martedì 24 marzo 2020

La Bordighera del 1952 di Anselmo Bucci

Giuseppe Balbo, Chiesetta di Sant'Ampelio a Bordighera - Fonte: Archivio Balbo
 
Davanti a un monte, coperto di fiori, come davanti al Tempio della Vittoria in Agrigento, si resta muti. Gradi e tipi di bellezza sospendono il pensiero. Da quando sono qui, non penso più a nulla. Mi pare il miglior elogio a questo celeberrimo paese [Bordighera (IM)]. Francesco Pastonchi mi disse un giorno: “aspetti frivoli della Riviera li han fatti gli uomini: la vera Riviera è uno scoglio alpino fiorito di rododendri”. Parola profonda. L’opulenta riva ha un provvidenziale spazio grigio: la massa dei monti, la loro struttura nuda, severa, a contrasto.

Temevo che la primavera “eterna” cedesse al confronto della tenera primavera fuggitiva delle plaghe dove c’è l’inverno. Invece regge. Credevo che in questa Riviera, sempre vestita a festa, il verde primaverile fosse invisibile. Invece, è evidente. Il canto degli uccelli pare meno nitido, fitto, avido. Ma c’è. Anche gli uccelli milionari fanno all’amore. La dominante è invisibile: l’aria. Entra da sola nei polmoni senza che il mantice ve la spinga; si frappone tra voi e gli oggetti come un cristallo, una lente tersa; eleva i rumori a suoni. Le piante vi stanno immerse, beate: vedi laggiù quell’eucaliptus con i rami sospesi come belle braccia nude e le chiome ariose, crepitanti!

La luce la vedono tutti. Qui ogni aspetto può diventar bello; bella ogni cosa, anche se piatta e frivola, come accade agli occhi degli innamorati.

Capisco che questi due vecchi, coppia secolare, che passano claudicanti col bastoncino sotto gli oleandri alternati alle palme, siano persuasi di essere felici. Non ancora la decrepitezza mi ha spinto qui, ad ammirare ancora una volta i grappoli aranciati dei datteri e i caschi verdi delle banane; ma una inattesa anzi temuta autorità di giudice, alla quale mi sento poco adatto.

Si trattava di vagliare, di premiare le opere degli Artisti americani in Europa che fanno a Bordighera la loro prima esposizione. L’idea è bella: degna la mostra, la quale echeggia tutte le risonanze pittoriche d’Europa, ma offre anche opere di un accento inatteso, acerbo; opere, appunto, americane. Acquisti - premi sono stati fatti per fondare qui una Galleria d’arte moderna; e la mostra diverrà annuale e sempre più importante.

L’arte, anzi la letteratura, rivelò la “città delle palme” [Bordighera (IM)] soprattutto all’estero: il “Dottor Antonio” di Giovanni Ruffini, il romanzo della patetica Miss Lucy, prima noto ed apprezzato dagli inglesi che da noi; De Amicis con il “Paradiso degli Inglesi”; il Mantegazza, Matilde Serao e molti altri. Il paradiso degli Inglesi può diventare quello degli Americani. Per ora è il paradisetto degli Italiani; di cui si parla già nel mondo, da tutti i personali d’albergo, come dei migliori turisti; ma sottovoce, per non scoraggiare quegli altri.

Gli altri, eccone un gruppo là sulla strada di primo mattino; un gruppo di fanciulle nordiche alte e sottili, vestite di cenci, dai visi d’angelo, dalle scarpe di soldato, oppresse da zaini e sacchi enormi, da contrabbandiere. Viaggiano a piedi. Curve, a passi brevi e lenti, passi di condannato a morte, salgono alla vista del mare. Si fermano un istante, guardano, e proseguono il turistico calvario.

L’onda del mare sulla spiaggia ha l’impeto di uno scroscio di applausi, quando la risacca rotola la ghiaia minuta; il tipico applauso oceanico, a cui ci ha abituato la radio. Questo battimano mi sveglia alla mattina.

La chiesetta di Sant’Ampeglio piantata sugli scogli, si disegna sulla punta estrema del capo, contro il velo scintillante del mare. Con i tre piccoli tetti rossi sembra nuova fiammante, la vetusta chiesa cristiana forse troppo restaurata; ma non perde tutto il patetico di capanna di pietra, con un campaniluzzo e un portichetto. La rovina del Casinò a destra e i suoi finestroni sventrati a tutti i venti e i vuoti “occhi di bue” immalinconiscono il paesaggio.

Tre pescatori adusti con le canne a spalla scendono scendono verso il mare; due altri ne tornano con la loro cassettina di aringhe vive, che portano alla città alta, la casbah di Bordighera. Lo scintillìo del Tirreno scende a mordere gli scogli. Grandi rondini forcute violente incrinano il paesaggio in tutti i sensi. Poca gente sul Capo Sant’Ampeglio. La “stagione” non è ancora aperta. Ma pie donne cristiane con il velo nero si avviano alla messa nella chiesina, e drappelli paganeggianti di fanciulle seminude, dal passo marziale nel sandalo rosso, al mare.

Uno sperone di roccia mi impedisce di vedere da qui la vicinissima valletta amena, folta di ogni pianta verde preziosa, in cui biancheggia come neve il monumento marmoreo a Margherita Prima Regina d’Italia, stupendo per dignità e dolcezza, opera di Italo Griselli. E’, certo, la “statua seduta” più bella che si possa vedere, nell’arte del nostro tempo.

Ma sopra quella rupe si incide nel cielo una koubà, un grigio, modesto, piccolo dado in muratura con un cupolino depresso: arabo senza dubbio; la tomba di un santone, un marabath dell’Islam, in simmetria con la chiesetta. Peccato che un’imminente antenna elettrica lo disonori.

Quando me lo indicarono, e me ne meravigliai, mi si spiegò che il nome “Bordighera” non deriva affatto dal Burdigala dei Celti, né dal provenzale bourdigué che vuol dire pescaia; ma da Borj-el-gherà, forte dell’anfiteatro (teatro o anfiteatro di collina ) e che l’atto di nascita della “città delle palme” non risale soltanto al 2 settembre 1470 con l'atto di alleanza degli “Otto Luoghi” fra i quali “Bordighetta”; ma ben più in là, nei secoli bui, in cui la città fu saracena. Del resto quel dado, quella koubà, ne fa fede.

Così mi assicura il pittore Balbo, buon “tiranno” artistico di questi luoghi (ogni città d’Italia ha un tiranno artistico), noto africanista, che pare arabo anche lui, con quella faccia ancora giovanile, ma screpolata da meridiani e paralleli di rughe solari, tale che pare cotta al forno. Questo collega pieno di ottimo fervore patrio, e altri amici ritrovati qui, primo Bernardino detto il Nipote, pittore moderno armato di potente automobile (ma sa disegnare), mi hanno rivelato a volo le varie bellezze di Bordighera; e non soltanto il Circolo degli stranieri e la passeggiata lungomare e la Via romana e il Museo di antichità della Liguria; ma i colli vestiti di fiori, i monti vestiti di ulivi, lo stupendo retroterra e il paese di Sasso nitido e apparentemente deserto in una ridente solitudine; la valle del Roja austera e l’osteria della Truffa, celebre per le sue trote nee che io suppongo incrociate coi lucci, e che hanno tuttavia la carne salmonata; la frontiera di Francia affollata di macchine come piazza della Concordia; i giardini stupendi dai nomi esotici; ed infine il palmeto famoso che dà le palme al Papa per la Settimana Santa: privilegio concesso a quel marinaio di Bordighera nominato Bresca che gridò in piazza S. Pietro: “acqua alle corde!” quando vide l’obelisco egiziano in pericolo, sfidando così l’ira di Sisto V, che era Papa “cocciuto e stizzosetto”.

Tutto m’han fatto vedere questi amici, tutto; meno una cosa, di cui han sempre parlato per incidenza senza mai dire “andiamo”: delle Cinque bettole della città alta, o città vecchia. Forse ne erano umanamente gelosi, e bisogna compatire alle debolezze umane.

Questa perla, la Città vecchia, ho dovuto vedermela da me.

L’ho scoperto, solo, stasera; e m’è parsa la più bella cosa del mondo.

Raggiungo uno spiazzo, tra le agavi, le palme, i cactus, le euforbie. Un enorme “ficus” dalle foglie metalliche fa un disco d’ombra. Tre annosi navigatori riposano a colloquio sopra un sedile. Uno sta dicendo: “Ho cambiato varie sterline d’oro a Napoli, nel millenovecento…” e mi guarda passare, con due cerulei occhi non-ti-scordar-di-me.

Ecco la muraglia della fortezza smantellata qua e la, tinta a toppe di calce bianca sulle pietre vive; archi dappertutto, contrafforti, speroni, una vetusta porta isolata, di squisita fattura, rosa alla base; un vicolo chinato, lastricato di mattoni a coltello, nitido e tutto rosa.

Mi trovo in una piazzetta incantevole, da Cavalleria Rusticana, piena di marmocchi bronzei non insolenti, e di bella gente seminuda e torrefatta sull’argento dei carrettini di pesce; fra scenari dipinti che circondano una chiesa dipinta.

Entro in chiesa, buia e dorata, di un fasto d’oro fiorito - dappertutto fiori olezzanti - genovese e napoletano. Nessuno. Esco al sole. In una attigua piazzetta solitaria che ascolta il chioccolio di una fontanella, tutti i vecchioni bordigotti lassù sono schierati, lungo l’alta ringhiera, i nonni a sinistra, le nonne a destra, a prendere il sole e a godere il dominio dei paradisi sovrapposti,dei giardini, dei verzieri,dell’immenso mare. I vecchi nocchieri forse, scrutando il mare sempre deserto, senza mai una vela, scuotono la testa.

