Il rientro a Savona - «città che amavo quando ne ero lontano e che odiavo quando vi risiedevo» - inizia per
Contini con aut-aut imposto dal Distretto Militare savonese: o la direzione del Presidio di Albenga <1a, o i campi di lavoro in Germania. Il 17 marzo del 1945 il sottotenente Ennio Contini giunge ad Albenga, dove rimane per un lasso di tempo inferiore ad un mese, ma sufficiente a stabilire la sua condanna: "Mi convocarono perentoriamente al Distretto Militare di Savona… Ma non ero stato congedato per invalidità contratta in guerra? Il vecchio capitano scosse il capo, sardonico, mi ripetè: - O si arruola o la mandiamo a lavorare in Gerrmania. Balbettai: - Ma io sono reduce dal fronte albanese… La risata si fece più sardonica. - Lei di guerra ne ha fatto sì o no una decina di giorni… Io nella Prima Guerra sono stato sotto le armi cinque anni! In quattro e quattr’otto indossai la divisa e fui inviato a comandare il Presidio di Albenga. […] Ad Albenga rimasi undici giorni. Per quei undici giorni mi giocai tutto il resto della vita. Ed avevo appena trent’anni. Undici giorni, ripeto, poi venne l’ordine di rientrare a Savona per incolonnarci e proseguire verso il Po, oltre il quale, si diceva, si combatteva ancora. Al Po, purtroppo, non giungemmo mai" <2a.
La sentenza della Corte di Assise Straordinaria di Savona l’11 luglio 1945 condanna a morte Ennio Contini con diversi capi d’imputazione: «quattro omicidi e una rapina in meno di venti giorni superava ogni possibile sopportazione» <3a.
Contini non verrà fucilato, sconterà la sua pena vivendo.
3. La condanna a morte: 1945-1947"
Signore, ho la tua pena in questa cella sacrilega"
(Ennio Contini, Diari inediti)
Quando Ennio Contini giunge ad Albenga, nel marzo 1945, lo scontro tra formazioni partigiane ed esercito tedesco è al culmine della sua ferocia; rappresaglie antifasciste e rastrellamenti della Feldgendarmerie <1 sono all’ordine del giorno. Per sua conformazione geografica (la famosa “piana” poteva essere un ottimale punto di sbarco alleato ed era allo stesso tempo molto vicina alla Francia) la zona costituiva un punto di snodo importante sia per le forze alleate sia per l’esercito germanico e in questo lembo di terra era cresciuto in modo esponenziale anche il movimento antifascista. Qui, nel luglio 1944, era nata infatti la Divisione d’assalto Garibaldi intitolata a Felice Cascione, primo comandante partigiano caduto in battaglia. Il 1944 è un anno tristemente importante per l’Italia e per Albenga, ormai nel pieno di una guerra civile.
Scrive Gianfranco Simone nel suo libro "Il boia di Albenga": «Fino all’arrivo della Feldgendarmerie nel novembre 1944 l’albenganese aveva sofferto meno per la repressione nazifascista che per le incursioni dei bombardieri francesi e angloamericani» <2. La polizia militare tedesca, alla fine del novembre 1944 in risposta a continui attacchi partigiani e all’uccisione di venti militari e due spie aveva attuato le prima rappresaglia nell’entroterra di Albenga, nella zona di Ortovero e Ranzo, avvalendosi dell’aiuto della Brigata Nera <3 ‘Francesco Briatore’ di Savona, a quel tempo comandata da Felice Uboldi. Ben presto la fama della Feldgendarmerie come ‘squadrone della morte’ si era diffusa nella zona dell’albenganese, accrescendosi anche per la personalità quantomai feroce e spietata di Luciano Luberti <4, chiamato ‘il Boia’. Luberti, si scoprirà solo alla fine della guerra, aveva torturato e ucciso più di un centinaio di persone. Solo la foce del fiume Centa restituirà cinquantanove cadaveri, fuciliati senza pietà da Luberti e dal suo sottoposto Romeo Zambianchi, chiamato il ‘vice-Boia’. La fine del 1944 è segnata dal sangue: il 1° dicembre in un combattimento i partigiani uccidono otto tedeschi e ne feriscono quattro, battendo in ritirata illesi; il giorno successivo la Feldgendarmerie fucila quattro ostaggi e ne tortura altri. La zona vive un momento di forte recrudescenza: la polizia militare tedesca spesso uccide ostaggi e non ne dà notizia e tra le vittime cadono anche molti innocenti, tra cui bambini e ragazzi. Chi non muore è sottoposto a torture e sevizie di cui Luberti si rende il maggior aguzzino come scrive ancora Gianfranco Simone: «Schivo, comunista e padre del partigiano ‘Cimitero’ era stato massacrato di botte […]. Il fabbro venne trascinato legato con filo spinato a una moto, dove Strupp e Luberti gli strapparono unghie e denti perché rivelasse dov’era suo figlio» <5.
