Colline del ponente ligure |
Con questa grande quantità di tempo che mi trovo a disposizione non sempre scelgo il modo migliore per il suo utilizzo.
I miei occhi vagano su uno schermo di immagini e parole, su altri schermi per restare in contatto con il mondo, su caratteri stampati, poi esausta li giro fra le stanze.
Annoiati alla fine si spostano su tutto quello che mi circonda, fuori dei vetri.
La mia casa sta nel centro di un anfiteatro di case. Un vecchio centro storico.
Con le altre addossate dietro condividiamo un muro.
Le gradinate sono abitate da attori che non sanno di recitare quello che io decido di far loro interpretare.
A nord, una palazzina quadrata di cui scorgo solo l’ultimo piano, il terzo.
Tra quelle stanze lavorano come api operaie un uomo ed una donna. Non più giovani. Sembrano gli adoratori di tutto ciò che è stato costruito attorno a loro.
Sempre a pitturare, pareti, ringhiere, sistemare il tetto.
Una ossessionante liturgia di venerazione delle cose.
Verso ovest una vecchia casa, dai colori sbiaditi, dalle tende di velo sovrapposte per creare ombra ma, anche per nascondere le loro vite, come usano fare i liguri.
Ogni mattina una vecchia signora esce in pigiama e ritira una pianta che sicuramente non ama il sole.
La tiene fra le braccia come fosse una bambina.
Il marito con la schiena curva e il bastone per sorreggersi più tardi scende nell’orto per abbeverare le zucche assetate, e raccogliere fiori e trombette che finiranno nel piatto per pranzo.
Affiancata prosegue un’anonima costruzione come anonimi sono i proprietari.
Il mio ingresso interrompe le case addossate e subito dopo si erge una fatiscente sbeccata casa cadente, che non può che ospitare grezzi individui.
Penso che i vecchi abbiano costruito i muri in comune delle loro case per ridurne i costi.
Sono quindi legate come i grani di una collana una all’altra.
Quelle che girano a squadra verso sud poi si aprono verso est.
Nella parte che forma l’angolo retto sono rinchiusi coloro che non sanno parlare, ma solo urlare. Sembrano provenire da gabbie di uno zoo, piene di scimmie.
Alcuni parlano l'idioma volgare italiano, altri quello spagnolo.
La famiglia dall'idioma straniero si collega via etere con tutti i parenti e conoscenti al di là dell'oceano in un paese sudamericano.
In queste riunioni non mi sento più nella mia terra ma nella loro. Il loro entusiasmo e la loro allegria è contagiosa. E così differente dai liguri che parlano sottovoce per non far sapere agli altri i loro affari.
Nella parte a est ci sono due rebus irrisolti.
In una, due grandi finestre di cui solo una si apre e non lascia intravvedere chi esegue l’operazione.
Uomo, donna, fantasma?
Più avanti invece su un grande terrazzo non esiste giorno che una donna non stenda bucati divisi puntigliosamente per colore.
Immagino quante lavatrici avrà fuso e non riesco a immaginare a quante famiglie appartengano tutte quelle stese.
Più lontano verso il centro storico si forma di nuovo un angolo che guarda con le spalle il nord e con le facciate il sud.
I miei occhi laggiù arrivano sfocati.
Dovrei usare un binocolo e non mi sembra il caso.
Una casa gialla dove ognuno ha messo a caso quello che gli pareva bello, con il risultato di uno stile improbabile, abitata da due fratelli che - mi pare - come succede spesso non si parlano.
Quello che è proprietario dell'arena anziché le fiere ha messo galline e cani.
Cinque povere oche sono rinchiuse in uno stretto spazio e solo ogni tanto possono godere della libertà.
Il cerchio è quasi chiuso: rimane uno squarcio di collina, anche quello pieno di case, che lentamente soffocano la vegetazione e il bosco.