Sprofondiamoci nei vicoli, in discesa e in salita, divisi di ombra e di luce, arcuati sulle gobbe della collina. Qui il giuoco dei voltoni crea una pietrificata foresta di palme; più in la due scale esterne scendono quasi a baciarsi, lasciando giusto il passo ad una persona; oltre ci sono porte a tutte le altezze, finestre di ogni forma e statura, vicine per tutte le confidenze d’amore, per tutte le probabili e impossibili avventure. Nitore per terra; ombra colorata dappertutto. Nessun angolo in cui l’occhio non sia divertito. Tutte le ore sono presenti: la notte, il giorno, il crepuscolo, l’aurora. Tutti i mesi dell’anno e le stagioni si alternano seguendo i passi; ed ogni forma di architettura, dalla grotta tunisina imbiancata a calce e abbagliata dal neon in cui il barbiere rade il cliente, al palazzo genovese riquadrato e dipinto, nella gloria del sole. E Genova, e Venezia, e Napoli e Algeri, e tutti i porti del Mediterraneo. Intimità. Non pare di andare per via, ma di attraversare le case: certe stupende intimità di Pompei.

Ma la meraviglia sono i bastioni. Qui veramente è la fortezza moresca. “Via alle Mura” è una serie di archi di cotto altissimi che fanno il giro della cittadella, e creano un portico tenebroso, interrotto da strette zone di luce, che sono le viuzze accorrenti. La volta più larga della base dà il carattere del levante.

Mentre ammiro estatico, rare ma ben note detonazioni si annunciano alle mie spalle; uno dei fragorosi ordigni in cui i sedentari viaggiano in un assordante semicupio, minaccia da vicino. Non posso tenermi dal gridare: “anche qui!”. Purtroppo la “città del silenzio” ne è piena. L’ultima illusione della mia gioventù è distrutta. I crostacei rossi hanno invaso la collina. Nella piazzetta che melanconicamente voglio rivedere l’ultima volta, irrompe un bolide fracassante, una torpedine detonante che reca, sprofondati , un centauro grasso e un ragazzetto magro. Il finimondo è tale che i fondali e le quinte del teatrino, le architetture genovesi arabe pisane turchesche cadono, procombono una sull’altra e tutte precipitano sulla chiesa dipinta.

Mi salvo con la fuga.

 Anselmo Bucci, Corriere della Sera, 16 luglio 1952, digitalizzato in Archivio Balbo


domenica 22 marzo 2020

Arturo, Giacò, Jean...


Punta Beniamino vista da Mortola, Frazione di Ventimiglia (IM)


Chiesa dell'Addolorata in Località Morghe di Dolceacqua (IM)

Arturo Viale, Ho radici e ali, ed. in pr.
 
[ n.d.r.: altri scritti di Arturo Viale: L'ombra di mio padre, 2017; ViteParallele, 2009; Quaranta e mezzo; Viaggi; Mezz'agosto; Storie&fandonie ]





mercoledì 18 marzo 2020

Il British Cemetery di Bordighera (IM)


Nel varcare la soglia del «British Cemetery»  di Bordighera in località Arziglia si è subito investiti da una duplice sensazione di solennità e pace. Gli spazi verdi curati meticolosamente, le lapidi bianche tutte uguali ed equidistanti tra loro, una maestosa croce di pietra al centro: le tombe appaiono integrate naturalmente con l’ambiente circostante, immerse nel verde silente della collinetta. 

Un paesaggio della memoria capace di essere potente ma non invasivo, confinato in un recinto murario austero che lo protegge e lo amplifica.
Nonostante la bellezza dello spazio funebre, il cimitero militare è sconosciuto ai più, e ancor meno nota sembra essere la motivazione per cui esso fu impiantato.
Una targa in metallo all’interno del perimetro sepolcrale risponde a questa iniziale domanda, fornendo al visitatore le coordinate principali per conoscere la natura del luogo.
Lo stesso scopre così di trovarsi all’interno di un sacrario militare britannico eretto alla fine della Prima guerra mondiale allo scopo di dare degna sepoltura ai combattenti del Regno Unito - e non solo, come vedremo - che hanno lasciato le proprie spoglie mortali nella Città delle palme.
Due epigrafi gemelle ricordano il congiunto sacrificio degli eserciti alleati.
Bordighera, che già ospitava una nutrita colonia di Sua maestà, nella parte finale della Grande Guerra diventa infatti sede di due ospedali militari inglesi: il 61° tra il gennaio del 1918 e il gennaio del 1919, e il 66° tra il gennaio e il marzo del 1918.
Qui sono venuti a mancare numerosi soldati per le conseguenze delle ferite riportate in combattimento o, più spesso, per malattia.
La presenza delle forze britanniche sul fronte italo-austriaco nella Prima guerra mondiale è potenziata dopo la disfatta di Caporetto [...]
Nel marzo 1918 avviene un avvicendamento delle truppe inglesi sul fronte italo-austriaco [...]
La loro partecipazione alla campagna d’Italia vedrà, tra gli altri, l’intervento nella battaglia risolutiva di Vittorio Veneto e in diverse azioni fino all’armistizio 4 novembre, lasciando sul campo oltre 2.600 caduti.
Sin dal 1917 la Gran Bretagna si occupa delle migliaia di connazionali morti all’estero attraverso l’istituzione della Commonwealth War Graves Commission.
Da una relazione statistica del Ministero della Difesa è possibile fotografare la situazione dei caduti britannici della Grande Guerra inumati in Liguria.
Essi si trovano raggruppati principalmente tra Bordighera, Savona e Genova Staglieno.
Tutti i cimiteri britannici all’estero sono stati concepiti secondo precise caratteristiche: cura degli spazi verdi, organizzazione, ordine.
Ad ogni singolo soldato è dedicata una lapide permanente con inciso il proprio nome, il corpo d’appartenenza, ed una frase rituale quale «gone but not forgotten» o «not dead but sleeping».
Nessuna distinzione tra rango, razza o culto, fatta eccezione per il simbolo religioso inciso sulla lapide.
La presenza inglese a Bordighera durante la Prima guerra mondiale non è contraddistinta unicamente dalla degenza negli ospedali territoriali.
Numerosi furono gli alberghi requisiti per ospitare le truppe di passaggio o residenziali.
Tra questi la «Pension Jolie» di Via Regina Margherita di proprietà di Gustavo Adolfo Maccaferri, il «Vittoria» di Via Regina Elena di proprietà della vedova del Sig. Seeger Adamo.
In una simile cornice si comprende come la guerra abbia inibito il turismo ma non il lavoro cittadino, perché «quantunque siano mancati in gran parte i forestieri d’albergo, il commercio locale ha subito indubbiamente un notevolissimo sviluppo, essendosi avuto costantemente - a Bordighera - tra profughi, truppe, ospedali militari e prigionieri di guerra - non meno di duemila persone in più del consueto».
A partire dal 1918 sulla comunità bordigotta e sui suoi ospiti stranieri si abbatte la falce dell’epidemia influenzale.
Sarà essa a causare il maggior numero di vittime nelle fila britanniche, imponendo la necessità di realizzare il sacrario [...]
Una delibera del consiglio comunale relativa ai fondi da stanziare per il servizio di trasporto eccezionale a beneficio del medico condotto Odello, conferma la portata del morbo e la sua estensione: «Ritenuto che ai primi di settembre del decorso anno 1918 ebbe disgraziatamente a manifestarsi in questa città la nuova epidemia di influenza, conosciuta sotto il nome di febbre spagnola, epidemia che prese in seguito un notevole sviluppo e che durò può dirsi fino al gennaio dell’anno corrente».
Con decreto luogotenenziale n. 896 del 23 giugno 1918 sono emanate le norme per la costruzione dei cimiteri militari per alleati deceduti in Italia.
Tali disposizioni snelliscono la burocrazia e consentono una più veloce realizzazione di sepolture.
Esse riguardano soprattutto località dove sono impiantati ospedali militari per truppe straniere e prevedono che le spese di acquisto dei terreni destinati al cimitero  spettino allo stato italiano, e che i costi di gestione vadano ai governi alleati.
Il 29 gennaio 1918 il comandante del presidio militare inglese a Bordighera scrive al commissario prefettizio della città chiedendo l’autorizzazione a «costruire un cimitero [...]».
Sono dunque gli stessi alleati a individuare una porzione di terreno adiacente al già esistente cimitero civile acattolico ove riposano molti connazionali di Sua maestà in passato residenti a Bordighera.
Si tratta di due lotti da espropriare ai signori [...] per un totale di quasi 550 metri quadrati.
Soltanto dieci giorni più tardi il medico provinciale e l’ingegnere del consiglio provinciale sanitario effettuano un sopralluogo nel sito prescelto per la sepoltura dei soldati.


Il 12 dicembre 1918 la commissione darà parere favorevole per la costruzione, anticipata da una delibera comunale del 31 agosto che ne approvava l’impianto: «Il Commissario Prefettizio […], delibera di approvare, come approva, la costruzione in Bordighera di un cimitero per il seppellimento dei Soldati Inglesi […]».
I costi e il progetto saranno a carico del governo inglese.
Il direttore dei lavori è il tenente colonnello Lowry, di stanza presso la Villa Moschini di Longara (Vicenza), sede dell’Imperial War Graves Commision in Italia.

