Viterbo, 2014


[...] In mezzo a questo nugolo di nomi di sesso maschile che andò a gremire i fogli di una rivista [Almanacco della Donna Italiana] nata da donne, quasi con l’intenzione di soprintendere e di controllare, si fece largo Maria Vittoria Rossi (Marcucci, 2005: 129-136; Gnoli, 2005; Petrignani, 2015: 112), una giornalista ligure che da un paio di anni si firmava “Irene Brin” (Caratozzolo, 2006; Fusani, 2012), da un’idea di Leo Longanesi che con quel nome l’aveva arruolata da poco nelle fila di «Omnibus»
(Montanelli, Staglieno, 1985: 178-189). Questa donna ligure, appena maritata a Gaspero Del Corso (Montanelli, 2011: 109; Arbasino 2015), ufficiale del regime di Mussolini, poté sfruttare a proprio vantaggio l’unione coniugale con un importante militare dell’esercito fascista per intraprendere collaborazioni giornalistiche anche su periodici per i quali il MinCulPop da qualche tempo aveva, per così dire, un occhio di riguardo, e spesso sospetto (Mondello, 1987: 14-15). In precedenti occasioni abbiamo già sottolineato l’importanza di Irene Brin nella nascita e nello sviluppo delle rubriche di cronaca mondana, non soltanto su riviste e su periodici specialistici, ma soprattutto sui quotidiani di informazione a tiratura nazionale; l’abbiamo anche vista all’opera sulla materia narrativa e ne abbiamo apprezzato le doti di notista di guerra. In questo caso è utile, invece, soffermarsi su alcuni altri aspetti della sua pubblicistica che vanno dalla lettura di opere letterarie alla convergenza di queste con le questioni di costume; e verificare, inoltre, e per quanto è possibile, in che modo il suo lavoro abbia contribuito alla connotazione dell’«Almanacco della donna italiana» negli anni delle leggi razziali e poi della guerra (Ruggeri, 2004: 103-104), quali fossero le ragioni sottese a talune scelte e a taluni giudizi; quale, insomma, fosse il personale canone di letture e di preferenze di questa finissima penna emergente.
A Irene Brin non faceva difetto l’audacia; soprattutto, non faceva difetto la straordinaria capacità di dissimulare i propri giudizi dietro la fine patina di una scrittura brillante e venata di sapiente ironia. Quando scrive di Maria Assunta Giulia Volpi Nannipieri, meglio nota col nome di “Mura” (Verdirame, 2009: 260-262) ella sulle prime pare mettersi nella scia dei censori di regime che ne disprezzarono aspramente gli ultimi romanzi e la fecero cadere in sospetto alle autorità culturali. Una lettura più attenta e avvertita non soltanto delle sfumature di tono ma anche degli eventi privati e pubblici che investirono la scrittrice, ci indurranno a leggere queste righe dal lato del sarcasmo: "È successo così che ci siamo sprofondati nella letteratura a 60 centesimi la copia […]. Conosciamo, ad esempio, tutte le sfumature della signora Mura, questa recente asceta delle lettere, che alla nostra infanzia apparve perfida, pettinata alla paggio, e confinata con la signora Guglielminetti e il signor Pitigrilli nel misterioso regno degli Scrittori Proibiti. Ora, mutando pettinatura, la signora ha evidentemente mutato carattere, le sue fotografia ce la mostrano con eccezionali grembiuletti di stoffa scozzese, ed un sorriso eccessivamente materno. Saggiamente consiglia rimedi contro i brufoletti e le passioni, rimprovera le fanciulle sentimentali, e scrive storie adatte alle antologie scolastiche, con protagoniste tredicenni, perfette massaie e portinaie modello."(Brin, 1939: 169)
È noto che Mura, come abbiamo già accennato, incorse nella censura fascista per un paio di romanzi pubblicati ai primi anni Trenta: Niôminkas, amore negro (D’Amico, 2016: 277-278; Verdirame, cit.: 157-162) e Sambadù, amore negro (quest’ultimo una sorta di rifacimento del primo, con una appendice giudicata assai sconveniente) valsero alla stravagante scrittrice di origine bolognese l’accanimento delle autorità del Regime e il sequestro di questo nuovo romanzo.
