martedì 30 agosto 2022

Per significare ad Oneglia quanto siamo vecchi diciamo che ci ricordiamo ancora...

Imperia: Oneglia. Fonte: Mario Castellano, art. cit. infra

Ci conosciamo con Gianni Donaudi da una data ben precisa: il Primo di Ottobre del 1958, quando nell’edificio scolastico di piazza Ulisse Calvi, detto ad Oneglia, nella nostra lingua “braccese”, il “Coleggio” (per gli Italiani il “Collegio”, essendo stato in origine un convitto religioso dei Padri Scolopi, ed in seguito uno laico in cui venne impiegato il giovane Benito Mussolini), iniziarono tumultuosamente i corsi della Quarta Classe Elementare affidata al Maestro Giuseppe Brunengo: personaggio, questo, veramente singolare e tale di influire profondamente sulla nostra formazione, dato che aveva attraversato battagliando (nel senso letterale della parola) tutte le vicende italiane del Novecento.
Fin da quando, essendo nato precisamente in quell’anno, si arruolò volontario ed andò a combattere sul Carso - per la precisione sul Monte detto “Sei Busi”, presso il quale sorge il Sacrario di Redipuglia.
Quella vicenda, tragica ed insieme gloriosa, avrebbe segnato l’intera sua esistenza, al punto che intendeva instillare nelle giovani generazioni il suo indubbio patriottismo.
Con risultati, ahi me, piuttosto deludenti.

Chiamato infatti a rimproverare tale Mino Carli, appartenente alla nota famiglia olearia, studente particolarmente svogliato - oggi si direbbe di lui nel burocratese scolastico che “non risponde agli stimoli” - il Maestro Brunengo non trovò di meglio che esortarlo nel nome dei Caduti: inutile aggiungere che fece clamorosamente fiasco.
Al punto che il Carli, bocciato all’Istituto Tecnico “Ruffini” - una impresa riuscita a pochissime persone nell’arco di intere generazioni - venne diseredato ed esiliato nel Venezuela: Paese da cui non è più tornato.
Si vocifera addirittura che a La Guyaira sia finito addirittura in prigione, ma le notizie su di lui sono molto incerte ed incontrollabili.

Giunti ormai ad una età avanzata - per significare ad Oneglia quanto siamo vecchi diciamo che ci ricordiamo ancora di quando il Dottor Neri Valcado era saragattiano - ci siamo domandati recentemente se il Consigliere Regionale ed ex Sindaco (!?) Giovanni Barbagallo sarebbe stato capace di combattere nella Grande Guerra.

In realtà, costui non ha mai combattuto neanche sui banchi delle Assemblee Elettive in cui siede ininterrottamente da ormai più di quaranta anni, e dove anzi è notoriamente solito addormentarsi.
Segno, questo, inequivocabile della decadenza della stirpe itali: il Maestro Brunengo, che fu sempre un nostalgico del fascismo, ne trarrebbe conforma per le sue convinzioni politiche.

Le successive vicende di Donaudi furono avventurose: il Nostro fu via via impegnato dapprima nella Marina Militare, e quindi a lungo nella Marina Mercantile - ha solcato i mari tanto con i grandi transatlantici quanto con le più scalcinate “carrette” di armatori come Messina e Farsetti - metalmeccanico nella Torino rovente degli anni delle grandi lotte operaie, e poi in quelli detti “di piombo”, compagno di lotta del Reverendo Ribet (cui - approfittando dell’occasione - mandiamo un grande e affettuoso abbraccio) nella leggendaria redazione locale di “COM - Nuovi Tempi”, ma soprattutto e sempre esploratore curioso e partecipe delle più svariate aggregazioni politiche, di cui conosce la geografia storica come quella attuale come nessun altro.
Ultimamente, Donaudi si è dedicato a frequentare due generi di eventi: le conferenze del Casino di Sanremo ed i funerali dei politici, annotando scrupolosamente le presenze e le assenze: entrambe simboli significativi di liti e di reincontri, cui per l’appunto soltanto la morte dei loro protagonisti può porre termine.
Negli Anni Settanta, emulando “Il Male” di Roma, Donaudi lanciò la sua ormai storica pubblicazione “underground”, inizialmente denominata per l’appunto “Il Male delle Riviera”, di cui fummo tra i primi collaboratori.

La tecnica da noi impiegata era la stessa del periodico che avevamo preso a modello, e consisteva nella diffusione di notizie false ma verosimili.

Il nostro bersaglio preferito, almeno all’inizio, evidente e grottesco nella sua sopravvivenza fisica, politica e religiosa, era costituito dal gruppo di superstiti “Pacelliani” riuniti intorno alla Parrocchia di San Giovanni Battista: i Vassallo, le Lina Boero, gli Scarsi, gli Zeviani, gli Ardissone e i Ramella.
Ormai, purtroppo per noi, tutti quanti passati a miglior vita, privandoci dell’ispirazione umoristica iniziale.

Il lavoro giornalistico, pur rimanendo sempre nell’ambito dello “underground”, si è in seguito evoluto, creando - con l’aiuto delle pubblicazioni consorelle in Italia a all’estero - una rete che abbraccia tutta l’Europa Occidentale, estendendosi in America Latina.
Lungi da noi la pretesa di compiere una “reductio ad unum” di esperienze politiche ed artistiche tra loro molto diverse, benché tutte quante contro corrente.
Era comunque inevitabile che il nostro nemico locale - ormai esauriti fisicamente i “Pacelliani” - sia oggi costituito dal “Partito trasversale”.

Donaudi - uomo molto tenace - non perde un solo funerale dei suoi esponenti, e tiene meticolosamente aggiornato il conto dei superstiti, ormai ridotti a due ex Parlamentari del Partito Comunista.
Ciò conferma il principio enunciato da Giulio Andreotti, secondo cui cui il potere logora chi non ce l’ha.

Sul versante della politica nazionale ed internazionale, essendo purtroppo deceduto il Professor Preve, uomo proveniente dalla Sinistra ma primo a comprendere e ad ammonire pubblicamente come le vecchie “dicotomie” si siano ormai trasformate in uno strumento impiegato dal Potere finanziario dominante per fregarci , il nostro punto di riferimento sono attualmente il Professor Fusaro ed il Professor Cardini: l’uno - non a caso - già di Sinistra e l’altro già di Destra.
Sulle nostre pagine si sono incontrati e confrontati d’altronde uomini provenienti da entrambi gli schieramenti: tutti quanti però accomunati dalla volontà di superare le loro anteriori ed obsolete divergenze.

Noi siamo schierati contro l’attuale Governo, mentre il “Partito trasversale” è governativo “a prescindere”.
O meglio, come si usa dire di questi tempi, “senza se né ma”.
Il nemico vive ormai arroccato in quella sorta di “bunker” che si chiama “Istituto Storico della Resistenza”, un organismo pseudo scientifico ispirato a quelli analoghi dell’ex Unione Sovietica, cui era demandato il compito non già di scrivere la Storia, quanto piuttosto di riscriverla esaltando il ruolo dei dirigenti di turno e sminuendo quello dei dissidenti.
Nel nostro caso, si vuole far credere che ha fatto il partigiano soltanto chi in seguito ha commerciato in Selvaggina & Affini, come recitava il nome della loro Ditta.

Gli “affini” sono gli avanotti, che vengono riversati nei nostri torrenti di montagna per riprodurre la fauna ittica, decimata dai pescatori come i cinghiali vengono sterminati dalle apposite “squadre”.
Con il risultato che i loro sostituti devono essere importati dalla Serbia.
A differenza dei dirigenti dell’Istituto Storico della Resistenza, a noi non manca l’auto ironia.
La nostra è anche la generazione degli “Ecce Bombo”, a cui nulla - da parte di “Emozioni” - viene risparmiato: né gli sbandamenti nella vita privata, né i vezzi intellettuali, né le cadute di molti di costoro nella piccola criminalità e nella tossicodipendenza.

Si tratta dei cosiddetti “compagni scoppiati”, che noi osserviamo freddamente, come fanno gli entomologi con gli insetti.
“Emozioni” traccia dunque l’affresco, ed insieme redige l’annuario, di una generazione.
La quale è ancora in attesa di una rigenerazione.
Come i protagonisti di “Ecce Bombo”, ci si accorge però che il sole sorge dalla parte opposta rispetto a quella che si era creduto.
Niente paura, siamo attrezzati anche per questo essendo anche - a nostra volta - attenti lettori delle pubblicazioni tradizionaliste; le quali - a quanto pare - ci tengono in considerazione.

Segno questo che il sistema è riuscito nell’impresa di metterci d’accordo, anche se una parte del merito è nostra, essendo riusciti a rompere gli schemi.
Chi vuole partecipare, o quanto meno assistere - alla nostra avventura intellettuale, può richiederci un numero - saggio della rivista.

Se esiste “Faro di Roma”, si può dire che “Emozioni” sia una sorta di “Faro della Riviera”.
Le sue uscite periodiche ricordano le sciabolate di luce che getta sul Mar Ligure quello di Capo Mele.
Quanto invece alle segnalazioni notturne collocate sulla punta dei moli di Oneglia e di Porto Maurizio, esse risultano piuttosto stitiche, come le riviste ufficiali del Comune, della Provincia e della Camera di Commercio, nonché “Imperia News Magazine”, palestra del Senatore Nedo Canetti: tutte ormai defunte, come la gran parte dei dirigenti del “Partito trasversale”.
Ormai chiusa anche l’Agnesi, resiste soltanto il Ristorante “Braccioforte” di Osvaldo Martini Tiragallo.
Incombe sulla nostra povera Città una terrificante necrofilia.
Noi siamo rimasti l’ultimo segno di vita.
Aiutateci, nel nome di Dio!

La Rivista “Emozioni” può essere richiesta indirizzando la corrispondenza al Direttore Gianni Donaudi, via Doria 5, 18100 Imperia.

Mario Castellano, “Emozioni” che racconta lo spirito della Riviera come nessun altro, FarodiRoma, 20 gennaio 2019

sabato 27 agosto 2022

Oltre la finestra

Colline del ponente ligure

Con questa grande quantità di tempo che mi trovo a disposizione non sempre scelgo il modo migliore per il suo utilizzo.

I miei occhi vagano su uno schermo di immagini e parole, su altri schermi per restare in contatto con il mondo, su caratteri stampati, poi esausta li giro fra le stanze.

Annoiati alla fine si spostano su tutto quello che mi circonda, fuori dei vetri.

La mia casa sta nel centro di un anfiteatro di case. Un vecchio centro storico.

Con le altre addossate dietro condividiamo un muro.

Le gradinate sono abitate da attori che non sanno di recitare quello che io decido di far loro interpretare.

A nord, una palazzina quadrata di cui scorgo solo l’ultimo piano, il terzo.

Tra quelle stanze lavorano come api operaie un uomo ed una donna. Non più giovani. Sembrano gli adoratori di tutto ciò che è stato costruito attorno a loro.

Sempre a pitturare, pareti, ringhiere, sistemare il tetto.

Una ossessionante liturgia di venerazione delle cose.

Verso ovest una vecchia casa, dai colori sbiaditi, dalle tende di velo sovrapposte per creare ombra ma, anche per nascondere le loro vite, come usano fare i liguri.

Ogni mattina una vecchia signora esce in pigiama e ritira una pianta che sicuramente non ama il sole.

La tiene fra le braccia come fosse una bambina.

Il marito con la schiena curva e il bastone per sorreggersi più tardi scende nell’orto per abbeverare le zucche assetate, e raccogliere fiori e trombette che finiranno nel piatto per pranzo.

Affiancata prosegue un’anonima costruzione come anonimi sono i proprietari.