Nonostante le successive autorizzazioni del sottoprefetto di Sanremo (21 giugno 1919) 12 e della direzione del Genio militare di Genova (29 agosto 1919) 13, al 3 agosto 1920 non sono ancora iniziati i lavori di costruzione del sacrario 14, complice un intralcio burocratico relativo alla compravendita degli spazi.
Finalmente il 20 agosto 1920 il cantiere è inaugurato, non senza aver lasciato aperta una questione fondamentale: il pagamento dei terreni espropriati.
Già il 1 aprile 1919, infatti, il signor [...] denuncia il mancato pagamento dell’appezzamento di sua proprietà requisito dal comando inglese per la costruzione del sacrario.
L’importo dovuto è a carico dello stato italiano come indicato nel sopracitato decreto n. 896, disposizione confermata da una successiva circolare del Ministero della guerra.
Nonostante ciò un’interessante lettera del sottoprefetto di Sanremo indirizzata al Commissario prefettizio di Bordighera parla di occupazione degli spazi «con provvedimento sommario» da parte degli alleati.
La vertenza legale si protrae ancora e alla data del 6 novembre 1922 [...] non sono ancora stati risarciti.
Si arriva ad una parziale soluzione soltanto nel 1926 quando a quest’ultimo vengono saldate 1.100 lire, mentre rimane sospesa la pratica di Allavena, non riconosciuto come proprietario del lotto da almeno trent’anni.
Quello del risarcimento non è l’unico inciampo di immagine che causa la realizzazione del cimitero. A partire dal novembre 1924 si apre infatti il contenzioso per l’erogazione gratuita dell’acqua utile alla cura del sacrario. [...]
In quello stesso periodo, infine, si registrano le lamentele dei turisti inglesi rispetto alle pessime condizioni della strada di accesso al sacrario. Si chiede pertanto di intervenire «per evitare le critiche della numerosa colonia Inglese» 23, la quale « ha fatto più volte giuste rimostranze per le condizioni pietose in cui si trova il breve tratto per cui si accede al Cimitero». 
La risposta del commissario fascista è a tal proposito seccata e risolutiva: per sistemare la strada sono sufficienti « una giornata di mano d’opera di due operai e tre carri di ghiaino».

[...] Nel sacrario si trovano in tutto 84 sepolture, 68 appartenenti a soldati britannici optimo iure, 4 del più ampio insieme del Commonwealth (di questi 3 soldati caraibici e 1 indiano), e 12 dell’Impero austro-ungarico (prigionieri di guerra). 83 sono uomini, una è donna. La sola dislocazione delle sepolture è di per sé assai indicativa di una certa gerarchia della memoria che sottende all’impianto
funebre. 


Mentre le lapidi dei soldati britannici sono disposte ordinatamente lungo diverse file, ai soldati nemici è destinata una tomba più piccola, interrata e apparentemente nascosta all’occhio del visitatore.
Tra esse si trova inoltre la sepoltura del soldato indiano, quasi confinato in un limbo della memoria: non con gli inglesi, ma neppure allo stesso livello dei nemici. Una posizione che induce molte riflessioni.
Basandoci sui soli simboli religiosi presenti sulle lapidi, fatta eccezione per il soldato indiano e due soldati britannici (rispettivamente ebreo e ateo), tutti i caduti professavano fede cristiana.
La componente multirazziale dell’impero britannico emerge dalla presenza del soldato indiano e di 3 uomini di colore nativi caraibici.
La principale causa di morte è l’epidemia di influenza che colpì soldati e prigionieri austroungarici.
Molti tra gli uomini scomparsi servivano infatti i reparti medici dei due ospedali militari inglesi a Bordighera: sono loro i più colpiti dall’epidemia.
L’età media dei caduti (di cui si conosce la data di nascita) è poco più di 30 anni [...]
A questa dimensione numerica è opportuno tentare di affiancare l’aspetto qualitativo della vicenda.
Piccoli approfondimenti biografici, accompagnati nei casi più fortunati da un ritratto, ci consentono in ultima istanza di estrarre dalla pietra i nomi, riconsegnandoli per un istante alla loro dimensione corporea ed esistenziale.
Tra questi vale la pena ricordare il capitano dei fucilieri Maurice Gilbert Parkinson. [...]
Storie di valore e patriottismo incondizionato, come quella di William Stevens, fanteria leggera, scomparso in ospedale il 14 gennaio 1918.
[...]
Ma Sua maestà non sembra essere stata sempre così riconoscente.
Ben tre delle 84 sepolture del sacrario di Bordighera appartengono infatti a soldati del « British West Indies Regiment », una divisione di soldati volontari originari delle colonie occidentali: sono Charles Skeete, A. Reid e Samuel Urayah Thompson. Uomini di colore che cercavano attraverso l’arruolamento volontario l’affrancamento dalla condizione segregante imposta dall’imperialismo d’oltre Manica. Troveranno la morte nella Città delle palme, seguiti non molto tempo dopo da diversi compagni che, al termine del conflitto, furono oggetto di una delle pagine più grigie della storia militare britannica della Prima guerra mondiale.
Il 9° e il 10° battaglione nel 1918 vennero infatti concentrati a Taranto e smobilitati precocemente onde scongiurarne le legittime richieste emancipazioniste.
Ciò innescò la sollevazione dei caraibici, la cosiddetta rivolta di Taranto, soffocata nel sangue dagli stessi inglesi.

Se per i componenti del «British West Indies Regiment» la guerra fu un’occasione mancata di autodeterminazione individuale, per Rachel Ferguson essa rappresentò la dimostrazione di un maggiore protagonismo femminile nella società.
«She gave her life for her country»: recita così l’epitaffio scolpito nella sua lapide.
La donna, reclutata nelle fila dei Queen Alexandra’s Royal Army Nursing Corps, aveva prestato servizio dal 7 novembre 1917 fino alla fine dei suoi giorni presso l’ospedale militare inglese n. 62.
[...] Fu ancora una volta la malattia a spegnere John Virald Walsh, 20a compagnia «Manchester Regiment».
[...] E molte altre storie sarebbero da approfondire, carte d’archivio permettendo.
In questo teatro della memoria troviamo personaggi che stuzzicano la fantasia e ben si prestano ad una narrazione variopinta della più Grande Guerra che l’Umanità abbia probabilmente conosciuto.
Si avvicendano sul palcoscenico della memoria individui come William Macpherson, postino del genio zappatori; il capitano medico George Kneith di Edinburgo, sopravissuto ad un siluramento nel Mare Egeo, pioniere nello studio della cura del cancro, morto di «pneumonia»; Henry Arthur How, ucciso dalle ferite riportate in combattimento sull’Altopiano di Asiago; l’aviatore Willam Shiley Fage; l’ebreo Abraham Peters del «King’s Liverpool Regiment»; il sergente Francis Mckenzie del Corpo sanitario, morto a causa di un incidente automobilistico; l’autiere Harry Mileham, scomparso per le complicazioni di un’operazione chirurgica; l’indiano Rup Lal, tumulato in disparte vicino ai nemici (perché?); e infine questi ultimi, prigionieri di guerra, defunti insieme ad altri dieci milioni di soldati di tutte le nazioni, sacrificati per il nuovo ordine mondiale. [...]


di Graziano Mamone da Diario del dolore. Feriti e crocerossine nella Prima Guerra Mondiale attraverso le loro scritture in Le vittime della grande guerra e il ruolo della Croce rossa di Costantino Cipolla e Susanna Vezzadini, Franco Angeli Edizioni, 2018



lunedì 16 marzo 2020

Ricordi singolari in proposito del deputato contadino Abbo e del figlio Libero

Borgomaro (IM) - Fonte: Wikipedia
 
[...] "Petren" Abbo * il primo deputato contadino socialista del Ponente ligure che entrò in Parlamento nel 1919 e successivamente aveva aderito al Pci. Coloro che hanno conosciuto Petren lo ricordano anche per la sua voce decisa e robusta.
Posso testimoniarlo avendolo conosciuto negli ultimi anni di vita e vissuto con lui un episodio oratorio a Borgomaro. Correva la primavera del 1965 e il Pci aveva organizzato una serie di comizi per ricordare il ventennale della Liberazione.
Anche quel tardo pomeriggio festivo avevo approntato microfono e altoparlanti collegati a una batteria supplementare sulla Fiat 1100 di proprietà della Federazione del Pci. Il comizio era stato preparato sulla piazzetta oltre il ponte sul torrente. Avevamo convenuto che cominciasse Petren Abbo. Il pubblico era intervenuto in un numero rispettabile. Avevo sistemato il microfono di fronte all'anziano oratore, ma Petren, con un gesto studiato del braccio, lo aveva allontanato: non sia che il comizio venga "dopato" dal mezzo tecnico! La voce denunciava pur sempre le origini volitive, ma gli anni c'erano tutti e la fatica incominciava a pesare: Petren concluse il comizio con fatica, ma con le caratteristiche con cui l'aveva iniziato, senza strumentazione in appoggio. È stato l'ultimo comizio di Abbo, il deputato contadino che aveva segnato un'epoca.
[...]
Se a Tovo eri certo di trovare un pubblico numeroso e attento, al comizio in altre località dell'entroterra in diverse occasioni molti di noi avevano parlato di fronte a pochissime persone e non consolava sentirsi dire che molti non erano di fronte all'oratore ma, stessimo pur certi, avevano ascoltato l'orazione da dietro le persiane!
È anche accaduto di trovare una folla insperata che viene fatta "evaporare": è il caso di un comizio programmato a Lucinasco in occasione delle elezioni politiche del 1968.
L'appuntamento era per una domenica pomeriggio. Eravamo preparati a un risultato non esaltante perché il Pci nella località prendeva pochi voti, anche se era il borgo natale di Petren Abbo il quale per giustificare la nostra debolezza a Lucinasco soleva recitare il proverbio latino "nemo propheta in patria". Quando dalla statale, dopo Chiusavecchia avevamo deviato per la provinciale che conduceva a Lucinasco in cima alla collina, avevamo osservato che ci sopravanzava una colonna di almeno una dozzina di auto che "scortava" il candidato democristiano Emidio Revelli **, un avvocato di Taggia che si apprestava a conquistare un seggio in Parlamento.
Giunti a casa di Libero Abbo, il figlio di Petren, che fungeva da nostro referente, avevamo appreso che il comizio democristiano era stato programmato mezz'ora prima di quello del Pci. Eravamo giunti sotto il porticato, in piazza del comune e avevamo trovato una folla straripante per le dimensioni del paese, sicuramente superavano il centinaio. L'oratore Dc senza porre indugi aveva iniziato a parlare sapendo "di giocare in casa" per usare il gergo sportivo. La presenza del prete al comizio era eloquente e quella di molta gente era un fatto fuori della normalità, sicuramente lo era per Libero che non aveva saputo contenersi e aveva cominciato a subissare di improperi l'oratore dello scudo crociato in merito agli scandali del tempo. Nonostante la moglie cercasse di fermarlo, con il procedere del comizio Libero si esaltava e non ascoltava nessuno e le mie pressioni per farlo zittire non sortivano risultati e io paventavo che l'oratore, che si avviava a concludere il suo intervento, avrebbe saputo cogliere l'opportunità che gli era stata offerta per appiopparci l'appellativo di antidemocratici. E così era avvenuto: con gesto plateale, l'avvocato democristiano aveva invitato i presenti ad andar via. Per la verità non tutti avevano accolto l'invito, si erano fermati una trentina, una presenza su cui un comizio del Pci, senza l'iniziativa anticipatrice della Democrazia cristiana, non avrebbe potuto contare, ma è pur vero che l'effetto sgombero tra i più avvertiti aveva lasciato il segno.
[...]