Guido Bonsaver, al quale dobbiamo un prezioso volume abbastanza recente sulle disavventure occorse a scrittori e poeti, romanzi e articoli di giornale durante il Ventennio, sottolinea la reazione registrata dal rapporto scritto in seguito al fermo deciso sulle opere della scrittrice: “Mura non è certo la donna fatale, come molti la pensano, è depressa per il sequestro accennato” (Bonsaver, 2013: 118). Naturalmente si trattò di righe scritte coll’intento di scoraggiare non soltanto l’autrice medesima ma anche tutte le sue possibili emulatrici e appare altrettanto evidente quanto il commento di Irene Brin sulla nuova fase di Mura dopo queste traversie, dati i toni scopertamente graffianti, non vada giudicato una beffarda canzonatura della donna ma, piuttosto, una amara presa in giro dei metodi della censura che avevano ridotto una scrittrice eccentrica ma godibile a scrivere noterelle di nessun interesse, a dedicarsi alle questioni di belletto femminile, a placare maternamente quelle stesse passioni che un tempo ella accendeva, a spendere le proprie energie per dipingerci figure di laboriose ma miti donne di casa (benché non manchi, in chiusura di articolo, una stilettata: quei romanzi tedeschi, e in specie quelli di Katrin Holland, che si perdono in una stantia parabola sentimentale, potrebbero essere rifatti facilmente anche da Mura).
Allo stesso modo non è di facile decodifica il lessico col quale la giornalista introduce la parte dedicata a Luciana Peverelli. Insieme con la stessa Mura, Luciana Peverelli si presentava al pubblico e, soprattutto ai critici, quale “anti-Liala” (Verdirame, cit: 173-178; Rasy, 2000: 138-139). Questo ruolo - vero o presunto, assunto, cioè, non si sa se con puntuale volontà o, piuttosto, per aderire al desiderio di rivalità creata dalle stesse rubriche giornalistiche del tempo - dovette in un certo senso renderla assai duttile. Ecco che Irene Brin registra questa tendenza con tenue ironia ma anche denotando sapiente conoscenza della materia e delle connessioni che la legavano a un più ampio panorama europeo. Oggi gli studi critici sulle narratrici e sul pubblico di lettori e di lettrici fra anni Venti e Trenta è in grado di delineare con chiarezza di argomenti e ampiezza di documenti a disposizione le differenze di offerta narrativa che separavano la produzione della scrittura al femminile di fine Ottocento con quella dei decenni successivi (Innocenti, 2001: 208-220), ma al tempo degli articoli di Irene Brin accostare per Peverelli, come fece la Nostra, il modello di Serao a quello proustiano o il blasone di cui godeva Colette con l’opera pressoché sconosciuta di Louis Broomfield - più cineasta che scrittore - doveva sembrare del tutto ingiustificato, la bizzarria illogica di una lettrice disordinata.
Invece la giornalista di Bordighera aveva già ben chiaro quel che oggi si legge con dovizia di materiale documentario negli studi di genere sulla produzione narrativa delle scrittrici della prima metà del secolo scorso e il discrimine che separava la “donna appassionata, strana, forse superficiale, delicata, ammalata, nervosa, capricciosa, dalle apparenze varie che tutte seducono” dalla “donna sempre doppia e sdoppiata in un ludo perverso di innocenza” (Verdirame, cit.: 178) - sono parole che Rita Verdirame riporta nel suo studio sulle narratrici italiane fino alla prima metà del secolo XX - non era affatto evidente.
Certo, Irene Brin non resiste alla tentazione di rendere più opaca l’aureola che circondava Luciana Peverelli con l’uso di perifrasi dal tono sardonico, ma resta la nitidezza di una breve ma colta disamina.
Le poche attestazioni analitiche che siamo in grado di registrare su questi articoli si sono limitate, per lo più, a riscontrare l’eccezionale interesse di Irene Brin per la letteratura europea, in un contesto abbastanza ancorato ai fondali italiani, a partire dalla scheda del catalogo CIRCE che classifica riviste e periodici, fino alle cursorie considerazioni contenute nel volume biografico curato da Vittoria Caterina Caratozzolo o in quello già citato di Franchini e Soldani sulle giornaliste del Novecento; solo il testo edito da Marsilio qualche lustro fa e dedicato alle “scrittrici dimenticate” per le cure di Francesco De Nicola e Pier Antonio Zanon azzarda una lettura eccentrica rispetto alle solite che facevano delle pagine briniane di questa rubrica solamente la voce di una esploratrice rivoluzionaria nel mare delle lettere europee.
Non c’è dubbio che Irene Brin ponesse uno sguardo fresco e nuovo sulla letteratura fuori d’Italia, ma ci pare che il “sugo” delle sue indagini vada cercato altrove e riguardi prima di tutto la sua scrittura, il timbro e l’andatura delle parole, il gioco dei ragionamenti. In questo senso il carattere “esorcistico” che De Nicola e Zanon le attribuirono sin dai primi articoli disseminati tra i più vari fogli italiani ha una sua ragione [...]
Antonio R. Daniele, La critica delle donne: le letture di Irene Brin sull’«Almanacco della donna italiana» in (a cura di) Daniele Cerrato, Escritoras italianas fuera del canon, Universidad de Sevilla, 2017