Il mio ingresso interrompe le case addossate e subito dopo si erge una fatiscente sbeccata casa cadente, che non può che ospitare grezzi individui.

Penso che i vecchi abbiano costruito i muri in comune delle loro case per ridurne i costi.

Sono quindi legate come i grani di una collana una all’altra.

Quelle che girano a squadra verso sud poi si aprono verso est.

Nella parte che forma l’angolo retto sono rinchiusi coloro che non sanno parlare, ma solo urlare. Sembrano provenire da gabbie di uno zoo, piene di scimmie.

Alcuni parlano l'idioma volgare italiano, altri quello spagnolo.

La famiglia dall'idioma straniero si collega via etere con tutti i parenti e conoscenti al di là dell'oceano in un paese sudamericano.

In queste riunioni non mi sento più nella mia terra ma nella loro. Il loro entusiasmo e la loro allegria è contagiosa. E così differente dai liguri che parlano sottovoce per non far sapere agli altri i loro affari.

Nella parte a est ci sono due rebus irrisolti.

In una, due grandi finestre di cui solo una si apre e non lascia intravvedere chi esegue l’operazione.

Uomo, donna, fantasma?

Più avanti invece su un grande terrazzo non esiste giorno che una donna non stenda bucati divisi puntigliosamente per colore.

Immagino quante lavatrici avrà fuso e non riesco a immaginare a quante famiglie appartengano tutte quelle stese.

Più lontano verso il centro storico si forma di nuovo un angolo che guarda con le spalle il nord e con le facciate il sud.

I miei occhi laggiù arrivano sfocati.

Dovrei usare un binocolo e non mi sembra il caso.

Una casa gialla dove ognuno ha messo a caso quello che gli pareva bello, con il risultato di uno stile improbabile, abitata da due fratelli che - mi pare - come succede spesso non si parlano.

Quello che è proprietario dell'arena anziché le fiere ha messo galline e cani.

Cinque povere oche sono rinchiuse in uno stretto spazio e solo ogni tanto possono godere della libertà.

Il cerchio è quasi chiuso: rimane uno squarcio di collina, anche quello pieno di case, che lentamente soffocano la vegetazione e il bosco. 

Gris de lin



giovedì 25 agosto 2022

Un poeta ligure, amato non solo a Dolcedo

Dolcedo (IM)

Un poeta ligure che, nella sua scelta di vita appartata, nel tono sommesso ma, nel fondo, forte e intenso della sua lirica, non smentisce i segni della propria terra: è Giuseppe Cassinelli. Il triangolo della sua vita è tutto ligure: nato a Dolcedo nel 1928, vive e lavora ad Alassio, ma nel silenzio del borgo di Torrazza, vicino alla nativa Dolcedo, trascorre le vacanze estive. Cassinelli ha al suo attivo un buon numero di pubblicazioni. Quattro le raccolte di poesia in lingua: "Preludio alla saggezza" (1955), "Tuttacielo" (1972), "Il tordo còrso" (1978) e, ultima,"Come un calmo paese" (1997) che raccoglie, con varianti e correzioni, testi delle raccolte prece­denti e testi nuovi che arrivano fino ai primi anni Novanta. Nel dialetto della sua terra sono invece le poesie delle due raccolte intitolate "Ciòiu de mazu" (1970) e "U fieu e a neutte" (1989). Cassinelli è, inoltre, autore di diversi saggi critici su autori del Novecento e ha curato i carteggi Pascoli-Mario Novaro, Ettore Serra-Titta Rosa, Boine-Mario Novaro. Nell'ormai lungo percorso della poesia di Cassinelli perdura, pur nell'evoluzione, una linea di sobrietà e, insieme, di limpidezza espressiva non turbata dai diversi sperimentalismi venuti via via di moda nella seconda metà del Novecento: una linea che garantisce a tutta l'opera di questo poeta il segno di una personalità inconfondibile. Abbiamo incontrato Cassinelli nella sua casa delle vacanze, arroccata dove «si spalanca / a mare la collina di Torrazza» (è una bella immagine di una sua lirica del '71). Ci ha accolto con gentilezza e ci ha intrattenuto con una lunga, amabile conversazione: ci è sembrato che la voce sommessa, il tono pensoso, il puntiglio della precisione in ogni riferimento fotografassero l'indole di uno scrittore che, ricco di idee meditate a lungo, si tiene lontano il più possibile dall'approssimazione, dalla chiacchiera vuota, dall'indifferenza delle valutazioni.
Come si espresse la sua vocazione alla poesia?
«Credo si sia trattato subito, nell'età adolescenziale dell'intuizione dell'effetto più forte, più carico di significati, che le parole, messe in un certo ordine possono ottenere rispetto alla piatta comunicazione data dalle parole adoperate secondo l'uso corrente. Mi affascinava il ritmo di una lettura scandita, mi incantavano le suggestioni che un ritmo aggiungeva al più letterato e immediato significato di un testo. Fin dal tempo del ginnasio, traducendo per esempio le "Bucoliche" di Virgilio, cercavo di dare un ritmo alle parole italiane perché in qualche modo non fosse cancellato il fascino del testo latino. È da quella suggestione che sono nati, tra l'altro, i versi di una poesia del 1954: «... Se a me / verrai, amico, avrò molli castagne, / frutti molto maturi e casti versi...».
Il suo affacciarsi alla poesia coincise con la stagione in cui la linea poetica dominante era dell'ermetismo. Ne fu influenzato?
«L'ermetismo voleva dare grande risalto all'immagine, tendeva la parola fino al limite dell'ineffabile. A Sanremo Renzo Laurano era un ermetico che insegnava agli allievi che la poesia vera sta nella purezza incontaminata delle immagini. Io sentivo la suggestione di quelle teorie, ma cercavo di non essere ermetico, di non far perdere alle parole della poesia l'ancoraggio alla concreta realtà della vita».
Sì, effettivamente si sente che tutta la poesia tende ad evitare l'ineffabilità di segno mallarmeano. Lei piuttosto dice il sentimento e il pensiero concentrandoli in un 'immagine ben definita: come nei cosiddetti "correlativi oggettivi" di Montale. In una sua poesia del '52 mi hanno colpito questi due versi: «... sull'arrossato muro anch'io veda dileguare, / sfarfallando, la scoria grande di me». Non crede che questo sdoppiamento dell'io tra una figura in carne ed ossa e la sua immateriale ombra o "scoria" proiettata su un muro possa richiamare i celebri versi di "Ossi di seppia" «Ah l'uomo che... l'ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro!» ?
«Aldo Capasso, recensendo le mie poesie, ha affermato che in quella di data più alta è evidente l'ascendenza montaliana. Ed è vero, ma anche qui, al di là di quanto un modello molto amato può essersi inconsapevolmente inciso nella mia sensibilità e nella mia voce, il mio sforzo è stato quello di seguire esigenze di motivi, riflessioni, figure personali».
Si parla di una "linea ligure" della poesia novecentesca: un'astrazione o qualcosa di effettivamente documentabile?
«Un dato che accomuna, al di là, però, di tante e anche forti differenze, poeti come Boine, Novaro, Sbarbaro, Montale, è l'esigenza di frenare l'effusione sentimentale; un dato che poi si incarna in soluzioni come le scorciatoie espressionistiche di Sbarbaro, i toni scabri di Montale... credo comunque che l'uso di una categoria come "linea ligure" possa essere fonte di genericità critica».
Che cosa può dirci della sua poesia in dialetto?
«Ho iniziato come poeta in lingua, il dialetto è venuto dopo. Forse sull'onda di una suggestione antica (bambino, nelle notti di vento e pioggia, dal letto sentivo il carrettiere che passava col suo carico di olive e sentivo il conforto della casa «fosci u l'è u bon da cà») o anche perché al dialetto ricorrevo come a una lingua cifrata per evitare che mi fossero lette e comprese certe lettere... E poi scrivere versi in dialetto mi sembra un modo di salvare parole altrimenti destinate a morire». Che cosa pensa della poesia nella Liguria d'oggi? Ettore Serra diceva che la poesia contemporanea si era rifugiata nelle due ascelle d'ltalia, il golfo ligure con Montale e gli altri e il golfo di Trieste con Saba. Oggi La Liguria produce ancora poeti, anche se magari si esprimono in prosa: pensi a Francesco Biamonti i cui romanzi vivono di una bellezza che è più lirica che narrativa. Giuseppe Conte è un notevole poeta che ora scrive in prosa, ma ... non cessa per questo di essere poeta. Cesare Vivaldi, nato nel '25 e scomparso quest'anno, è stato un poeta di straordinaria visività: il suo dialetto, che è una fusione di parlate di diversi centri liguri, crea forti immagini, dipinge il mondo con le parole».
I suoi lavori in corso?
«Sto ultimando un racconto lungo imperniato sulla storia di alcune grandi famiglie di Dolcedo nell'epoca a cavallo fra Otto e Novecento. Prosa, non versi; e una prosa per la quale mi sono imposto un verismo assolutamente oggettivo; lavoro limando lo stile in modo da eliminare impressioni di intervento soggettivo del narratore».
Cassinelli ci legge una pagina di questo nuovo libro in cantiere: la sua voce sottolinea l'effetto che lo stile oggettivo deve produrre. In realtà egli è poeta anche qui. La parola scritta - di una poesia o di un racconto in prosa - per lui è sempre molto di più della parola della comunicazione corrente: è il mezzo dell'espressione, ma è anche l'anima di ciò che si intende esprimere.
Giulio Galeto, Cassinelli, la musica delle parole, Torrazza, 1999                        


Da remoti paesi di campane,
sui bianchi lievi dell'aria ritorna
tempo di cornamuse. Come un cane
mansueto posa presso i villaggi dove
nell'appannata quiete delle stanze
bimbi dormono ancora sul mattino.
Io pure l'ebbi un tempo,
il miracolo di Gesù Bambino.
Giuseppe Cassinelli, Tempo di cornamuse in Il tordo corso

Giuseppe Cassinelli, Invito a Ettore Serra, in «Persona», dicembre 1966; Cassinelli, collaboratore di numerose riviste e poeta in lingue e in dialetto, nasce a Dolcedo nel 1928 e vive ad Alassio, dove svolse la professione di insegnante presso le scuole elementari. Profondo conoscitore della poesia serriana, fu legato al poeta spezzino da un sincero legame d’amicizia, come si avrà modo di approfondire nel capitolo dedicato alle frequentazioni liguri [...] Collaboratore di numerose riviste e giornali, è anche critico e poeta (sia in italiano che in dialetto); tra la sua produzione di critica letteraria si ricorda l’edizione critica di 'Murmuri ed echi' (1975) di Mario Novaro. Scrittore di numerosi articoli su Serra (come si può constatare dalla bibliografia) è il curatore del carteggio tra Serra e Titta Rosa (Titta Rosa e Serra. Carteggio e ricordi critici, Savona, Sabatelli, 1973).
Simona Borghetti, "Un amore a lungo termine": Ettore Serra poeta tra i poeti, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012/2013