* Pietro Abbo era nato a Lucinasco (Porto Maurizio) il 20 febbraio 1884 ed era deceduto in Lucinasco (Imperia) il 12 maggio 1974. l'Unità del 13 maggio 1974 lo ricordava come "un oratore poderoso". Quanto sopra è riportato da Danilo Bruno "Pietro Abbo il deputato contadino" ed.  Dominici Imperia - dicembre 1986.

** Emidio Revelli, avvocato nato a Taggia il 31 gennaio 1930, deceduto nel giugno del 2006. Era stato parlamentare dalla V all'VIII legislatura


Giuseppe Mauro Torelli (1), Viaggio tra generazioni e politica, ed. in pr., 2017

(1) Giuseppe Torelli [Nato a Imperia il 13 marzo 1940]. Figlio di artigiani, ha conseguito la maturità scientifica nel liceo Vieusseux di Imperia. Eletto parlamentare nel 1983, ha partecipato ai lavori della Camera dei deputati nell'ambito del gruppo del Pci nella IX e X Legislatura. In Parlamento è stato componente della Commissione Interni e successivamente della Commissione Esteri. In tale contesto ha avuto l'incarico di responsabile dei problemi dell'ordine pubblico e delle forze di polizia e dei Vigili del fuoco, con particolare riferimento alla problematica della Protezione civile. In precedenza, a partire dal 1965, è stato per venti anni consigliere comunale di Imperia, svolgendovi lungamente la funzione di capogruppo. È stato Sindaco del capoluogo nel 1975. Eletto consigliere provinciale nel 1990, nell'ambito della legislatura ha svolto la funzione di Presidente della Commissione Affari istituzionali. Membro dell'Unione regionale province liguri, è stato eletto altresì nell'assemblea nazionale dell'Upi. Nella Federazione Giovanile Comunista Italiana (Fgci) ha ricoperto l'incarico di segretario provinciale e componente del Comitato Centrale. Nel Pci, dal 1972 al 1983 e quindi nel 1991, ha svolto le funzioni di Segretario provinciale e dirigente in organismi provinciali, regionali e nazionali, come altresì successivamente nel Partito Democratico della Sinistra e nei Democratici di Sinistra. Nel 1989 aderì alla mozione, voluta tra gli altri da Pietro Ingrao e Alessandro Natta, contraria alla svolta della Bolognina, operata dal segretario del Pci Occhetto. Tale mozione si affermò in provincia di Imperia nel congresso del 1990. È stato componente della Presidenza del Consiglio nazionale dei Garanti dei Ds a partire dal congresso di Pesaro del 2001. Al congresso Ds di Firenze del 2007 non aderiva alla proposta di dar vita al Partito Democratico. Dal 1998 era componente del Coordinamento nazionale dell'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra (Ars), di cui è stato tra i promotori e Presidente dell'Ars di Imperia intitolata ad Alessandro Natta. [n.d.r.: deceduto il 12 agosto 2019]. da Wikipedia


giovedì 12 marzo 2020

Quando a Sanremo c'era il Festival della Moda Maschile

Foto Moreschi

Il Festival della Moda Maschile nato a Sanremo nell’autunno del 1952 venne ideato e realizzato a Milano da Michelangelo Testa, direttore ed editore della rivista Arbiter
Il progetto di promuovere una rassegna dedicata alla moda maschile rappresentava l’occasione per dotare di una importante vetrina nazionale e internazionale l’industria tessile e della sartoria italiana, un settore che agli inizi degli anni 50 occupava oltre 800.000 persone. 

Foto Moreschi

L'idea ed il progetto di Testa vennero inizialmente osteggiati perché giudicati da molti una stravaganza ed una sciocchezza. 

La moda maschile non aveva spazio sui giornali ed era marginale nelle rassegne dedicate alla moda perché era opinione comune che la moda maschile, rispetto a quella femminile, subisse di stagione in stagione variazioni molto meno sensibili e presentasse caratteristiche di sobrietà, che contribuivano a far passare inosservato il fenomeno. 

Nelle diverse manifestazioni, che si svolgevano in quegli anni, gli abiti maschili venivano presentati sempre e soltanto sui manichini e l’idea di farli sfilare in passerella destava da un lato curiosità e dall’altro ilarità. Proprio la presenza di forti polemiche sulla figura dell’indossatore fu motivo del rifiuto a ospitare la manifestazione opposto da diverse città ed enti turistici, cui Arbiter avanzò la proposta. 

Soltanto la città di Sanremo si dichiarò disponibile grazie all’interessamento dell’assessore al Turismo di allora, Adriano Morosetti, ed al fatto che la città poteva vantare una particolare vocazione per i festival
L’anno prima era nato quello della Canzone ed in città era di moda chiamare festival tutto quello che si prestasse a tale denominazione.
Foto Moreschi

Nasce così nell’ultimo week end di settembre del 1952, il 1° Festival della Moda Maschile al quale partecipano oltre cinquanta sarti di tutta Italia, che presentarono più di trecento capi di abbigliamento per ogni occasione. 
Le polemiche sulla figura degli indossatori lentamente si placarono anche se le cronache del primo anno sottolineavano ancora con qualche ironia  come non avessero la disinvoltura delle loro compagne e fossero impacciati e timidi. 

Descrive così la sfilata dei modelli il giornalista Angelo Nizza, allora capo dell’ufficio stampa del Casinò, affermato autore di radio spettacoli e di riviste assieme a Morbelli con il quale realizzò alla fine degli anni '30 I tre Moschettieri, uno dei quali, l’indimenticabile Aramis fu interpretato da Nunzio Filogamo: Ho voluto sapere dove gli organizzatori del festival abbiano reclutato questi giovanotti: un po' in tutti i ceti della scala sociale - scrive il celebre giornalista - C'erano persino dei laureati fra la decina di indossatori apparsi a Sanremo. Ragazzi di ogni formato: il giovanottino esile ed il venticinquenne dalle spalle quadrate, il magro e il muscoloso e anche l'uomo fatto sui 40 anni, con un po' di pancetta e l'incipiente curva del dorso. Nessuno però era abbastanza disinvolto, qualcuno assorto, altri con un finto sorriso appena accennato, altri, ancora, preoccupati soltanto di fare la loro passeggiatina bene in riga sull'orlo della pedana, secondo un itinerario prescritto, smaniosi di rientrare tra le quinte e di non inciampare nel gradino del palcoscenico. Tutti guardavano a terra, accigliati, quasi lugubri. Ahimè, la maschilità come noi italiani la consideriamo non è fatta per un tal genere di esibizione.
Foto Moreschi

Il festival sancisce anche in Italia la nascita di un nuovo mestiere: l'indossatore maschile, una professione che non poteva più essere trattata con ironia poiché i sarti ne avevano proclamato l'assoluta utilità, sottolineando che un abito appeso a un manichino di legno è senza vita. 

Un giovane sarto milanese Francesco Orlandi vincendo il trofeo Arbiter e sposandosi la segretaria del Festival è stato il vincitore doppio della prima edizione.
Alcuni anni dopo, il sarto milanese, creatore delle divise dell’Inter di Herrera, firmerà anche lo smoking con il quale Toni Renis vincerà l’edizione del 1963 del Festival della Canzone.
Orlandi, intervistato dai cronisti su quali e quanti abiti siano indispensabili all’uomo veramente elegante risponde così: Dieci! Come minimo. Perché ha bisogno di almeno uno smoking, un abito da mezza sera, di tre abiti come minimo da pomeriggio, di un completo di intonazione sportiva, di un cappotto di forgia classica, di un cappotto sportivo, di un soprabito e di uno impermeabilizzato e credo di averli elencati tutti. Penso che ci vorrebbe anche un completo da sci ed uno indispensabile per crociera. Il costo totale? Facendo le cose con economia io credo che siamo vicino a un milione, un milione e duecento.

Immediato fu il successo della manifestazione, cui parteciparono numerosi giornalisti dei principali quotidiani e settimanali. 
Nei primi anni il suo successo fu addirittura superiore a quello della canzone, che pur essendo nato l’anno precedente, veniva trasmesso inizialmente solo dalla radio, mentre il festival della moda ottenne immediatamente grande spazio nei cinegiornali dell’epoca. 

Le prime edizioni furono presentate per molti anni  da Egisto Malfatti,  viareggino di nascita, autore di teatro e capocomico di riviste, ma dalla terza edizione venne chiamata a condurlo Elda Lanza, famosa al grande pubblico perché curava una rubrica dedicata alla moda per la televisione italiana e a partire dal 1955 affiancata da Domenico Ronchetti.
Nato dichiaratamente come strumento di propaganda della moda maschile italiana, che nelle intenzioni di Testa doveva essere una vetrina non solo nazionale ma internazionale, Sanremo si era dimostrata subito come la sede più adatta. 

Foto Moreschi

L'eco internazionale dell'immediato successo della prima manifestazione costrinse Londra a rispondere con altra analoga iniziativa l’anno successivo, nel 1953, ma senza alcun successo a causa degli abiti senza fantasia, dai colori troppo scuri e tessuti poco innovativi. 
La sfida con gli inglesi, che fino ad allora dettavano legge nel campo della moda maschile, era aperta e nel giro di pochissimo tempo si sarebbe risolta a nostro favore. 
Abiti e tessuti italiani vincono la concorrenza inglese e conquistano il mondo. 

Foto Moreschi

Il festival diventò presto un trampolino di lancio per numerosi sarti locali che diventeranno successivamente famosi. Se sino ad allora in ogni regione esisteva una tradizione sartoriale locale, ora, grazie al Festival, si può parlare esplicitamente di “made in Italy” ed i tanti sarti italiani, compresi i molti che lavoravano già prima con successo all’estero, vengono per la prima volta riconosciuti come “scuola italiana”.
Foto Moreschi

Numerose le polemiche che caratterizzarono tutte le edizioni del festival: fra sarti e lanieri, fra la scuola meridionale e quella settentrionale, fra i sarti delle stesse città e sul confezionamento degli abiti. 

La polemica che ebbe il maggior risalto nelle cronache giornalistiche è quella sulla giacca, che vide contrapposta la scuola milanese, che la voleva rigida e solida a spalle severe, con quella napoletana al contrario più ariosa e sciolta. Vinse definitivamente la scuola partenopea nel 1957, quando al Festival si coniò lo slogan una giacca per tutti, specificando con garbo una per i magri ed una per i non magri o falsi grassi

Foto Moreschi

La polemica si spostò poi sull’attaccatura della manica, che a Napoli veniva fatta e attaccata a sigaro, molto svasata e abbondante, mentre a Milano era più stretta ed aderente al giro dell’ascella. 
Non di minore importanza le polemiche sul numero dei bottoni, due o tre, sul risvolto dei pantaloni, la lunghezza della giacca, l’obbligo dell’ombrello per l’uomo elegante ed il gilet, classico o sportivo.
Il punto di forza della manifestazione era l’incrocio fra i lanieri, cioè i produttori dei tessuti ed i sarti creatori di abiti, insieme al  collegamento con gli accessori: ombrelli, cappelli, camicie, cravatte e scarpe, ma successivamente anche cinture, sciarpe, foulard fino al lancio di un accessorio particolare come il borsello maschile.
Foto Moreschi

L'importanza del Festival crebbe di anno in anno, soprattutto in ambito internazionale e non solo nell’Europa occidentale, ma anche all’Est. Nonostante la guerra fredda e la cortina di ferro l'11°edizione del festival sbarcò in Russia.
Foto Moreschi

Aumenta il numero dei sarti invitati: dai 50 della prima edizione si passa velocemente agli oltre 200 della quarta, fino ai circa 300 dell'edizione del 1966 che, a causa del grande numero dei partecipanti, si svolse al teatro Ariston in grado di accogliere un pubblico più numeroso del Teatro del Casinò. 

Foto Moreschi

Il festival è l'occasione per presentare nuove collezioni e lanciare nuovi tessuti. I giornali dell’epoca testimoniano dell’attesa del pubblico per i nuovi modelli, i colori e gli accessori, ed i giornalisti scrivono le anticipazioni cercando in anteprima novità ed indiscrezioni, ma è un compito difficilissimo perché i sarti, il mestiere lo impone, sono sempre abbottonatissimi e la concorrenza molto agguerrita.
Foto Moreschi

Le polemiche crescono con il successo e a conclusione del XII Festival, l’ideatore e animatore della rassegna è costretto a scrivere una lunga lettera aperta ai  sarti, pubblicata su Arbiter, per rispondere a tutte le polemiche. Una particolare menzione merita quanto scrive a proposito del rapporto con gli industriali tessili. Scrive Testa: La moda la fanno i sarti? Lo si può sostenere benissimo, soprattutto se si tiene conto dell’attività di quei sarti che meritano di essere definiti dei creativi. Ma la moda la fanno anche gli industriali tessili, con il lancio di un colore, di un tipo di tessuto, di un particolare gusto nelle disegnature. Sono note di moda che danno un’impronta decisiva all’abbigliamento e le caratterizzano, così che per distinguere certi periodi, anche recenti, della storia della moda troviamo piuttosto comodo riferirci ai colori ed ai tipi dei tessuti piuttosto che al modello sartoriale.
Foto Moreschi

Il rapporto fra lanieri e sarti rappresentava il punto di forza della manifestazione, ma anche la sua criticità. Il direttore, cui veniva riconosciuta autorevolezza e competenza, ha sempre cercato e trovato una mediazione positiva fra le diverse esigenze, ma, proprio nel momento di massimo successo, la rassegna nel 1966 si divide in due.
Foto Moreschi

Nasce infatti una manifestazione concorrente, Incontri di moda maschile, che si tiene ai primi di settembre a Sanremo anticipando il festival promosso da Arbiter, che si sposta a ottobre. 
Per 3 anni le due manifestazioni si svolgono separatamente fino alla riunificazione, che avviene nel 1970, quando ormai le industrie delle confezioni stavano prendendo il sopravvento sulla sartoria e le industrie tessili avviavano al loro interno delle attività di confezionamento.
Durante le giornate del festival, si svolgevano anche convegni ed incontri molto tecnici sui problemi della categoria. 

Foto Moreschi

A partire dagli anni settanta il Festival si cominciò ad interrogare sulla sopravvivenza del sarto su misura in un tempo in cui la confezione in serie invadeva il mercato. 

Foto Moreschi

La manifestazione non riusciva più a confermare il successo, registrando un continuo ed inesorabile declino fino 1979, dove al teatro Ariston si svolse l’ultima rassegna curata da Testa, che muore l’anno dopo. 

Foto Moreschi

Dovranno passare quattro anni per arrivare alla 29° edizione, che si svolgerà di nuovo al Casinò nel 1983 e quella successiva nel 1984. 

Foto Moreschi

Ma i tempi sono cambiati, si è persa la magia e l’atmosfera del Festival, nel 1985 si decide di cambiare il nome alla manifestazione e riproporlo come 1° Festival Internazionale della Sartoria, che si svolse senza accendere grandi entusiasmi il 20 settembre 1985. 

Foto Moreschi

Cinque anni dopo, nel 1990, si tentò di farlo rivivere ancora una volta con un nome diverso, 1° Festival dell’Alta Moda Sartoriale, ma anche questa volta la manifestazione non ebbe seguito.
Foto Moreschi

Un Festival, quello realizzato da Testa e da Arbiter, importante per la moda italiana perché ne ha segnato profondamente la storia, ma anche per la città di Sanremo, che ha ospitato nei trent’anni del suo svolgimento migliaia di persone provenienti da ogni parte del mondo...


di Alfredo Moreschi

 

venerdì 6 marzo 2020

Ma il mio nido quest’anno, l'ho fatto a Bordighera

Bordighera (IM), Premio Cinque Bettole del 1956: da sinistra Giacomo Natta, Carlo Betocchi e signora; in piedi i pittori Antonio Camarca, Giuseppe Balbo e Giovanni Omiccioli - Foto di Beppe Maiolino - Fonte: Archivio Balbo

Ricordavo Ventimiglia di trent’anni fa: una stazione grande, lunga; noiosa e burocratica; senonchè sui marciapiedi si incontravano doganieri italiani e francesi; e questa era una novità per lo spirito giovane. Anche fuori se ne incontrava qualcuno, che tra due servizi ciondolava sulle panchine del grande viale di palme che andava al mare, lungo il mercato dei fiori. Tra qualche palma rimasta, quel viale oggi è diventato di platani, e la stazione è più bella. Ho cercato là in fondo la vecchia passerella di legno che cavalcava la foce del Roja; ce n'é un’altra di cemento. Non ho voluto vedere altro che la lunata, derelitta spiaggia di ciottoli che geme di sporchi relitti, slabbrata dalla foce del fiume: sempre eguale. Dal breve frangiflutto di massi ho ficcato gli occhi lungo l’ispido letto ciottoloso, verso le Alpi, per la cara via che porta al colle di Tenda: cara Liguria estrema, Liguria di monte!

Ma il mio nido quest’anno, l'ho fatto a Bordighera, e sempre, anche dal mare di Bordighera, dai giardini di palme tra siepi di gelsomino, guardavo la collina. Le serre, gli orti, i campi di garofani strapazzati tra le case sulla breve fascia del litorale, mi invitavano a quell’altra pace, anch’essa di lavoro, ma più rispettata e recondita; e sempre, nel frastaglio degli interessi, cercavo di capire e di intendere il segreto delle intime forze che fanno così viva quella parte della Liguria.

I muratori chiamano “ a cuci e scuci “ il lavoro col quale rassettano un muro malandato, con sassi nuovi in calce migliore, scartando il vecchio e slegato. In nessuna regione d’Italia, come lungo le coste e le colline liguri, se se ne tolgono i grandi complessi industriali, la vita è regolata da un così paziente, assiduo minuzioso lavoro di ripresa "a cuci e scuci". E’ la singolarità e la industriosità di questi caratteri umani, che vi si adatta e ne vive; e il risultato consiste in una bellezza e utilità di insieme di particolari che si adatta alla necessità sempre mutevole: sulla costa necessità di turismo, tanto cambiata da trent’anni in qua e pazientemente evolutasi in campagna e sui colli necessità delle assidue, puntigliose coltivazioni; fors’anche redditizie, ma non senza la presenza costante dell’uomo, si può dire, su ogni metro quadrato di terra.

Di terrazza in terrazza, quale a fiori, a fragole, a ortaggio, a vigna, a uliveto, scorribandando col mio passo calmo e lo sguardo accorto in cerca di quella novità antica che è la virtù, e che si vede meglio nelle piccole cose, industriosamente ricche di essa, qui un uomo, là una donna col suo bimbetto, sempre qualcuno seguiva con lo sguardo rialzato sotto il cappellaccio di paglia il mio andare per i viottoli propri, nessuno negandomi il passo, tutti aiutandomi a ritrovarmi, e tutti in faccende.