[...] Recentemente pare che tu ti stia dedicando più alla narrativa che alla poesia. E’ un mutamento di rotta o un momento di pausa del poeta?
Non saprei. Comunque, ho “fatto poesia” soltanto in alcuni momenti della mia vita, divenuti nel tempo più rari: per constatarlo è sufficiente che tu badi alle date di composizione.
La tua attività poetica è iniziata con la poesia in lingua e successivamente sei passato a scrivere poesie in dialetto (nel dialetto di Dolcedo molto diverso, dicono i dialettologi, da quello di Alassio). Cosa ha determinato in te l’esigenza di questa nuova forma espressiva?
Scrissi le prime poesie nel dialetto di Dolcedo verso il 1955-56, dopo aver letto le Otto poesie nel dialetto ligure di Imperia di Cesare Vivaldi, e scoprii le grandi possibilità espressive di quel dialetto così ricco di nouances e di vocaboli concreti.
Può essere la tua produzione poetica in lingua collocata nell’ambito della “poesia pura”?
Per quanto riguarda la “poesia pura”, tu sai - per aver letto quelle vecchie cose in “Nuovo Contrappunto” - che in un primo tempo tentai una poesia che procedesse soltanto per mezzo di analogie e immagini al modo dei “poeti puri”, ma che non fosse affatto cifrata. Questi “tentativi” hanno lasciato il segno in seguito.
Una tra le tue poesie più significative è Il tordo còrso, che è ispirata ad eventi bellici, presenti sia in altre tue poesie che in alcuni tuoi racconti. Vuoi parlarci di questo tuo filone ispirativo?
Il periodo dell’occupazione tedesca, è stato un avvenimento particolarmente traumatico per chi lo visse nel periodo tra adolescenza e giovinezza e sconvolse tante coscienze di adulti. Ma fu anche illuminante, come hai notato tu stessa commentando Il tordo còrso.
Nelle tue poesie compare spesso il paesaggio della riviera del ponente ligure: quello marino, con le scogliere che “l’agave incorona” e quello dell’entroterra con le sue “conche vaporose d’ulivi”. Sia l’agave che l’ulivo sono d’altra parte piante molto presenti nella tua poesia; in particolare l’ulivo figura tanto nelle poesie in lingua quanto in quelle in dialetto. Ci vuoi parlare del tuo legame con questa pianta? Un legame d’altra parte molto sentito dai letterati del ponente ligure (vedi Boine).
Da ragazzo, se dovevo trascorrere intere giornate soprattutto invernali, tra il folto degli uliveti, quell’atmosfera grigia mi infastidiva. Era invece una festa dell’animo trovarmi tra i verdi degli orti e boschi. Tuttavia ho trascorso più di trent’anni nella mia vallata tra colline interamente coperte di uliveti e va da sé che, col tempo, l’ulivo sia diventato, per usare le tue parole, il “correlato oggettivo del mio mondo interiore”.
Durante la tua lunga attività di uomo di cultura sei venuto in contatto con eminenti personalità del mondo letterario ligure, quali Ettore Serra, Elena Bono e Aldo Capasso. [...]
Liliana Porro Andriuoli, Intervista a Giuseppe Cassinelli, Lettera in versi, Newsletter di poesia di BombaCarta, n. 22, Marzo 2007

sabato 20 agosto 2022

Gli abitanti del Nizzardo temevano i piani irredentisti mussoliniani

Nizza: uno scorcio di rue Bonaparte

Mussolini, ancor prima ancora di andare al potere, volle assicurare una sua presa sui compatrioti emigrati. Il progetto prese corpo nel 1922 in occasione del congresso di Milano nel corso del quale fu decisa la creazione dei "Fasci all'estero". <1 [...] A Nizza il primo "Fascio" che, causa diverse crisi, conobbe diverse rifondazioni, fu creato il 17 dicembre 1922: contava 1.000 iscritti nel 1930 e 2200 nel 1938 [...] Così, a Nizza, il Barone Lebrecht, Console Generale, un vecchio gentiluomo tranquillo e attento preservare la propria pace perché vicino alla pensione, aveva ritenuto prudente prendere assicurazioni dagli uomini del fascismo affinché fosse possibile la costituzione di un "Fascio" composto da notabili di orientamente moderato. Ma fu preceduto da due giovani ufficiali, Franchi e Drugman, che fondarono il primo "Fascio" il 17 dicembre 1922. <4 [...] Altro esempio, il 21 aprile 1924 attivisti nizzardi organizzarono con grande pubblicità in una chiesa della città vecchia una cerimonia per far benedire il loro stendardo e rendere omaggio alla memoria del capo del "fascio" parigino, assassinato poco tempo prima. Questa cerimonia, tanto più cospicua in quanto si svolse di mattina vicino al grande mercato che i fascisti attraversarono vestiti con le loro camicie nere, provocò una contromanifestazione di antifascisti e di nizzardi simpatizzanti della sinistra. La chiesa fu presto assediata da diverse migliaia di persone che cantavano alternativamente la Marsigliese e l'Internazionale. Fascisti in ritardo o che cercavano di lasciare la chiesa furono maltrattati. Infine, il prefetto delle Alpi Marittime in persona, alla testa delle forze dell'ordine, dovette andare a liberare gli assediati, tra i quali vi era lo stesso console generale <6. Nizza fu ancora teatro di violenze quando, nel 1925, 1926, un virulento giornale fascista, "Il Pensiero Latino", moltiplicò gli insulti ed aumentò l'eccitazione degli animi.
[...] A Nizza il 1° settembre 1929 una bomba scagliata da uno sconosciuto su di un gruppo di vecchi combattenti fascisti fece tre morti e diversi feriti <8.
[...] A Nizza nel 1923 il tesoriere del fascio fuggì con la cassa. Negli anni seguenti diversi responsabili usarono i fondi del fascio nizzardo per giocare nei casinò.
[...] A Nizza l'umiliazione inflitta al console in occasione della visita di De Vecchi sconvolse gli aderenti al punto tale che ne conseguì un'onda di dimissioni così che gli effettivi del fascio caddero da 110 a 11.
[...] Una svolta venne impressa alla fine degli anni Venti. Gli attivisti furono alquanto calmati per rassicurare i cauti immigrati italiani. Vennero rinnovati i dirigenti degli ufficiali consolari e le responsabilità vennero affidate a uomini sicuri e abili, fascisti affermati, che sapessero affrontare i problemi evitando l'ostentazione di cerimonie troppo segnate dall'ideologia di Mussolini. Questi nuovi uomini come i consoli Cancellario d'Allena a Nizza, Barduzzi a Marsiglia <10 o Vecchietti al Nord-Pas-de-Calais sotto l'appareza di rispettabilità controllavano tutto l'edificio fascista e lavoravano con discrezione per allargarne l'influenza [...] I nazionalisti spesso vedevano l'Italia come «una sorella latina», un paese la cui unità doveva molto alla Francia, ma anche un possibile alleato contro la Germania. La fratellanza d'armi ereditata dalla Grande Guerra e il pregiudizio favorevole della destra per Mussolini, che metteva ordine nel paese, avevano dissipato i pregiudizi. In più, in queste condizioni, gli immigrati potevano mostrare senza paura le loro preferenze fasciste. Vari fattori locali ebbero il sopravvento. Ad est il timore di complotti pangermanici rese il fascismo italiano più simpatico. Invece, un clima molto negativo prevaleva nella Contea di Nizza. In questa regione, gli abitanti sapevano che i fascisti contestavano la validità del plebiscito del 1860 ed il carattere definitivamente francese della Contea. C'era chi pensava che Mussolini stesse preparando una guerra di riconquista. Altri hanno immaginato che il Duce favorisse l'emigrazione di suoi compatrioti a Nizza per esigere un nuovo plebiscito il giorno in cui gli Italiani fossero diventati maggioranza della popolazione e capaci di imporre un voto a favore della loro nazione. E tutti gli intrighi fascisti, le loro manifestazioni pubbliche, le loro violazioni dei confini suscitarono preoccupazione e indignazione. Nel 1925-1926, le polemiche di stampa, particolarmente violente, tra il fascista "Pensiero Latino" e la radicale "France de Nice" <14, le risse e i duelli che opponevano i giornalisti dei due fogli, ed i brutali trattamenti inflitti a dei ferrovieri francesi a Ventimiglia, fecero nascere un'atmosfera febbrile sulla Costa Azzurra dove molti pensavano che la guerra fosse vicina. Per rassicurare gli abitanti il governo mandò a Nizza tre torpediniere, quattro sottomarini e tre plotoni di guardia mobile. A novembre 1926 l'arresto di Ricciotti Garibaldi, nipote dell'eroe nizzardo, antifascista d'apparenza ma in realtà agente stipendiato di Mussolini, più la scoperta di altre spie, rivelarono, screditandolo, le macchinazioni del Duce e, con la risolutezza dimostrata dai poteri pubblici, contribuirono a fare calare la tensione.
[...] In questo modo, se complessivamente all'est una situazione placata poteva favorire l'adesione al fascismo, nelle Alpi Marittime gli italiani più prudenti esitarono a compromettersi con un movimento che trasmetteva un'immagine negativa.
[...] A Nizza  nel 1938 la Festa dello "Statuto" ebbe luogo davanti a 3.500 persone.
[...] Successe anche, almeno a Nizza, che poliziotti disonesti vendessero informazioni sugli emigrati politici profughi ad agenti fascisti. <17
[...] Lo sviluppo del fascismo negli anni 1930 dovette molto alla costruzione di una rete amministrativa efficace ed all'azione di uomini dotati di energia. Il territorio francese, in effetti, venne coperto da una fitta rete consolare che mirava a controllare gli immigrati. Nelle Alpi Marittime il consolato generale di Nizza venne strutturato nei due viceconsolati di Cannes e di Mentone e nelle quattro agenzie consolari di Grasse, Antibes, Villefranche-sur-Mer e Beausoleil. I vecchi funzionari, che erano stati al servizio dell'Italia liberale, furono rimpiazzati da uomini nuovi, seguaci di un fascismo duro. Dogmatici ed autoritari, questi ultimi seppero mostrarsi abbastanza abili per non ripetere le provocazioni che avevano contraddistinto la loro causa negli anni 1920. Le strutture ufficiali si appoggiavano anche su militanti risoluti che, a livello locale, trasmettevano il messaggio mussoliniano, diffondevano le parole d'ordine, mettevano le loro case a disposizione di un agente di passaggio per tenervi delle riunioni [...] A Nizza il consolato concesse dal 1934 al 1937 l'uso della propria bella sala delle feste ad una compagnia di attori dilettanti senza esigere una contropartita politica; ma, dopo che la compagnia ebbe apprezzato il conforto del locale, il console chiese ai suoi componenti di unirsi al "fascio"; in questo caso, ricevette un rifiuto e non potè fare altro che espellere i suoi connazionali recalcitranti. Molti altri non restarono insensibili alle pressioni: delle 36 società italiane esistenti nelle Alpi Marittine, in maggioranza fondate prima del 1922, 25, per totale di 3.700 iscritti, accettarono la tutela fascista intorno al 1930.
[NOTE]
1 Piero Parini, Gli Italiani nel mondo, Milan, Mondadori, 1935.
4 Ralph Schor, «Il fascismo italiano nelle Alpes-Maritimes, 1922-1939», Notiziario dell’istituto della Resistenza in Cuneo e provincia, n° 26, décembre 1984, pp. 21-57.
6 Ralph Schor, «Les Incidents de l’église Saint-Jaume, premier coup d’arrêt au fascisme italien à Nice», Cahiers de la Méditerranée, n° 62, juin 2001, pp. 113-120.
8 Ralph Schor, «L’Attentat des Lilas blancs», Mesclun, n° 18, 1992, pp. 6-9.
10 Émile Temime, Migrance. Histoire des migrations à Marseille, t. 3, Aix-en-Provence, Édisud, 1990.
14 Yvan Gastaut, Les Combats de La France de Nice et du Sud-Est, quotidien niçois, 1926-1930, Nice, Serre, 1995.
17 Marie Vogel, «Une police à la frontière : la direction de la police d’État de Nice, 1927-1939», Cahiers de la Méditerranée, n° 55, décembre 1997, pp. 187-202.
Ralph Schor, Les immigrés italiens en France et l’engagement fasciste. 1922-1939, L'Harmattan, 2011/3 

La presenza di una così massiccia colonia italiana attirava l’attenzione della popolazione locale e preoccupava le autorità prefettizie. Nei primi tempi dell’esilio, a metà degli anni Venti, nel Nizzardo la polizia locale seguiva, infatti, con attenzione quel che accadeva immediatamente al di là della frontiera e in particolare la costruzione del consenso che il regime creava mettendo in atto cerimonie, nuove festività, costruendo monumenti e istituendo associazioni, cavalcando ancora l’onda emotiva della Grande guerra e delle impressioni causate dalle morti di massa e dal nazionalismo del primo Novecento. La diffidenza verso gli antifascisti restava evidente ed anzi si dimostrava una certa tolleranza per le manifestazioni pubbliche fasciste, mentre si ostacolavano quelle antifasciste, in particolare le cerimonie contro l’omicidio di Matteotti che proprio in quei primi anni destavano ancora grande partecipazione e commozione in una comunità immigrata italiana particolarmente cospicua <50.
La circospezione della prefettura nizzarda si manifestava ad ogni modo sia che si trattasse di fascisti sia di antifascisti. Presso la sede del Consolato generale italiano al 72 di boulevard Gambetta era stato creato anche il Fascio Italiano di Nizza, fondato nel ’23 dall’uomo di punta del fascismo nizzardo, il capitano Giovanni Drugman, che procedette ad un tentativo di fascistizzare la colonia italiana creando scuole, servizi sociali, associazioni mutualistiche. Per sua iniziativa si cominciò a pubblicare il "Pensiero Latino" nel dicembre 1925, un quotidiano filofascista dai toni irredentisti, vicino al Consolato e ai suoi uomini. I fascisti allora non godevano solamente del sostegno del consolato nizzardo, ma di tutta una rete istituzionale dislocata sul litorale, dai vice-consolati di Cannes e di Mentone alle agenzie consolari di Grasse, Antibes, Villefranche e Beausoleil <51.
Tuttavia l’attivismo fascista cominciò presto a destare non poche preoccupazioni nell’amministrazione locale, come spiega Ralph Schor. Gli abitanti del Nizzardo maturarono un’insofferenza profonda verso le manifestazioni politiche dei transalpini sul proprio territorio e in particolare per le riunioni fasciste, temendo i piani irredentisti mussoliniani. Le autorità francesi erano convinte che Mussolini avesse pianificato di favorire l’emigrazione in Costa Azzurra fino a rendere la popolazione transalpina maggioritaria e suscitare, attraverso la propaganda, la richiesta di un plebiscito in favore dell’annessione all’Italia. Non fu mai trovata alcuna prova dell’esistenza di un simile progetto, ma da allora la vigilanza nel Nizzardo si fece particolarmente rigida. Di fronte alle reazioni francesi, il governo di Roma dovette frenare le provocazioni fasciste e sciogliere il Fascio di Drugman, che fu ricostituito sotto il comando del barone Lebrecht, composto da notabili locali <52.
[NOTE]
50. Adam: 04M 1386: juin 1926.
51. Adam: 4M 1386: octobre 1926. Ralph Schor, Le fascisme italien dans les Alpes Maritimes 1922-1939, in «Cahiers de la Méditerranée» n. 42, 1991, p. 206-207.
52. Schor, Le fascisme italien dans les Alpes Maritimes cit., pp. 131-134.

Emanuela Miniati, La Migrazione Antifascista in Francia tra le due guerre. Famiglie e soggettività attraverso le fonti private, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova in cotutela con Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, Anno accademico 2014-2015

A metà degli anni Venti i Fasci all’estero divennero una realtà concreta ed istituzionalizzata. Nell’orientarne l’assetto organizzativo e comportamentale, Mussolini poneva attenzione al rapporto tra questa diretta emanazione del regime ed i paesi ospitanti; nelle sue direttive, tra i doveri dei Fasci vi era pertanto l’«essere ossequienti alle leggi del paese che li ospita», il «non partecipare a quella che è la politica interna dei Paesi dove i fascisti sono ospitati», «rispettare i rappresentanti dell’Italia, all’estero» <29. [...] Il coinvolgimento dei consoli nelle attività di controllo e di repressione dell’opposizione era tanto dichiarato da essere noto e conosciuto, almeno nel caso specifico della Francia, anche alle autorità del paese ospitante. Queste ultime non erano affatto favorevoli ad uno sbilanciamento in senso politico della rete di rappresentanza italiana sul proprio territorio. Di conseguenza, già nel gennaio del 1926, il Ministro dell’Interno francese portava l’attenzione del Presidente del Consiglio «sur le rôle généralement dévolu aux représentants officiels italiens sur notre territoire de surveiller le mouvement antifasciste et d’organiser la répression des menées communistes» <52.
[...] Il numero di naturalizzazioni di italiani in Francia nel corso del triennio 1927-1930 è considerevole, ed è indicativo di un’apertura delle amministrazioni francesi a questo tipo di pratica <142 che, tuttavia, si poneva in netto contrasto con la volontà del regime fascista di mantenere saldo il controllo sui propri cittadini all’estero. Il regime intendeva opporre a tale nuovo orientamento «l’intensificata produzione nazionale, per cui l’emigrazione si manifesta piuttosto come una convenienza che come una necessità economica», «l’elevazione della coscienza nazionale, che il Regime Fascista ingenera nelle giovani e nelle più mature generazioni», «l’assistenza all’estero, che vuol essere di più vasta penetrazione e di tale effettivo rendimento che chi la riceve senta vivo e reale il ricambio dell’attaccamento che egli serba alla Patria» <143.
[NOTE]
29 B. Mussolini, Scritti e discorsi, cit., volume V, p. 170-171.
52 ANF, MI, F7/13457, rapporto del Ministro dell’Interno, DG Sureté générale, al Presidente del Consiglio, Ministero degli Affari Esteri, circa la nomina del nuovo vice-console italiano a Nizza Romolo Azzati, 25 gennaio 1926. Nello stesso faldone cfr. anche lettera del Commissario speciale di Nizza al Prefetto delle Alpi Marittime e p.c. a Sureté Générale e al Directeur Police Etat, «Italiens suspects à surveiller». Riferendosi ai nuovi viceconsoli nominati in diverse città francesi il Commissario commentava: «il appartient à cette catégorie de Vice-Consuls récemment nommés dans diverses villes de France et qui ont appelé l’attention de grands journaux de Paris […] Déjà Azzati s’est mis à la besogne et il use de tous les moyens, persuasion et menace, pour reconstituer et développer le fascio de Nice qui était en sommeil depuis plus de deux ans, à la grande satisfaction des italiens en général qui participaient ici à la prospérité commune et qui jouissent d’une liberté inconnue dans leur pays».
142 Cfr. J. Girault, L’étude de la naturalisation comme moyen de connaissance de l’immigration italienne en France (fin XIXe siècle-1940), in P. Milza, A. Bechelloni, L’immigration italienne en France, cit., pp. 48-57. Nell’ambito documentario, interessante citare il caso di un certo Morganti che, nel 1929, voleva contrarre matrimonio con una cittadina francese. Entrambi i paesi volevano la naturalizzazione di uno dei due sposi. La lega dei diritti dell’Uomo dovette intervenire presso il Ministro francese dell’Interno per risolvere la questione dell’immigrato italiano. Cfr. BDIC, LDH, F delta rés, 798/75.
143 ASMAE, RIF (1861-1957), b. 116, lettera di un consigliere anonimo, presumibilmente dell’Ufficio assistenza per gli emigranti italiani di Marsiglia, al Commissario generale per l’emigrazione Giovanni De Michelis, prot. 3801, 25 aprile 1927 sulle naturalizzazioni degli italiani. Secondo l’ambasciatore italiano in Francia, Manzoni, l’unica immediata risposta che le autorità italiane potevano contrapporre nell’immediato a queste pressioni provenienti da parte del paese ricettore era «l’assistenza, sia pur spicciola, che gratuitamente siamo tenuti ad esercitare in loro favore» (cfr. ivi, lettera dell’Ambasciatore Manzoni al console italiano di Bastia, 8 dicembre 1927). Tra le iniziative per controbilanciare le pressioni francesi è interessante citare quella proposta dal console di Nizza, approvata dal Ministro degli Esteri Dino Grandi. Agli italiani nati in Francia sarebbe stata inviata, al compimento del diciottesimo anno di età, la seguente lettera: «Egregio connazionale, La R. Ambasciata ed il R Consolato di … intendono che i nomi dei giovani i quali, all’età necessaria, fanno dichiarazione di opzione per la cittadinanza italiana, siano segnalati, insieme ai nomi dei loro genitori, in un Albo d’onore che sarà esposto al pubblico nel Municipio della città o della borgata da cui la famiglia è originaria. Ella è pertanto pregata di voler presentare, a suo tempo, a questo regio Consolato, la dichiarazione che, relativamente all’opzione da lei fatta per la nazionalità italiana, le rilascerà il giudice di pace, così che questo consolato possa dare notizia alle autorità del suo luogo d’origine della affermazione di italianità da lei compiuta.» - Cfr. nello stesso faldone Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale degli Italiani all’Estero, circolare n. 19, oggetto: azione di difesa contro la snazionalizzazione, 14 marzo 1928.

Costanza Di Ciommo Laurora, L’asilo politico nelle relazioni franco-italiane. I signori nessuno e l’impossibile status dell’opposizione italiana all’estero (1920-1986), Tesi di dottorato, Università Ca' Foscari Venezia, 2014

La “Pagina italiana” condusse una campagna offensiva contro il regime e le sue propaggini all’estero, il sistema di spionaggio e di provocatori messo in atto in Costa Azzurra e alla frontiera, svelando complotti, indiscrezioni, scorribande fasciste, destando anche preoccupazioni per l’ordine pubblico francese, dato il clima di tensione creato dalle accuse reciproche tra La France e il Pensiero Latino. L’“affare Garibaldi”, che coinvolse in uno scandalo di corruzione il colonnello Ricciotti Garibaldi, fece grande scalpore sull’opinione pubblica francese e sulla comunità antifascista, e le inchieste dei Campolonghi si infittirono sempre più, in particolare a Beausoleil, considerata roccaforte dei fascisti della Costa Azzurra.
Emanuela Miniati, Op. cit.