Sboccavo in paesi, Ventimiglia alta, Bordighera alta, e più lontano, dalle strade boscose, a Sasso, a Seborga, e scoprivo nelle vie ripide la vena dell’antico esistere paesano, quando avevo appena lasciato il chiasso motorizzato e le nudità multicolori della Riviera; e tra le case vecchie l’antico silenzio, nelle chiese spesso maestose, e nell’ora meridiana deserte, una capacità d’attesa infinita, perchè la fede non si misura con le statistiche, la verità è miracolo.

La stessa letteratura ligure, splendidamente fiorita in questo secolo sulle due coste (di ponente e di levante), dal tempo di “Riviera Ligure” e dei primi accenti di Mario Novaro per venire a Sbarbaro, a Boine, quindi al primo Montale (il più ligure), a Barile, Grande, Descalzo, Caproni, coi movimenti attivissimi di altre riviste come “Circoli”, come “Maestrale”, e poi rinnovata dopo la guerra coi narratori della resistenza (a Bordighera è Seborga) e i giovani di questi anni, anch’essa ha agito con questi medesimi caratteri, di assidua ripresa e cultura del tessuto della civiltà letteraria nazionale che andava a marcire nel disfarsi dei vuoti estetismi; e lo ha fatto quasi al margine, con una operazione penetrante, col rimedio di una sanità, di una schiettezza senza riserve o finzioni, sull’opera viva inserendo le sue migliorie, quasi in cantiere, senza chiasso di demolizioni: quanto meglio, si osservi, tra il ’15 e il ’30 dei suoi futuristi, o dello strapaesanesimo fiorito in Toscana. La virtù ligure nasce lì, si fa riconoscere per tale, ma ha una fioritura più diligente, se meno vistosa, una mira più lontana, dello spiccato individualismo toscano di allora: e quasi si direbbe, più pensiero delle basi su cui costruisce, di ciò che sarà, della eredità da lasciare.

I suoi documenti hanno una precisione che alla lunga determina la validità della carica umana nel tessuto sociale, meno immodesto dei documenti toscani, più appropriata a una vita in continua trasformazione ma che va legalizzata puntualmente con appositi strumenti: e non a caso rammento, come la vidi vent’anni fa, l’antica e rispettata casa notarile di Sestri Levante dalla quale Carlo Bo è venuto ad essere uno degli spiriti più preziosi dell’Italia moderna: la cui informazione e documentazione, e le cui proposte per il futuro, sono fatte sul vivo d’una ricerca spirituale fondata su un patrimonio autentico, su dei beni reali. Ricordo, nell’anticamera dello studio notarile paterno, la buona gente che s’aspettava l’entrata, come usa, col pugno chiuso nell’altra palma aperta, la testa china, quasi stringendo nel gesto gli interessosi pensieri: e accompagnando Carlo più giovane, ma grande e grosso anche allora, per le strette vie dietro il porticciolo di Sestri, quel ricambio fitto ma schivo di saluti che lo accompagnava, sugo di conoscenza vecchia, di meritata stima e di familiare rispetto.

Su queste basi di probità, tra l’altro, è nato a Bordighera in questi anni il premio letterario “Cinque Bettole”, che si circonda di altri di pittura e di giornalismo. Quello letterario fu vinto l’anno scorso da Giacomo Natta, originale ed estroso scrittore in cui si raccoglie, si può dire tradizionalmente, lo spirito vivo dei rapporti tra la letteratura ligure militante e la migliore cultura italiana; quest’anno, diventato di insospettata larghezza ha premiato un racconto già stampato in giornali o riviste con mezzo milione (meritato da Giuseppe Berto); aggiunti altri premi, d’incoraggiamento, per dei racconti inediti di giovani. È un premio che promette di crescere, perchè non è soltanto di ambizione locale, o di mondanità, ma legato ad attività e interessi precisi culturalmente definiti e in sviluppo.

E forse per questo ha una originalità che appare sana ed evidente, quando si rivela nell’impianto della bella serata in cui viene assegnato. Nasce dalla Azienda autonoma del Turismo, tra i giardini, le spiagge e gli alberghi, e gli interessi che vi sono collegati; ma viene consegnato nella vecchia cornice di Bordighera alta, dal sagrato della chiesa, e si sente che non è per far colore, ma per restituire al popolo quello che è suo, il quale affolla la piazza, una folla di donne, di pescatori e di agricoltori, e in prima fila una ciurma di bambini: e finisce con una cena imbandita dalle molte osterie, che non so se sono cinque, a lunghe tavolate per le ripide strade, e sotto gli archi scuri, mentre dalle mura lievitate dal salino pendono i quadri del parallelo concorso di pittura.

Vederla, per esempio, questa pittura; come mai si è formato un centro d’interesse per la pittura, così vivace ed attivo, a Bordighera. È Giuseppe Balbo, buon pittore e segretario di tutti i premi, che ha fatto questa sua scuola; e che spera di animare se avrà i mezzi, un artigianato di ceramiche artistiche.

C’è a Bordighera un gruppo di artisti attivissimo; e un vivaio di giovani. Mi sono avvicinato ad uno di essi, Maiolino, che insegna disegno ai ragazzi nelle scuole medie, e ne ottiene dei risultati eccellenti. Si va da Maria Pia, alla Piccola Libreria, dove si può sapere sempre qual’è un libro buono, dov’è uno spirito fine, da quelle parti; e mi ha fissato un appuntamento col giovane pittore. Allo studio gli ho accennato a ciò che vedevo ripetersi nelle loro pitture di giovani, lì intorno, di fedeltà al loro paese, di sincerità di espressione; ed egli mi ha ripetuto, come Camarca, che deve a Balbo, oltre a tutto, la serietà dell’impegno, la passione per l’onestà del lavoro. Lontani da Roma, da Milano, da Firenze, senza albagia, pochi guadagni, punto chiasso, forse ancora modesti artisti, ma veri uomini, anime vive.

Carlo Betocchi, Rapporto ligure, febbraio 1957
 
Mi ha interessato quella organizzata nelle Cinque Bettole di Bordighera vecchia, un paesello di pietra e archi e che nasce sul primo balzo della collina, un paese sonoro di canti e di luci, un paese di gioia e di tristezza, un paese di pescatori, un paese di amore e di povertà. Così fu che per iniziativa dell'artista Giuseppe Balbo (…) i pittori esposero in queste cinque osterie un centinaio di opere.
Sono nomi noti ed ignoti, ma indubbiamente c'è del talento, dal romano Camarca, al torinese Polastri, al bordigotto Gian Antonio Porcheddu: e ci fu un premio intitolato Pittori della Domenica, che raccolse i lavori di molti pittori giovani e anziani, da Allavena a Barberis, dalla Impedovo a Raimondo, a tanti altri, tra i quali i primi premiati furono Joffrè Truzzi e Enzo Maiolino che svolgono la loro arte con un vivo senso della realtà superando le varie accademie moderniste e ottocentesche. E ci fu festa nel paese vecchio, pieno di gente, venuta da tutta la costa, e si ballò in piazza liberamente, senza gonfiori gerarchici.
Un'iniziativa da continuare. Tutta la zona del resto ha bisogno di molta attenzione di una moderna pubblicità. Bordighera, organizzandosi e senza deturpare le sue bellezze con architetture posticce e artificiose, ma risalendo sempre alle qualità sostanziali dei suoi aspetti, continuerà ad essere attraente come un suo fiore.
Guido Seborga, Riviera di Ponente, Il Lavoro Nuovo, 19 agosto 1951
 
Guido Hess (1909-1990), discendente del comunista e protosionista Moses che ebbe una certa influenza sul pensiero del giovane Marx, torinese di nascita, adottò nell’immediato dopoguerra lo pseudonimo di Seborga, preso a prestito proprio da un paese dell’entroterra ligure. Giornalista, poeta, romanziere e poi pittore e scultore, a Bordighera Seborga fu tra i fondatori del Premio «Cinque Bettole» cui Biamonti partecipò nel 1956 con il racconto Dite a mio padre, premiato e pubblicato ne Il nuovo eco della Riviera del 12 agosto di quell’anno. Seborga promosse anche un’altra pubblicazione dell’amico, il frammento di romanzo Colpo di grazia, presentato dallo stesso Seborga nel foglio A Barcà. Notizie da Bordighera, stampato dall’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Bordighera nel 1960. I testi sono stati ripubblicati in Mallone 2001: 99-101 e 107-113.
Claudio Panella, “Francesco Biamonti: del «donner à voir» sul confine tra l’immagine pittorica e la parola”, Nota n° 3, Between, I.1 (2011), http://www.Between-journal.it/

lunedì 2 marzo 2020

La Lima, antico settimanale socialista di Oneglia, in una lettera di Alessandro Natta

Fonte: Op. cit. infra



 



Oneglia, 24 Dicembre 2000
CARO LIBERO,
grazie molto per il dono bello e dolce! Ed io, come ti avevo promesso, trascrivo alcune delle notizie curiose che avevo stralciato da “la Lima”, qualche anno fa quando studiavo le vicende di Giacinto Menotti Serrati.
Non posso naturalmente tracciare tutta la storia, di grande interesse, del settimanale socialista di Oneglia. Voglio solo ricordarti che è nato un anno dopo la fondazione a Genova (1892) del Partito Socialista: il primo numero de “la Lima” porta la data del 4 giugno 1893!
I promotori sono stati quel gruppo di giovani professionisti, per lo più avvocati, di famiglie “risorgimentali”, che allora abbracciarono gli ideali socialisti nel nostro ponente ligure: Canepa, Gandolfo, Rossi, Raimondo, Bruno, ecc. 

Il nostro Giacinto Menotti Serrati - nel '93 era un ventenne alla ricerca di un mestiere perché la morte del padre lo aveva costretto ad abbandonare gli studi - fu tra i primi entusiasti collaboratori e continuò a scrivere su “la Lima” sempre, anche quando divenne direttore (alla fine del 1914) de “l'Avanti”.
[...] 
La prima notizia significativa che ho trovato è sul numero del 21 settembre 1912: una lettera di mio padre, Antonio Natta, sul prezzo delle carni, con una replica de “la Lima”, che naturalmente li riteneva troppo alti!
Mio padre ricompare tra gli abbonati del 1913. (Tra parentesi: negli anni tra la guerra di Libia - 1911 - e la guerra mondiali - 1915 - “la Lima” è di grande interesse per gli articoli di Serrati e di Mussolini, ed anche per la polemica tra i due, e per l'attività politica e giornalistica di nuovi personaggi, come gli avvocati Nino Bruno, Secondo Gissey, ed anche di Orazio Raimondo, che è eletto deputato, il primo deputato socialista della provincia, nel 1913, nel collegio di Sanremo.

Il nome di tuo padre - Nicola Nante - compare nel numero del maggio 1914 nel quale si dà notizia del congresso del Psi (26/28 aprile) in cui si discute il problema della massoneria, e viene espulso, per iniziativa di Mussolini, proprio il famoso deputato di Sanremo Orazio Raimondo. Ecco l'esito della votazione: favorevoli alla espulsione dei massoni 27.398, per la compatibilità 1.819, per non occuparsi del problema 2.485! La sezione di Oneglia aveva dato mandato al delegato Nicola Nante di disinteressarsi alla Ponzio Pilato della questione.
[...] 
Nel numero del 6 febbraio 1915 c'è il resoconto del comizio di Orazio Raimondo (interventista) - con il titolo “Il concerto di lunedì” - in cui si racconta che prima che Raimondo cominciasse a parlare si levò un grido: «La parola a Girella!». Nei racconti che ho sempre sentito, in casa mia, a pronunciare nel teatro quella battuta sarebbe stato proprio Coluccio Nante!
Il numero del 3 luglio 1915, sotto il motto “Frangar non flectar”, cominciano le sottoscrizioni del periodo bellico: nell'elenco ci sono tutti i socialisti onegliesi!
[...]  
Ma riprendiamo con le notizie di cronaca.
Nel 1917 l'abbonamento a “la Lima” costava tre lire; quello sostenitore cinque lire. In questo periodo bellico “la Lima” è spesso vittima della censura; a volte l'intero numero è oscurato. E alla censura si aggiunge la mancanza di carta.
Ma nel numero del 17 marzo un trafiletto in prima pagina porta questa notizia: «Mentre stiamo per andare in macchina i giornali recano che un gran moto rivoluzionario è scoppiato in Russia e che… lo Zar Nicola ha abdicato».
È l'inizio della rivoluzione. 

Anche “la Lima” è costretta, non per la questione della carta, ma per stretta contro i pacifisti, ad interrompere le pubblicazioni, dal 26 maggio 1917 fino a tutto il 1918.
Riprende con il primo gennaio 1919 con un saluto augurale di F. Rossi che tra l'altro scrive: «Non dimenticate... un giusto orgoglio. È quello d'aver avuto tra voi, per molti anni, G. M. Serrati: scrivete nel primo numero, nella prima pagina, nella primissima linea il suo nome e avanti!».
Il motivo di questo così solenne omaggio è che Serrati, direttore de “l'Avanti!”, e in sostanza capo del Partito socialista, è stato arrestato nel 1918 e processato per i moti di Torino - manifestazione nel 1917 per il pane con molti morti - e condannato.
Da molti mesi è in carcere (lui penserà che tutta questa storia sia stata una manovra di V. E. Orlando, capo del governo per colpire l'ala più intransigente del Psi) e dal carcere Serrati uscirà solo ai primi di marzo. Verrà il 13 marzo ad Oneglia, da trionfatore, e sarà accolto da una grande manifestazione popolare sul Rondò, dove parlerà da una vettura l'avvocato Nino Bruno e risponderà il nostro G. M.! “La Lima” farà un resoconto commovente, che io ritengo sia stato scritto da Nanollo Piana.
[...]  
Comincia la stagione accesa della battaglia aperta, del grande successo, nelle elezioni politiche del 1919, del Psi, delle grandi speranze, e anche delle molte illusioni; e prende avvio anche la lotta via via più aspra con i fascisti (è dell'aprile 1919 il primo assalto e la devastazione de “l'Avanti!” a Milano).
Nel numero del primo maggio 1919 “la Lima” pubblica un articolo straordinario di Virgoletta (certamente Nanollo Piana) [...] 
In questo articolo vengono ricordati alcuni compagni: «Gli anziani Agostinetto Berio (ferrea dili- genza) … il serafico Manlio … Narduccio sempre in faccenda … Felicino Musso (il miracolo del primo avanzo di cassa!) Coluccio Nante (disastro) Massobrio (il tipo del miglior amministratore) …».
Li riconosci questi nomi? Berio, detto “u roudon”, era un barbiere, e sarà anche sindaco socialista, dopo Piana, di Oneglia nel 1922; Manlio Serrati, fratello di G. Menotti e padre del medico Bruno; Narduccio è Dulbecco che sarà nel 1921 il capo dei comunisti; Musso, sindaco socialista di Castelvecchio, poi pasticciere sotto i Portici, e infine costretto all'esilio in Francia e in Spagna, con i due figli Ornella e “Sumi” che avrai conosciuto, penso, nella Resistenza; Massobrio il barbiere.

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Nel numero del 29 giugno vengo immortalato anch'io: «Sottoscrizione pro “Lima”: trovato dal bimbo Alessandro Natta L. 1 (avevo 18 mesi!!). Ora comincia la propaganda per la solidarietà con la Russia e cominciano anche le discussioni e i contrasti dentro il Psi, tra massimalisti e riformisti e tra le diverse tendenze del massimalismo. 

Nel numero del 6 settembre 1919 compare - mi sembra per la prima volta - il termine “fascista” e nella sottoscrizione quello del mio futuro cognato Zanetta Tomaso L. 1 (mia sorella Teresita, invece, sottoscriveva L. 5: ma lei era la figlia di Tugnen il macellaio, e lui un povero operaio, di Renzetti…).
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Ma ora siamo ancora al 1919, e alla cronaca onegliese.
A settembre viene fondata la sezione fascista da Agostino Scarpa, un ex sindacalista, passato dall'altra parte.
A ottobre muore Francesco Ughes (“Pacichen”), che era stato al domicilio coatto alle Tremiti e a Porto Ercole, pioniere del socialismo.
Al congresso di Bologna, in ottobre, il capo acclamato del Psi è senza dubbio G. Menotti Serrati, e Bordiga appare come un leader tra le giovani generazioni. Hanno vinto i massimalisti elezionisti, ma nell'unità del partito. E tutti, da Serrati a Turati, sono favorevoli all'adesione alla Internazionale comunista appena fondata da Lenin. E Serrati dà il via alla pubblicazione di una nuova rivista, con il titolo chiaro ed emblematico: “Comunismo”.
Nel numero de “la Lima” del 17 ottobre viene pubblicata la lista dei candidati del Psi alla Camera, in perfetto ordine alfabetico: Abbo Pietro, poi c'è Marco Donzella (di Sanremo) e ancora Serrati Carlo Lucio.
L'esito delle elezioni del novembre segna un successo clamoroso del Psi (160 deputati), del Ppi (103 deputati), poi distanziati 14 Repubblicani e 23 Riformisti! I giolittiani, i fascisti, i democratici monarchici di tutte le risme sono [...]
In Liguria sono eletti: i socialisti Abbo, Rossi, Binotti, Bacigalupi, Serrati Lucio, Riba; i popolari: Cappa, Agnesi, Boggiano, Zunini; i democratici: Celesia, Guida; i ministeriali: Casoretto, Cerpelli, Poggi e infine Giulietti per il Partito del Lavoro e Macaggi per i combattenti.
Per queste elezioni Natta Antonio sottoscrive 20 lire e sottoscrivono anche Teresa Natta e Pietro Natta; e Coluccio Nante - tieniti forte - sottoscrive 500 lire: una cifra enorme che non credo di aver trascritto male, né che “la Lima” abbia cambiato un 50 in 500! Ma ormai è fatta. In compenso nel numero del 28 novembre “la Lima” annuncia il matrimonio di Coluccio Nante e Nannina Forlino.
Il 1919 si conclude - dice sempre “la Lima” - con una mascalzonata nazionalista: l'aggressione a Roma, a dicembre, dei deputati socialisti Abbo, Serrati, Murari, Bellagarda, Romita.