Apparentemente durante il ’40 le relazioni tra la propaganda italo-francese erano completamente ostruite ma credo in realtà che si possa dare un giudizio diverso sulla situazione. Esistevano alcuni canali paralleli che garantivano lo scambio di beni come pellicole o progetti di sviluppo turistico condiviso e le ambasciate giocarono un ruolo chiave in questo. L’ambasciatore francese a Roma propose al MinCulPop uno scambio di favori: loro avrebbero licenziato un giornalista della “Agenzia Radio” a causa di alcuni commenti ritenuti scandalosi sulla autarchia fascista e in cambio l’ambasciatore richiese la reintroduzione all’interno dei confini italiani di tre giornali particolarmente apprezzati dal pubblico francese (Revue de Paris, La Nouvelle revue Francaise, Revue des duex mondes) e il bollettino dei veterani francesi. Il capo del gabinetto ministeriale non declinò la proposta chiese solamente di suggerire a queste riviste un atteggiamento diverso nei confronti del fascismo, maggiore rispetto verso il governo italiano e la sua popolazione <527. Continuando lungo questa strada tra novembre e dicembre il LUCE e il MinCulPop rimasero in contatto con l’ambasciata francese per questioni collegate a scambi di pellicole, fotografie e filmati da riprodurre ad esempio nei Cinegiornale, non apparve strano quindi che addirittura i francesi chiedessero agli italiani di accettare i loro invii <528.
Forse uno dei casi più interessanti sullo sviluppo di politiche comuni fu il progetto di sviluppo turistico sulla frontiera occidentale l’autorità turistica francese era alla ricerca di un accordo per incrementare il turismo tra la costa azzurra e la costa ligure, un accordo completo che prendesse in esame capitoli riguardanti sia la propaganda che lo spostamento delle persone.
La discussione fu presa in considerazione così seriamente dall’Ente Nazionale per il Turismo che Mussolini in persona fu informato e il Duce non decretò alcuno stop al processo in corso anzi i lavori proseguirono.
Secondo una nota del MinCulPop la proposta francese era molto conveniente: avevano intenzione di accordare lo stato di “zona neutra” per lo sviluppo di attività ricettive tra Cannes e Sanremo, la costruzione di una linea turistica speciale per facilitare i collegamenti da uno stato all’altro, un ingente sforzo propagandistico per fornire l’adeguata copertura pubblicitaria e il ristabilirsi delle buone relazioni tra i due paesi <529. La negoziazione proseguì a lungo facendo passi in avanti concreti per la realizzazione di un accordo comune l’unica cosa che bloccò i contatti fu la dichiarazione di guerra italiana nel giugno del 1940, il primo dello stesso mese le autorità italiane e francesi avevano addirittura pianificato un incontro per discutere sugli ultimi dettagli dell’operazione <530.
[NOTE]
527 Appunto anonimo, 25/11/1939, acs-mcp gabinetto busta 132
528 Orazi a Luciano, 29/11/1939, ivi. Un altro documento del 9/12/1939 mostra le prove di scambi di materiale attraverso il LUCE
529 Appunto per il Duce, 15/11/1939, ivi

Fabrizio Novellino, Tra pace e guerra. Il Ministero della Cultura Popolare dalla «non belligeranza» alla disfatta in Grecia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Trento, Anno accademico 2014/2015

martedì 16 agosto 2022

Costruire un convento non è un problema di cultura, è un problema di religione



Costruito sul pendio collinare tra Sanremo e Coldirodi, il convento [n.d.r.: il Monastero del Carmelo a Sanremo (IM)] è considerato da Giò Ponti una delle esperienze «che restano eccezionali nella […] vita d’architetto» (Ponti G., 1959, p. 2).
Caratterizzato da alti muri bianchi, in contrasto con l’azzurro del cielo e il verde circostante, il Monastero si presenta come una fortezza costruita intorno alla cappella centrale, primo elemento che si individua dalla strada e ultimo a cui i tortuosi collegamenti interni del monastero conducono.
Il monastero si divide in tre parti: la foresteria, con numerose stanze da letto, una sala da pranzo, una cucina, l’appartamento del cappellano e della direttrice, la cappella, con il sagrato e le zone pubbliche, e la parte di clausura. Quest’ultima, necessariamente la più ampia, comprende un ingresso adiacente a quello per il pubblico, un patio che separa la zona per le suore, la cucina, un refettorio, il laboratorio di cucito, una grande biblioteca, lo studio della madre Priora e della vice, la sala del Capitolo, la stireria e il deposito della biancheria, la sala degli oggetti sacri e lo spazio ricreativo. La zona di clausura ruota, poi, attorno a un grande chiostro caratterizzato da una struttura chiusa e rivolta verso l’interno, al centro del convento.
Il portico del chiostro, inoltre, ha colonne di legno che, con gli elementi orizzontali sovrastanti, creano una simbolica ”teoria di croci”.
Il convento ha un secondo piano destinato a celle di clausura e di non clausura, alle quali si accede con rampe di scale indipendenti che partono dalle corrispondenti aree, pubbliche e di clausura, del piano terra.
La terza parte del monastero è la cappella, luogo a cui Ponti dedicò particolare attenzione, per il suo ruolo simbolico e funzionale centrale. È una grande aula sul cui lato verso la zona di clausura si trovano l’altare e la parete forata che divide la cappella dal coro delle monache, mentre, sul lato opposto, otto setti murari, quasi quinte teatrali, dividono lo spazio sacro dal sagrato esterno coperto, senza separazioni nette. La disposizione dei setti murari, a semicerchio intorno allo spazio sacro dell’altare, chiude «virtualmente il breve spazio, creando il raccoglimento: ma per chi si volge indietro, ad uscire, esse fan sì che la cappella si apra tutta sulla vista del sagrato, e il muro di cinta ne è allora l’estrema verde parete, e il cielo di Sanremo ne è il bellissimo tetto.» (Ponti G., 1959, p. 5).
Giovanna Franco e Stefano Francesco Musso, Architetture in Liguria dopo il 1945, De Ferrari, Genova, 2017


[...] “Costruire un convento non è un problema di cultura, è un problema di religione” <3: così, nel giugno 1955, Gio Ponti avverte le Carmelites de Saint-Élie, francesi ma insediate a Sanremo nel 1901, che lo hanno invitato a studiare il progetto e la costruzione del nuovo Convento di Bonmoschetto.
Le Carmelitane potrebbero essere arrivate a incontrare l’architetto milanese, per affidargli l’incarico del loro nuovo convento, grazie a un contatto con la redazione di “Art Sacré”, cui è stato chiesto un consiglio preliminare <4. Tale inizio farebbe supporre una consapevolezza culturale che, fin dalle prime fasi progettuali, tuttavia appare ai progettisti piuttosto invasiva, quando non inopportuna. Già nel novembre 1956 Ponti scrive, con garbo puntiglioso: “voi sapete che non insisto nelle mie opinioni per cocciutaggine: è che lavoro con troppo amore per questo Carmelo e qualche volta devo proteggerlo contro voi stesse che, seguendo certe suggestioni, potete toglierle [sic] tutta la sua espressione” <5. In ogni caso, i contatti sono fruttuosi e il progetto è avviato con slancio <6.
Il sito è scelto anche per la posizione isolata, su un pendio dolce che sale da Sanremo verso Codirodi, da dove la vista si allarga ad abbracciare un paesaggio naturale di grande serenità, quasi a ricordo del passo biblico dedicato all’ascesa del profeta Elia sul monte Carmelo <7.
La posa della prima pietra è nel marzo 1957 ma la costruzione ha luogo in due tempi separati: prima la parte propriamente claustrale, per dar modo alle suore di trasferirsi, e poi la parte della chiesa, aperta al pubblico; la consacrazione avviene il 5 giugno 1959 <8. Mai costruita, invece, sarà la foresteria, da Ponti stesso auspicata come “il luogo più bello dove passare gli ultimi anni e per morire con la Speranza” <9.
Grazie ai pochi disegni superstiti <10, è possibile avere un’idea del processo progettuale. L’architetto parte da una figura geometrica elementare, trasformata in un “piano irregolare ed espansivo” <11 attraverso un caleidoscopio di flessioni e deformazioni, dettate soprattutto dall’attenzione maniacale al programma funzionale. Per essere luogo sublime di preghiera, il monastero è reso una sofisticata macchina distributiva, attraverso la distinzione di tre livelli gerarchici d’uso dello spazio: la clausura, gli ambienti per le novizie, quelli aperti al pubblico, e in particolare la piccola chiesa.
Superata la recinzione della proprietà, l’edificio appare come una serie di volumi articolati in altezza, ma racchiusi entro un muro continuo, rifinito a intonaco bianco grezzo. Secondo l’idea originaria, il visitatore avrebbe trovato quattro ingressi: i primi due avrebbero permesso l’accesso diretto alla foresteria, mentre gli altri alla cappella e al convento vero e proprio. Questi ultimi - i soli costruiti - sono immaginati in termini assai diversi, poiché se il primo è soltanto una fessura di vetro nel muro di cinta, il secondo dà vita a una facciata autonoma, alta due piani, conclusa in alto dagli spioventi di una vela e sormontata da un calvario stilizzato in ferro battuto, che diventa omaggio leggiadro all’architettura ligure.
Entrati nel convento, tale semplicità compositiva si trasforma in complessità distributiva. Nelle parole di Ponti, “se da un lato le piante funzionalissime […] portano la sigla della mia tendenza alle forme finite e chiuse, ed al disegno espressivo […], e se i muri, pur nella loro espressione mediterranea, sono coerenti alla mia espressione […], questi muri del ‘mio Carmelo’ sono nei loro movimenti e nel loro candore i protagonisti non strutturali ma espressivi di quest’architettura, per esser essi la custodia di vite e di preghiere e di giornate preziose ed elevatissime” <12.
Attraverso filtri che impongono lievi slittamenti tra le giaciture delle pareti, gli spazi da pubblici si fanno privati per divenire, infine, claustrali.
Se al pianterreno rimangono i locali di servizio e al primo piano le celle delle monache, cuore dell’impianto diventa il chiostro rettangolare, locus amoenus caratterizzato da pilastri disegnati come croci dalle braccia sollevate, simili a figure danzanti, leggere come in punta di piedi: la vita contemplativa trova, nello spazio comunitario dominato solo dal bianco della parete e dall’azzurro del cielo, il tempo della gioia che solo la preghiera quotidiana può assicurare.
Dal chiostro, così come dai corridoi interni, le suore possono raggiungere il coro da cui assistere alla messa, senza violare il voto di clausura. Si tratta di una stanza spoglia, dove trovano posto solo gli stalli in rovere, dal disegno elementare, appoggiati come soldati alle due pareti cieche; in fondo, verso la chiesa, una grata rettangolare permette d’intravedere l’altare. Rispetto all’ariosità del chiostro, è qui che si percepisce la massima tensione mistica e antiretorica insieme.
Di là dalla grata, è la cappella conventuale. In pianta, appare il frutto dell’innesto di due figure geometriche: un quadrato, dove è l’altare, combinato con un pentagono di dimensioni maggiori. La geometria, però, non rende giustizia alla felicità della composizione, poiché solo una parte dell’area pentagonale è coperta, costituendo lo spazio della celebrazione, laddove il resto è una sorta di hortus conclusus perimetrale, a cielo aperto, stretto tra alti muri che impediscono la percezione del paesaggio circostante.
Non un vero e proprio esterno, ma un luogo dove solo la luce del sole e del cielo ligure racconta l’esistenza di un altrove. Il passaggio tra interno e esterno è immaginato, inoltre, attraverso una serie di setti murari, orientati come quinte sceniche verso l’altare e separati da ampie finestrature. In tal modo, si ottiene una percezione dello spazio uguale e contraria, poiché dall’altare le quinte scompaiono, lasciando vedere solo le vetrate che, rispetto alla posizione dei fedeli in preghiera, permettono un’illuminazione naturale proveniente dal retro o dai lati <13.
“L’architettura canta mediante il suo alto silenzio” <14: la chiesa dialoga col resto del mondo attraverso il solo filtro di quel sagrato fatto di un ritaglio di cielo, che ricorda a ognuno come ci si ritrovi in uno spazio nel mondo, ma distinto dal resto.
Il luogo sacro si costruisce soltanto attraverso il dialogo tra il silenzio della preghiera e i colori dei fiori coltivati nel sagrato, per apparire “così come siamo, in piedi, con l’animo nudo, con le nostre pene. E sentirci sicuri, protetti, isolati nel silenzio delle brevi mura, e riconosciuti” <15, ciascuno nella propria individualità.
Come lo stesso Ponti scrive, immaginare un convento di clausura impone di pensare a una religiosità introversa, laddove la “chiesa parrocchia [è] tutta estroversa nella sua funzione e missione, fraterna e popolare” <16.
L’interesse dell’architetto è qui rivolto verso il funzionamento di una macchina il cui fine ultimo, tuttavia, rimane la costruzione di uno spazio di preghiera assoluto, “emozionalmente religioso” come per Ponti è, ad esempio, l’interno di Ronchamp <17. Uno spazio sacro privo di velleità decorative, lontano persino dalla tradizione cattolica più consolidata quando prende, ad esempio, il simbolo supremo della croce, replicato ovunque nel convento, ma ne conserva soltanto il valore letterale: un patibolo, “un simbolo terribile, di supplizio e di umiliazione - elevazione” <18, frutto di una scarnificazione figurativa paragonabile a quanto si vede nella cappella di Saint-Marie du Rosaire a Vence (1947-1951), dove Henri Matisse “si limitò a simboli puramente grafici”, anche se ai limiti di una calligrafia “troppo graziosa ed ‘elegante’” <19.
Al contrario, il Convento di Bonmoschetto è inteso come “una cappella di Dio, dove l’arte si esprime con discrezione sottomessa” <20. Destinata a resistere al tempo, perché le stagioni la rivestiranno d’una patina che la renderà preziosa, l’architettura è accolta in un paesaggio contaminato solo dal lavoro dell’uomo nei campi e “ha bisogno del tempo e della pioggia e del sole e sovratutto del crescere degli alberi, delle erbe, dei rampicanti per essere quale è stata immaginata” <21.
Soltanto in questa silenziosa, paziente comunione tra materia e spirito, tra terra e cielo l’architettura potrà dirsi veramente compiuta.
 

Monastero del Carmelo al Bonmoschetto, Sanremo 1957-1959. Pianta, matite su carta da lucido, cm 41×60. Courtesy CSAC, Università di Parma. Immagine qui ripresa da Sergio Pace, art. cit. infra


[NOTE]
3 Dal dattiloscritto di una conferenza di Gio Ponti a Sanremo, del 25 giugno 1955, nell’archivio dello studio Ponti, dove sono conservati anche gli altri documenti manoscritti citati in seguito; cfr. anche G. Ponti, Amate l’Architettura. L’architettura è un cristallo, Vitali e Ghianda, Genova 1957, pp. 260-280, dove il capitolo Architettura, religione è redatto - come precisa il sottotitolo - disegnando la Cappella del Carmelo di Sanremo e Id., Religione ed architetti, in “Domus”, n. 372, novembre 1960, pp. n.n.
4 C. Capponi, Il monastero carmelitano di Sant’Elia, Sanremo (Imperia) 1957-1959, in M. A. Crippa, Id. (a cura di), Gio Ponti e l’architettura sacra. Finestre aperte sulla natura, sul mistero, su Dio, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2005, pp. 136-147.
5 Cfr. la bozza di lettera del 2 novembre 1956. Di questa prima fase, purtroppo, non sono note molte tracce documentarie poiché, nel rispetto di un riserbo che ha caratterizzato sempre le consorelle di Bonmoschetto, gli archivi di quel Carmelo non sono mai stati disponibili.
6 Le fasi di elaborazione progettuale si sviluppano in tempi rapidi, comunque attraverso un colloquio serrato tra Ponti e la priora, suor Marie-Bernard de Jésus. Lo scambio di corrispondenza superstite restituisce tuttavia l’atteggiamento fermo, da parte dell’architetto, in difesa delle proprie proposte: “dans l’architecture ayez plus confiance en moi qu’en vous”, le suggerisce Ponti il 13 settembre 1958.
7 Ponti conserverà un dattiloscritto, proveniente dalle Carmelitane, dove i passi biblici su Elia sono riportati.
8 La ricostruzione degli eventi è fatta da suor Marie-Bernard, in una lettera a Ponti del 25 giugno 1959.
9 Da un appunto dattiloscritto, 30 giugno 1959.
10 Parma, Centro Studi e Archivio della Comunicazione, fondo Gio Ponti, Studio Bommoschetto convento del Carmelo San Remo (1955 ca.), coll. 105/2, n. inv. PRA.339, n. ID 13691.
11 Bonmoschetto Convent by Gio Ponti, in “The Architectural Review”, vol. CXXVII, n. 757, marzo 1960, pp. 149-150.
12 G. Ponti, Il Carmelo di Bonmoschetto, Monastero delle Carmelitane Scalze in San Remo, in “Domus”, n. 361, dicembre 1959, pp. 1-16.
13 Il Carmelo di Bonmoschetto in Sanremo, in “Vitrum”, n. 155, maggio-giugno 1966, pp. 34-38.
14 Lettera di Gio Ponti a suor Marie-Bernard, 13 settembre 1958.
15 G. Ponti, Amate l’Architettura, op. cit., p. 275.
16 G. Ponti, Chiesa e monastero Carmelo a Bonmoschetto (Sanremo), in “Chiesa e Quartiere”, n. 12, 1959, pp. 40-58, part. p. 48.
17 G. Ponti, Amate l’Architettura, op. cit., p. 267.
18 Ivi, p. 268.
19 Ivi, p. 269.
20 Lettera di Gio Ponti a suor Marie-Bernard, 13 settembre 1958.
21 G. Ponti, Il Carmelo di Bonmoschetto, op. cit., p. 5; ma cfr. anche le parole di P. Baudoin de la Trinité, in una lettera a Ponti e Fornaroli del 9 febbraio 1960, che rileva nel Carmelo sanremese un intreccio indissolubile tra ascesi e natura.

 

Monastero del Carmelo al Bonmoschetto, Sanremo 1957-1959. Veduta prospettica, pianta e alzato dell’altare con tabernacolo centrale in scala 1:20, inchiostro di china e pennarelli su copia eliografica. Courtesy CSAC, Università di Parma. Immagine qui ripresa da Sergio Pace, art. cit. infra

Sergio Pace, Convento di Bonmoschetto Sanremo, 1957-1959 in (a cura di) Maristella Casciato e Fulvio Irace, Gio Ponti. Amare l’architettura. 27 novembre 2019 - 13 aprile 2020, mostra retrospettiva al MAXXI di Roma,  catalogo ( a cura di Maristella Casciato e Fulvio Irace, doppia edizione in italiano e in inglese. 300 pagine, 150 immagini. Contributi di 45 autori, tra cui: Giorgio Ciucci, Barry Bergdoll, Domitilla Dardi, Anat Falbel, Farhan Karim, Jorge Rivas, Règean Legault, Bernard Colembrader, Alessandra Muntoni ), Forma Edizioni S.r.l., Firenze, 2019, articolo qui ripreso da Academia.edu

lunedì 15 agosto 2022

Circa i fari tra Sanremo ed Andora

Fig. 8. Carta tratta dal libro Album dei fari illustrato dalle notizie intorno al loro carattere e posizione, 1873. Fonte: Giorgia Bollito, op. cit. infra

Attualmente in Liguria i fari presidiati sono tre: quello di Capo dell’Arma a Sanremo, di Capo Mele ad Andora (SV) e la Lanterna di Genova.
[...] Una straordinaria traccia del passato dei fari si trova nell’Album dei fari illustrato dalle notizie intorno ai loro caratteri e posizione (non che da quelle intorno alle spese di costruzione e impianto), pubblicato nel 1873 dal Ministero dei lavori pubblici del Regno d’Italia <97.
Come si può osservare dalla carta (fig. 8), all’epoca in Liguria erano attivi tre fari, quello di Capo Mele <98, la Lanterna di Genova e il faro dell’isola del Tino. Sul sito dell’archivio di Stato di Genova, è presente il progetto del 1851 del faro di Capo Mele <99, uno dei pochi fari della Liguria rimasto ancora oggi fedele al progetto originale nonostante le numerose ricostruzioni, fatto eccezione il colore dell’intonaco e l’aggiunta, nel 1953, di un corpo aggiuntivo adibito a servizi <100.
[...] La Liguria possiede un patrimonio marittimo di nove fari e due ex-semafori, collocati lungo la costa, da Sanremo a La Spezia:
- Faro di Capo dell’Arma, Sanremo (IM)
- Faro costiero, Piazzale L. Vesco, Sanremo (IM)
- Faro di Porto Maurizio, Imperia (IM)
- Faro di Capo Mele, Andora (SV)
[...] La valorizzazione del patrimonio architettonico dei fari della Liguria costituisce un elemento per favorire l’utilizzo del territorio nel quale sono inseriti, "incrementando la fruizione pubblica e l’uso turistico e ricreativo della zona costiera" <164.
I fari possono rappresentare mete al termine di passeggiate o escursioni che, dall’entroterra, si dirigono verso la costa, oppure tappe di un percorso in cui godere un panorama unico per poi ripartire verso nuove mete.
In particolare, per il mio progetto, ho elaborato tre percorsi che interessano alcuni fari situati nelle province di Imperia e Savona: il faro di Capo dell’Arma a Sanremo, il faro di Porto Maurizio a Imperia e il faro di Capo Mele ad Andora.
Per ogni faro ho realizzato una proposta di un itinerario, descrivendone alcune caratteristiche come la difficoltà, la durata, il dislivello, i punti di interesse che si incontrano lungo il percorso e il periodo consigliato per mettersi in viaggio (tav. 6 e tabella degli attributi). I tracciati esistenti e attualmente utilizzati sono stati fondamentali come base di partenza per l’elaborazione dei nuovi percorsi, i quali rappresentano una diramazione del tracciato originario verso il faro più vicino.
 

Il faro di Porto Maurizio. Fonte: Fernanda/flickr

[NOTE]
97 C. BARTOLOMEI, Fari d’Italia, edizioni Magnamare, Vicenza 2009, p. 10.
98 G. BARBERA, Capo Mele, Rino Gibilaro da 30 anni è il guardiano del faro,https/www./la stampa.it, consultato in data 06 ottobre 2017
99 Versione digitale del documento d’archivio,[online] disponibile a : http://www.asgenova.it/AriannaWeb/main.htm;jsessionid=0A9F001558A02100D4655346CA4D475E#17149_archivio, consultato in data 18 Ottobre 2017
100 G. AMORUSO, C. BARTOLOMEI, L’architettura dei fari italiani, vol.1, Alinea Editrice, Firenze 2005, p.83.
164 Obiettivi del PTCC, Regione Liguria, 2000.
 

Il faro di Capo Mele. Fonte: Corallini Cervo

Giorgia Bollito, Il fascino dell’architettura dei Fari. La scoperta dei fari liguri attraverso il sistema GIS e ipotesi di valorizzazione, Tesi di laurea magistrale, Politecnico di Torino, Anno accademico 2016/2017

martedì 9 agosto 2022

La Camera di Commercio di Imperia dall'avvento del fascismo alla fine del secondo conflitto mondiale

In Corso Garibaldi 5, di fronte alla piazza della Posta, la Camera di Commercio di Imperia risiede dal 1902 al 1927. Collezione di Marco Agnesi. Immagine qui ripresa da Gianni De Moro, op. cit. infra