Nel 1920 l'abbonamento al settimanale diventa di 6 lire, un numero costa 20 centesimi, ma cresce anche la solidarietà, e in ogni elenco è presente con somme notevoli Nante Nicola, ed anche Natta Antonio, tanto che mi sono domandato se in quegli anni ci fosse ad Oneglia qualche altro socialista che si chiamava Natta Antonio (e forse sì!) e se quel Nante Nicola fosse proprio Coluccio!! Di altri socialisti che ho ben conosciuto, come Romolo Crivelli, anche lui generoso, non posso dubitare perché di Crivelli ad Oneglia c'era solo lui.
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Il 23 luglio su “la Lima” c'è la notizia dell'incendio de “l'Avanti!” a Roma: “l'Avanti!” allora aveva tre edizioni - Milano, Torino, Roma - ed era uno dei quotidiani di maggior prestigio e diffusione.
Nello stesso numero è rilevante che il Circolo Giovanile socialista indichi tra i sottoscrittori del prestito comunista: Ughes Gaetano, Natta Pietro, Zanetta Tommaso, Senardi Stefano, Troni Giovanni, Amoretti Riccardo, rag. M. Valentini: saranno tutti ben noti!
Ed anche Natta Antonio sottoscrive, la settimana successiva, due cartelle: ed io mi interrogo sempre se si tratta proprio di mio padre (mentre non ho dubbi su Teresa e Pietro Natta, che sono mia sorella e mio fratello, su Tommaso Zanetta, mio futuro cognato).
Ad agosto a Giovanni Perasso viene data per appalto la gestione del teatro Umberto, per il 1920/’21. E dal numero de “la Lima” del 27 agosto si apprende che Nante Nicola era il presidente della Cooperativa Sociale di consumo.
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Il 10 settembre c'è l'annuncio della occupazione delle fabbriche, che non avrà un esito positivo. E la notizia del matrimonio con rito civile di Romolo Castagno e Rosa Persico.
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A novembre sarà memorabile, sia al teatro Umberto che al Cavour, la celebrazione del terzo anniversario della rivoluzione. Parleranno Piana, e poi Menotti Serrati, che è stato a Mosca al secondo congresso della Internazionale comunista, dove ha discusso in modo aperto con Lenin. Serrati al suo ritorno ha detto (come riferisce “la Lima”, con il linguaggio tipico dell'epoca e di Nanollo): «Le verità più crude ma anche più sante…».
Lui, il difensore primo della Russia e della rivoluzione, ha parlato delle condizioni drammatiche, delle difficoltà enormi, della guerra civile con cui i comunisti russi sono alle prese, ed anche dei punti di differenza e di contrasto tra gli orientamenti dell'Internazionale e le posizioni che sono proprie di Serrati e che egli sosterrà tenacemente fino alla tragica rottura, nel congresso di Livorno del gennaio 1921, proprio nel campo del massimalismo, tra Serrati e il grosso del partito socialista e i suoi allievi, Bordiga, e il gruppo torinese di Gramsci, Terracini, Togliatti, che daranno vita al partito comunista. Anche su “la Lima” è venuta accendendosi la discussione tra le diverse tendenze; e, anche se il settimanale è chiaramente sulle posizioni di Serrati, non mancano gli interventi che possiamo definire “bordighiani”.
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Ora però, negli ultimi mesi del 1920, compaiono articoli con la firma “Vladimiro”, a nome del “Circolo Giovanile socialista”.
Non so chi c'è dietro questo nome leninista (forse Leonardo Dulbecco?), ma so che ci sono i “bordighiani” che nel 1921 andranno nel partito comunista, e tra loro mia sorella Teresita e mio fratello Petruccio, e così io avrò la guerra in casa perché Zanetta, divenuto mio cognato, resterà fedele sempre a Serrati. Anche Piana e Nante continueranno a seguirlo fino a Livorno, ma non molto oltre perché in loro prevalse, e per sempre, l'anima del riformismo.
In crisi però non è solo il campo della sinistra, ma anche quello della democrazia liberale, che passa da un governo all'altro - da Orlando a Nitti, da Nitti a Giolitti. Nell'aprile del 1921 viene sciolta la Camera. 
Alle elezioni sono presenti le liste dei socialisti (ancora Abbo e Lucio Serrati), dei comunisti (credo Dulbecco), nello schieramento dei liberali e fascisti c'è il generale Asclepia Gandolfo; e si presenta anche il democratico Giacomo Molle, che “la Lima” prende un po' in giro («così giovane e già commendatore»). 

Verso la fine di aprile, la campagna elettorale viene funestata ad Oneglia da un tragico incidente nel corso del comizio di A. Gandolfo e Coda e del contraddittorio di Dulbecco e in attesa del discorso di Nino Bruno. Pare vi sia stata qualche provocazione dei fascisti, o comunque qualche intemperanza dei campi opposti, che determinò un intervento della polizia, che sparò ed uccise Maurizio Gorlero, uno di Porto Maurizio, che non era né fascista né socialista.
Questo episodio sensazionale che “la Lima” raccontò in due pagine - «La tragica domenica di sangue: la punizione contro Oneglia rossa…» - entrò nell'immaginario collettivo e famigliare, ed io l'ho sentito rievocare tante volte che più tardi mi sembrava di averlo vissuto!
Naturalmente ci furono gli strascichi polizieschi e politici: la chiusura, ancora una volta, del “Caffè del Popolo”; l'arresto per alcuni giorni dell'avvocato Nino Bruno; le polemiche dure contro i fascisti “colti”, i ragionieri Emilio Varaldo, Carlito Muratorio (mio cugino), Granara e, come diceva, “simili”.
Intanto l'avvocato Molle veniva escluso dalla lista del blocco giolittiano e il generale Gandolfo era chiamato in causa anche lui per l'incidente del Rondò.
L'esito delle elezioni fu sorprendente, in particolare per la tenuta del Psi, ed anche dei popolari. Nella nuova Camera entrarono 125 socialisti, 16 comunisti, 7 repubblicani, 107 popolari, 20 fascisti, 252 deputati del “minestrone” liberaldemocratico conservatore, e 8 tedeschi e slavi.
Ma in Liguria i “rossi” restarono forti, risultando eletti: Abbo, Baratono, Binotti, Faralli, Rossi, socialisti; Graziadei, comunista; Canepa Giuseppe, autonomo; quattro popolari e sei rappresentanti del Blocco. Poi Faralli risultò non eletto e il seggio toccò invece al popolare onegliese Agnesi. Il generale Gandolfo venne “trombato” e preso in giro da “la Lima”, ma fece in tempo, prima di scomparire prematuramente nel 1926, a fondare la milizia fascista!

È presente come sempre “milite devotissimo e disciplinato”, ma con la sua fede cocciuta ed intransigente, anche Menotti Serrati. Lui scomparirà nel maggio del 1926. Ma ad Oneglia i suoi compagni, i “terzini”, così erano chiamati, da Pietro Abbo a Goffredo Alterisio, da Gaetano Ughes a Menicco Amoretti, a Tommaso Zanetta saranno il nerbo del Pci e i suoi dirigenti di prima fila nella Resistenza, nella lotta di Liberazione e poi nella rinascita dell'Italia.
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“La Lima” si consente gli ultimi sfoghi contro le imprese criminali dei fascisti; e con le affermazioni incredibili (allora, ma anche oggi a rileggerle) di Ivanoe Bonomi, che aveva detto: «Il fascismo è nato per affermare i valori spirituali della nostra razza» e che “la Lima” bollava definendolo «pagliaccio e sanguinario come tutti i transfuga».
Siamo a dicembre del 1921.
Non c'è ancora il senso della sconfitta, anche se le preoccupazioni diventano sempre più acute e assillanti - ma intanto continua la sottoscrizione, e all'Umberto I si svolge, prima di Natale, la veglia rossa: «Dopo mezzanotte canta applauditissimo alcune romanze il dilettante baritono compagno Zanetta!».

L'abbonamento per il 1922 è salito a 10 lire.
“La Lima” continua imperterrita la sua battaglia: ricorda a tre anni dalla morte Rosa Luxembourg
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Ad aprile appare tuttavia un rimprovero esplicito di Serrati che scrive: «“La Lima” da qualche tempo è un giornale del più puro riformismo, che si rifiuta persino di pubblicare il pensiero della Direzione».
Seguono, naturalmente, spiegazioni e giustificazioni, ma è vero che il settimanale socialista viene perdendo il tono vigoroso, e si fa via via più scialbo.
E intanto anche ad Oneglia i fascisti fanno nuove reclute, in tutta Italia si fa più duro e distruttivo l'attacco dei “nuovi Unni” alle case del popolo, alle sedi delle Camere del lavoro, dei giornali, dei comuni; e ai militanti della sinistra.
Anche lo sciopero di agosto non riesce ad arginare la marea montante.
Ad Oneglia e a Porto si tengono nei teatri due comizi, nei quali parlano Nanollo Piana, Abbo, Nino Bruno, Ericario, Lucio Serrati, Alterisio.
Ma a Castelvecchio i fascisti distruggono il monumento ai caduti che portava l'iscrizione «Guerra al regno della guerra».
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Ma le sconfitte non sono mai corroboranti, e le rinascite esigono tempi lunghi e sforzi inauditi, eroici.
Per il momento il fascismo, «sorto tra le simpatie e sotto gli auspici di tutte le gamme più svariate del padronato italiano», va all'assalto del potere. Ad Oneglia anticipa: sotto i colpi del manganello cadono ora anche i popolari; anche Lucio Serrati viene aggredito da una squadra, guidata da “Sciguretta” (Ardoino).
Nel comune l'amministrazione socialista di Piana e poi di Agostino Berio, sistematicamente oggetto di critiche e attacchi furibondi per la politica fiscale da parte di tutti “i signori”, viene messa in mora ad agosto con l'invio di un commissario e a settembre si dimette la giunta e si scioglie il consiglio comunale.
È la fine. Anche per “la Lima” che chiude la sua grande e gloriosa vicenda con l'ultimo numero del 30 settembre 1922.

CARO LIBERO,
mi sono fatto prendere la mano e, anche se ho cercato di tenermi alla cronaca e di lasciare da parte la grande politica, ho finito per non resistere alla rievocazione sommaria delle vicende grandi e drammatiche vissute dai nostri vecchi nei primi venti anni del XX secolo!
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Io sento assai forte l'orgoglio per ciò che le forze di sinistra - i comunisti e i socialisti - anche attraverso tante traversie e contrasti, sono riuscite a fare nell'ultimo cinquantennio.
Ed oggi il mio auspicio più schietto, insistente e grande, è che si riprenda con chiarezza e vigore la via dell'unità e del socialismo.
Non so se mi perdonerai di avere trasformato un ricordo e un omaggio per Coluccio, per Nanollo, per mio padre e i miei in questa pappardella.
E non me la prenderò se non riuscirai a leggerla interamente.
tuo
SANDRO NATTA

Alessandro Natta (1918-2001), in PAGINE NUOVE DEL PONENTE, bimestrale di politica e cultura, Imperia, ANNO III n. 4 - luglio-agosto 2001