Lo sbandamento postbellico si ricompone notevolmente in Camera con le elezioni del dicembre 1921 che selezionano un “gruppo di governo” di grande autorevolezza: Mario Pellegrino Aprosio esportatore floricolo vallecrosino, Sebastiano Acquarone commerciante portorino-onegliese, Agostino Conio commerciante taggiasco, Redentore Rodi industriale sanremese, Carlo Nada industriale sanremese, Giovanni Boccone commerciante sanremese, Costantino Diana spedizioniere sanremese, Vincenzo Amoretti industriale onegliese, Ernesto Baggioli commerciante sanremese, Pietro Isnardi industriale onegliese, Giovanni Dadone albergatore sanremese, Giuseppe Vismar albergatore sanremese, Giacomo Agnesi industriale onegliese, Eugenio Rebagliati chimico-farmacista portorino, Pio Daneri capitano marittimo portorino.
La consultazione si decide nelle sezioni d’Oneglia, di San Remo e Ventimiglia; Porto Maurizio, Bordighera e Taggia appaiono in secondo piano e, soprattutto, fa scalpore il modesto esito di Pietro Salvo grande oleario e candidato portorino di punta che non riesce a oltrepassare i 630 voti, segno, per Porto Maurizio d’una realtà economica in netto declino.
La nomina dei vertici, in effetti, premia (con la presidenza all’Aprosio e la vicepresidenza all’Amoretti) settori territoriali e provenienze aziendali legate alla nuova mappa delle rilevanze economiche provinciali quale si era venuta definendo nei primi quattro lustri del Novecento.
A queste due personalità, egualmente rappresentative dei tempi attraversati, toccheranno destini diversi dopo l’adesione al nuovo regime: l’uno intraprenderà una carriera essenzialmente politica rivestendo il commissariato straordinario e poi il podestariato in una città importante come Bordighera; all’altro toccherà il ruolo delicatissimo, sia per durata che per funzionalità specifica, di giunzione “personale” tra potere politico sempre più esorbitante e potere economico sempre più subalterno nel nuovo corso nazionale, come pure locale.
È noto come l’economia abbia subito più di altri settori, fin dall’inizio, l’aggressività del Regime volto ad una articolazione sempre più rigida e autoritaria, nel tentativo di arrivare, attraverso l’organizzazione corporativa, al completo controllo dei sistemi di produzione.
In sede locale, il periodo 1922-23 è politicamente tra i più animati in quanto, alla nascita e alla prima affermazione delle strutture fasciste, si sovrappone la storica contrapposizione entro area sanremasca ed area onegliese-portorina, con conseguente immediato trasferimento (ed ingigantimento) delle tensioni, come indicano le dimissioni di Aprosio dalla presidenza della Camera rassegnate in data 17 febbraio 1923.
E, ad alterare definitivamente equilibri consolidati, interverrà, nell’ottobre successivo, il Regio Decreto di fondazione di Imperia che, pure, in Camera si è sostenuto apertamente.
Era da pochi mesi approdato alla presidenza Vincenzo Amoretti, e si tratterà dell’ultimo Presidente eletto (il 24 marzo 1924) da un Consiglio camerale temporaneamente in rotta di collisione col fascismo locale (che l’aveva accusato “di scarso patriottismo e di poco attaccamento al Governo Nazionale”) quanto dilaniato dalla divisione sulle rappresentanze specifiche spettanti alle singole aree d’espressione (che porterà alla bocciatura di una vicepresidenza Rodi in favore di Agostino Conio), quando il R.D.L. 8 maggio 1924 n. 750, più noto come Legge Corbino, viene a sconvolgere su scala nazionale il mondo delle Camere di Commercio chiamate ora, in base ai dettami del più rigido dirigismo economico, a mero ruolo di organismi “consultivi dello Stato e delle amministrazioni locali in materie riflettenti l’industria ed i commerci”, accentuando fino all’estremo “ l’ingerenza governativa nella loro gestione” <47.
Bene ha rilevato Remo Fricano sottolineando come “in aderenza all’accentramento statale, caratteristica tipica dell’ordinamento fascista dello Stato, le nuove istituzioni furono legate in modo indissolubile al Governo con il conferimento della presidenza camerale ai Prefetti” e la sostituzione del “criterio elettivo”, nella formazione dell’organo collegiale, con quello “della nomina su designazione da parte dell’associazione sindacale di categoria” <48.
Con la successiva Legge Belluzzo n. 731/18 aprile 1926 si perviene alla soppressione delle Camere di Commercio e alla loro sostituzione con i Consigli Provinciali dell’Economia in cui confluiscono e si fondono anche altri organismi quali Comizi Agrari, Comitati Forestali, Consigli Agrari Provinciali e Commissioni Provinciali di Agricoltura <49. All’esigenza della “globalità degli interessi locali” si sacrifica tuttavia “una travagliata ricerca del ruolo che gli organismi camerali avrebbero dovuto svolgere nell’ambito di una nuova organizzazione della pubblica amministrazione” <50.
A sottolineare anche fisicamente il mutamento strutturale, politico, organizzativo subito dall’Ente nel corso del quinquennio 1923-28 si inserisce l’importante vicenda della realizzazione di una nuova sede camerale autonoma di cui da tempo si avvertiva necessità crescente ma che spente condizioni economiche non avevano, sino allora, consentito. A rendere urgente la decisione finale intervenivano due ordini di motivi: i pessimi rapporti col nuovo proprietario dei locali occupati dal 1902 <51 e voci sempre più concrete relative alla fondazione della nuova città di Imperia, tali entrambi da suggerire uno spostamento verso il presunto nuovo baricentro urbano con accesso diretto alla costituenda “zona direzionale” cosí come la realizzazione di un edificio autonomo in grado di attestare, anche formalmente, il peso e il significato politico-economico dell’Ente.
È in data 2 giugno 1924, quindi sei mesi dopo la nascita ufficiale di Imperia, che il Consiglio camerale, sebbene sull’orlo dello scioglimento, dà mandato di esperire pratiche per l’opzione “su un terreno in Porto Maurizio da adibirsi per la costruzione delle sede camerale”. L’acquisto di un appezzamento di 1.400 mq. in zona San Lazzaro viene deciso per 60 mila lire l’8 luglio successivo e mandato prontamente ad effetto convenendo il negozio con le Signore Conio e Luzzatti. L’area prescelta si affacciava su via Genova, in corrispondenza del giardino dell’ex Riviera Palace Hotel nel quale dal 1919 si erano trasferite la Prefettura e la Deputazione Provinciale, fornendo dunque le migliori garanzie di adeguatezza e di centralità. Seguono, a tempi ravvicinati, l’incarico progettuale conferito all’ing. Agostino Ghiglione <52 e l’appalto dei lavori all’impresa edile Giordano Regolo di Oneglia. Alla fine del 1925 l’opera è a buon punto e si può provvedere ad aggiudicare gli incarichi per la realizzazione dell’impianto di “termosifone” come di quello telefonico. A febbraio del 1926 interviene una variante al progetto originale pretesa dal Commissario Amoretti onde aumentare la capienza dell’edificio e migliorarne la funzionalità. Tengono dietro pagamenti a fornitori diversi per infissi, boiseries e mobili d’ufficio: gli stucchi interni sono affidati a Giacomo Ventimiglia, le decorazioni di pareti e soffitti al pittore Francesco Milano. Finalmente, il 7 ottobre 1926, ha luogo il collaudo del “Palazzo Camerale” (che fra poco diverrà il “Palazzo del Consiglio dell’Economia”) assegnato, con decisione del 30 luglio precedente, all’ing. Lodovico Sicardi. Si pone in opera una straordinaria cancellata in ferro battuto di Mazzucotelli, poi eliminata nel 1937, e si attende una buona occasione per l’inaugurazione cominciando, non senza difficoltà, a liquidare le spese, ammontanti, in totale, a 543.202,93 lire. Si provvede poi all’arredamento interno facendo fronte via via alle necessità più diverse: dall’acquisto di “un ciclostyle tipo Rotafix” ad un pastello rappresentante “Sua Maestà il Re” opera del prof. Augusto Tivoli, dall’impianto elettrico a due “fasci littorî” da apporre sulle colonne dell’ambulacro in facciata, da una “macchina per scrivere Underwood” alle sedie per Sala Consiglio. Si pensa perfino ad adibire una delle aulette al primo piano a biblioteca specializzata da aprire al pubblico.
È in questa sede che prendono posto gli organi direttivi dei nuovi istituti che soppiantano, persino nel nome, le vecchie Camere di Commercio: ovvero il Consiglio Provinciale dell’Economia, istituito con legge 18 aprile 1926 n. 731, e l’Ufficio Provinciale dell’Economia, istituito con legge 16 giugno 1927 n. 1071. Localmente il Consiglio (nominato con Decreto Prefettizio del 17 aprile 1928) è presieduto dal Prefetto Antonio Farina coadiuvato dal Vice prof. Vincenzo Amoretti e si compone di una sezione agricola-forestale (Carlo Carocci Buzi Presidente, Carlo Bensa, Vittorio Gandolfi, Michele Scofferi, Eugenio Viale, Ernesto Parodi), una industriale (Eugenio Novaro Presidente, Umberto Besso, Giuseppe Guidi, Domenico Renzetti, Luigi Taverna, Gio Batta Coriasco, Michele Zambellini), una commerciale (Carlo Daneri Presidente, Mario Aprosio, Giacomo Bregliano, Giacomo Bresciano, Giuseppe Gastone, Lorenzo Guglielmi), più nove membri esterni consultivi <53.
Il tutto, in concomitanza o nell’immediato prosieguo della più grave crisi finanziaria che cronache rivierasche ricordino (1927-29) con il tristemente noto crack della Banca Garibaldi d’Imperia e molti altri istituti di credito ovunque in difficoltà, in amministrazione controllata, in liquidazione o addirittura falliti <54: una congiuntura che gela sul nascere tutte le speranze popolarmente concepite un quinquennio avanti. E del resto, per restare alla realtà imperiese, si era ottenuta la “Città unica” ma si erano persi il Tribunale, il Consorzio Portuale e tutti i finanziamenti dedicati agli scali marittimi.
L’insediamento del nuovo organismo consiliare (avvenuto il 17 giugno 1928) e la possibilità di disporre di una sede prestigiosa razionalmente concepita, determina sotto il profilo tecnico un rifiorire dell’Ente, che ristruttura servizi ed uffici in base a nuovi criteri operativi. L’assunzione del dottor Giovanni Garibbo in particolare, avvenuta il 17 novembre successivo, determina in breve un innalzamento dei livelli qualitativi e produttivi nel fondamentale settore della statistica affidato finalmente ad un esperto di specifica formazione accademica.
Paradossalmente, in epoca di accentramento “rivoluzionario” che sconfina spesso in arbitrii e personalismi, è la vecchia guardia a gestire la metamorfosi burocratica conseguente grazie al buonsenso e alla moderazione del Vicepresidente Amoretti e del Segretario Ramone, che restano sostanzialmente uomini di ceppo liberale adeguatisi a nuove parole d’ordine imposte dall’alto.
È in questa particolare situazione, quando risulta evidente a tutti l’incipiente eppur già netto distacco dal passato, che ci si affida alla cultura onde accompagnare il transito ed è scelta fortemente voluta dall’Amoretti quella di consacrare, con una grande pubblicazione, lo stato presente del sistema industriale e commerciale della Provincia, ma più ancora l’immagine di un territorio intatto che è esso stesso risorsa decisiva.
Ne nascerà una iniziativa singolare, deliberata fin dal 14 gennaio 1928 ma destinata ad elongarsi nel tempo fino al 1934 <55, affidata a tre esperti: Paolo Stacchini tecnico del settore turistico-floreale e pubblicista, Vincenzo Guido Donte insegnante e letterato, Giovanni Garibbo funzionario della Camera sopra ricordato. Si tratta in realtà di un lavoro di gruppo assai più ampio, aperto ad apporti eterogenei, come dimostra la tavola delle collaborazioni, e quindi assolutamente significativo dell’epoca e della sua temperie: da interpretarsi non tanto come ovvio tributo di piaggeria verso un Regime in ascesa, quanto come autocelebrazione postuma della classe politico-economica liberale ormai giunta alla fine del ciclo. Il proseguire dei lavori di redazione dell’opera (cui non manca nei primi anni ’30 una significativa quanto vana concorrenza da parte di analogo progetto del Federale Catello Spina) aumenterà poi la componente retorico-encomiastica del risultato senza togliere tuttavia alla “creatura” dell’Amoretti freschezza e onestà mentale d’una testimonianza a futura memoria.
La vita dell’Ente si assesta nel frattempo, non senza problematiche di convivenza burocratica con l’Ufficio Provinciale dell’Economia, su un quasi esornativo ruolo di marcia che registra, per il Consiglio, cinque riunioni nel 1928, quattro nel 1929, tre nel 1930 e altrettante nel 1931. Maggiore attività si registra nelle singole sezioni specializzate, ma il ruolo decisionale si è spostato totalmente nell’azione dei Prefetti “pro tempore” che la legge ha posto a capo del Consiglio: tre in un quinquennio (Antonio Farina 1927-29, Enzo Ferrari 1929-30, Bernardo Borrelli 1930-32) e l’elemento di continuità pertiene ancora, pur su piani diversi, ad Amoretti e a Ramone.
Ma ulteriori innovazioni sono in arrivo al fine di inserire gli organismi prodotti dalla riforma del 1926-27, in via definitiva, nell’ organicità di un disegno corporativo: innovazioni poste in essere attraverso la legge 18 giugno 1931 n. 875. Cosí, anche a Imperia, dopo un’ultima riunione dell’organismo precedente, il 7 dicembre 1932 “inizia la sua vita il nuovo Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa” pletorico collettivo formato di quarantacinque membri a rappresentare, si ritiene, tutto il mondo produttivo provinciale in senso rigorosamente “intercategoriale”. Le sezioni sono ancora tre: agricola-forestale (Presidente Domenico Aicardi e Vice Enrico Arrigo), industriale (Presidente Lorenzo Arrigo, Vice Domenico Renzetti), commerciale-marittima (Presidente Giacomo Bregliano e Vice Valentino Gazzani). Verrà rinnovato nell’agosto del ’37 con designazione, alla prima, del Presidente Francesco Borelli e dei Vice Gianni Fabbis e Isidoro Dominici; alla seconda del Presidente Giuseppe Brajda e dei Vice Pietro Salvo e Carlo Castiglia; alla terza del Presidente Lorenzo Berio e del Vice Domenico Renzetti, con ampia integrazione di membri consultivi esterni.
Si era frattanto dimesso, nel dicembre 1935, il Segretario (da un biennio riqualificato Direttore essendo a tutti gli effetti un funzionario statale e dipendendo da lui l’Ufficio Provinciale dell’Economia Corporativa) avv. Emanuele Ramone, che con i suoi ventisette anni di servizio, resta ancora oggi di gran lunga il funzionario più longevo del genere e quello cui era toccato registrare gli sbalzi di assetto più evidenti. Assunto nel 1908, ai tempi di Maglione, aveva visto scorrere nelle sue verbalizzazioni ben cinque Presidenti, un Commissario e altri cinque Prefetti-Presidenti, con uno straordinario variare al contorno di condizioni economiche, sociali e politiche: dal fulgore della “Belle Epoque” agli anni cupi della guerra, dall’infuocato periodo postbellico all’ascesa e all’affermazione del fascismo, diventando egli stesso, prima e come Amoretti, simbolo di un’istituzione sempre più calata nel cuore degli eventi e della realtà ergonomica dell’estremo ponente ligure.
Ma se al tempo della sua “giubilazione”, dopo essersi ripresa dai postumi della crisi mondiale del “Black Thursday”, l’economia locale torna su discreti livelli di ripresa e (specie nella seconda metà degli anni ’30) addirittura su trend favorevoli, al traino di esportazioni olearie sempre più robuste con turismo e floricoltura in ascesa, gli investimenti governativi pur tonici nel campo delle opere pubbliche restano proporzionati ad un’area indiscutibilmente periferica più che mai bisognosa d’infrastrutture e sovvenzioni.
Sono gli anni non solo dei Prefetti-Presidenti via via più debordanti nella gestione dell’economia (Enrico Degli Atti 1933-39, Sergio Dompieri 1939-41) ma anche dei Direttori-funzionari di Stato, per nulla o quasi legati alla realtà umana ed economica locale (Rodolfo Temin 1936-38, Mario Giustetto 1939-41).
Anche una bandiera come Giovanni Garibbo smette di sventolare poiché trasferito nel 1940 al Consiglio Provinciale delle Corporazioni di Pavia ove le sue capacità ricevono, forse, maggior riconoscimento.
A troncare il lento moto di risalita intervengono noti fatti internazionali con lo scoppio, nell’estate 1939, del conflitto per Danzica che diverrà ben presto una seconda Guerra Mondiale e l’entrata in campo dell’Italia, con l’attacco alla Francia, del giugno 1940: scaraventato nell’immediata retrovia del fronte, il ponente ligure entra in una crisi irreversibile destinata a durare un quinquennio. Il Consiglio dell’Economia Corporativa, ma soprattutto la categoria imprenditoriale che gli sottende, valuta in tutta la sua gravità, anche senza poterlo esprimere, la nuova situazione e si adegua con ulteriori quanto involontarie restrizioni funzionali di fatto.
Alle dimissioni del prof. Vincenzo Amoretti (che rientrava a vita privata dopo sedici anni ininterrotti alla guida d’un ceto, non solo perché settantaquatrenne, ma anche perché colpito negli interessi della sua azienda, che in Provenza aveva, per inveterata tradizione, effettuato importanti investimenti) rassegnate nel gennaio 1940, con nomina in sua vece alla vice presidenza del dott. Francesco Amirante, il Consiglio non vien più riunito nella sua forma plenaria ed anche il lavoro delle Commissioni si riduce sempre più, sovrappassato da gruppi di lavoro istituiti alla bisogna dal Prefetto-Presidente. Si riunisce, talvolta, il Comitato di Presidenza del Consiglio, ma con presenza costante (e vincolante) del Segretario Federale del Partito Fascista.
Nel maggio 1943, poco prima del crollo dell’8 settembre, la composizione del Consiglio risulta alquanto variata nonostante la sua scarsa operatività. Sotto la presidenza del Prefetto Tallarigo e la vicepresidenza Amirante, nella Sezione Industriale il leader risulta Roberto Novaro con Riccardo Zanaboni Vice; nella Sezione Commerciale-Marittima agiscono Giuseppe Brajda Presidente e Bruno Donati Vice; in quella Agricola-Forestale Luigi Pinacoli (che ha preso il posto del
richiamato Borelli) e Giovanni Marinoni. Nel biennio della Repubblica Sociale il Consiglio non viene ricostituito e il ruolo esecutivo è demandato interamente ai Prefetti-Presidenti (gen. Francesco Bellini 1943-44, rag. Ermanno Di Marsciano 1944-45) coadiuvati dai Direttori (dott. Valentino Malrisciano 1942 e dott. Roberto Cavalieri 1943-44), né manca il caso d’uno di questi ultimi, il dott. Pier Giovanni Pittaluga, allontanato per motivi politici nell’estate 1944 e sostituito d’ufficio dal rag. Gio Battista Romano (1944-45). I tempi sommamente critici hanno condotto ciò che era stato l’organismo camerale ad un monologo autoritario di Prefetti-Presidenti che solo la vicepresidenza Amirante (continuata fino agli ultimi giorni del Regime) mantiene legato d’esilissimo filo a categorie imprenditoriali spente e impotenti di fronte a un’economia in caduta libera. Il contenuto delle ultime determinazioni prefettizie somiglia sempre più all’agonia di un organismo di pura sussistenza.
I bombardamenti aerei alleati, acuitisi dall’autunno 1943, hanno ridotto a un cumulo di macerie il patrimonio industriale rivierasco; le leve e i richiami al fronte hanno messo in ginocchio l’agricoltura; i porti hanno smesso di funzionare; strade e ferrovie sono interrotte; il rarefarsi di materie prime, fonti energetiche, generi di prima necessità hanno causato il blocco della catena produttiva e generato crisi alimentari sempre più marcate e diffuse tra le popolazioni civili.
Questa, la situazione al 25 aprile 1945.
 

La sede della Camera di Commercio di Imperia inserita nel tessuto produttivo di Porto Maurizio fine anni ’20. Il porto sottostante subirà danni molto gravi, sino al blocco totale dei traffici nel biennio 1943-45. Collezione di Marco Agnesi. Immagine qui ripresa da Gianni De Moro, op. cit. infra

[NOTE]
47 F. Molteni, Camera di Commercio, voce in: Enciclopedia del Diritto, vol. V, Milano 1959, p. 959.
48 R. Fricano, Le Camere cit., p. 62.
49 Compattamento indubbiamente positivo che tuttavia, nella realtà economica imperiese, giungeva tardivo e insufficiente a rispondere ai problemi del mondo contadino.
50 R. Fricano, Le Camere cit., p. 61.
51 Il dott. Malinverni, succeduto al Carli. Tra la Camera e il privato insorsero questioni poi sfociate in una causa finita in Cassazione.
52 Nato nel 1868 ad Oneglia (ove morirà nel 1939), fu professionista d’alto profilo, laureato al Politecnico dell’Università di Torino nel 1894. A lungo amministratore comunale della sua città, fu attivo nei campi dell’ingegneria industriale, edile, urbanistica. Sue opere si segnalano, oltre che a Imperia (che gli deve anche il piano regolatore provvisorio del 1924) a Diano Marina, Coldirodi, Ospedaletti, Borghetto Santo Spirito, Pieve di Teco, Pietrabruna, ecc. Suoi, in particolare, sono i progetti degli stabilimenti: Sasso Latta, ELIOS, ISET, Ramella e Berio.
53 Direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura, Capo del Servizio Forestale Provinciale, Ingegnere Capo del Genio Civile, Medico Provinciale, Veterinario Provinciale, Delegato Provinciale delle Corporazioni, Comandante del Compartimento Marittimo, Intendente di Finanza, Direttore Superiore delle Dogane.
54 N. Cerisola, Storia delle Industrie Imperiesi, Savona 1972, pp. 110 e 509. Nel triennio 1927-30 ne spariranno circa una decina con drastica semplificazione del mercato del credito in Riviera e sostanziale naufragio della finanza locale. Né si trattò di crisi circoscritta al settore creditizio, come indica l’eclisse, negli immediati dintorni cronologici della caduta di Wall Street, di numerose aziende onegliesi tra cui il saponificio Gorlero (1926), le officine meccaniche Berio e Rovere (1927), la ditta olearia Bonavera & Daffieno (1928), le ferriere ILVA (1930).
55 Quando esce, in elegantissima edizione ad ampia tiratura realizzata dalle Grafiche Esperia di Milano, col titolo 'La Provincia di Imperia', determina un vero evento culturale. La spesa, non indifferente, viene autorizzata con “ministeriale” del 7 ottobre 1930 n. 9059 e alla fine, maggiorata da costi imprevisti, ammonterà a 45 mila lire, liquidata con deliberazione consiliare 17 dicembre 1935.

 

Immagine qui ripresa da Gianni De Moro, op. cit. infra

Gianni De Moro, La memoria separata: 147 anni di storia camerale ad Imperia in La Camera di Commercio di Imperia. La storia, gli amministratori, il contesto locale, Camera di Commercio di Imperia, 2009

La crescita e lo sviluppo di queste due entità portuali, le linee dei traffici che fanno loro capo, i collegamenti via mare con i numerosi paesi stranieri, le regole stesse che ne caratterizzano l’organizzazione e il funzionamento, non possono, quindi, che essere notevolmente diverse, in un mondo reso più complesso dalla stretta vicinanza, quasi la contiguità, delle due località.
La fine di questo dualismo avviene solo nel 1923 quando, il 21 ottobre, un decreto reale unifica le due comunità di Porto Maurizio e di Oneglia in una nuova entità, Imperia. Sebbene il provvedimento sia il coronamento di un lungo percorso, iniziato già alla metà dell’Ottocento, il nuovo legame politico non riesce per lungo tempo ad incidere sull’assetto dei due porti, che continuano ad operare in maniera distinta. Le contingenze economiche porteranno, però, all’inizio del Novecento, a privilegiare lo scalo onegliese, rovesciando un rapporto che per secoli aveva visto emergere maggiormente Porto Maurizio.
Paola Massa, Fattori identificanti dell’economia ligure e della società genovese (secoli XV-XIX), Comunicazioni, porti e dinamiche commerciali nel ponente ligure, Quaderni della Società Ligure di Storia Patria, 2021