Le rappresaglie tedesche avevano avuto però come unico effetto l’aumento dell’attività antifascista con imboscate e guerriglia; nel dicembre 1944 la Feldgendarmerie aveva perso circa quaranta soldati. L’abbondante nevicata del gennaio 1945 aveva fatto calare d’intensità l’attività partigiana ma non le fucilazioni della polizia militare tedesca, che tra la fine di gennaio e la metà di febbraio aveva giustiziato circa dodici persone, tra cui molti ragazzi di diciotto anni.
Il braccio destro della Feldgendarmerie ad Albenga era rappresentato dalla Brigata Nera ‘Briatore’ di Savona, comandata nel gennaio 1945 da Pierluigi Russo che era subentrato a Felice Uboldi. Russo, colpevole di omicidi e rapine, era stato ritenuto estremamente fanatico anche dalla direzione federale del partito che lo aveva sostituito, nel marzo dello stesso anno, con Ennio Contini.
È doveroso premettere che, nel tentare di ricostruire le vicende storiche che portarono Contini alla condanna a morte, ci serviremo, nell’ordine, delle fonti a nostra disposizione quali la sentenza, i documenti dell’ANPI, i libri dedicati alla Resistenza ligure e i testi inediti di Contini.
[...] A partire da quelli che Simone definisce «un esame di ammissione», quali gli omicidi di Mario Rossello e Don Nicolò Peluffo, compiuti prima dell’arrivo di Contini al Presidio di Albenga si legge nella sentenza <7:
"Contini Enrico <8 fu Garino e di Biddau Anna Maria, nato ad Oristano (Cagliari) il 31/5/1914, residente a Savona, Corso Italia 17/4, detenuto, imputato: del delitto di cui agli art. 575/577 N. 434-61 N.1-5 C. P. per avere in Vado Ligure l’ 8 maggio 1945 <9, profittando di circostanze di tempo e di luogo tali da ostacolare la privata difesa, con premeditazione commettendo i fatti per motivi abbietti, in concorso con altri cagionato la morte di Don Peluffo Nicola <10 […]. Infatti sulla colpevolezza del Contini in ordine a tutti i reati asseritigli non vi possono essere fondati dubbi. Egli è colpevole dell’omicidio di Don Nicolò Peluffo. Lo ha confessato nell’interrogatorio reso in Questura ed il tentativo da lui fatto in istruttoria ed all’udienza di negare la sua partecipazione al fatto non è riuscita. Invero a prescindere dalla falsità del suo assunto che le confessioni da lui rese in Questura gli fossero state estorte con la violenza […] sta in fatto che prima di confessarsi autore di tale omicidio in Questura egli se ne era confessato autore al Peglini in Albenga “in una sera in cui era bevuto in Albenga gli aveva raccontato di essere il naturale esecutore dell’assassinio di Don Peluffo”, sta in fatto che se nelle circostanze da lui raccontate in Questura (all’infuori della sua partecipazione) egli deve avere necessariamente partecipato al fatto perché cinque furono le persone che vi presero parte, tante ne vide il teste Giusto Luigi ed il quinto di essi, oltre al Ricciardi, al Ruppelli, al Simone, ed al Rebora conseguentemente il Contini. Non vale opporre che il Federale Pini in sede di udienza avanti il Prefetto
abbia escluso la partecipazione del Contini. Il federale aveva ancora prima, impegnando la sua parola d’onore, assicurato che l’uccisione non era stata effettuata dalla Brigata Nera, eppure egli era ben a conoscenza degli autori dell’omicidio, poiché secondo quanto riconosce lo stesso Contini, era stato egli ad ordinarlo e precisamente ad elemento della Brigata Nera, ma come egli stesso ammette frequentare la Federazione [sic] ed era in rapporti con i vari componenti di dette Brigate Nere ed era un aspirante a diventarlo, poiché aveva inoltrato domanda, aveva bisogno quindi di crearsi dei titoli adeguati per dimostrare che era degno di essere accolto in quella banda di criminali e se li formò partecipando sia all’assassinio di Don Peluffo sia a quello, come dopo si vedrà, di Mario Rossello. L’imputazione posta a carico del Contini alla lettera del capo di imputazione pertanto sussiste. Trattasi invero di omicidio doppiamente aggravato perché commesso con premeditazione, per motivi abbietti e futili e profittando di circostanze di tempo e di luogo tali da ostacolare la privata difesa (basta all’uopo ricordare che l’omicidio fu consumato su ordine del Federale e dopo che il Peluffo, già arrestato, era stato liberato perché si era riconosciuto che a suo carico non si poteva procedere, ed infine che esso venne consumato di notte in periodo di oscuramento e coprifuoco) per dedurre la pena [sic] applicabilità nella specie degli art. 575/577 C. P. Pena congrua da applicarsi al Contini per tale fatto è quindi quella dell’ergastolo".
La sentenza della Corte d’Assise Straordinaria di Savona emessa contro Ennio Contini l’11 luglio 1945, documento basilare per le nostre ricerche, è senza dubbio un testo di rifermento imprescindibile. Va sottolineato però, come scrive Gianfranco Simone, che la motivazione della sentenza era stata «battuta a macchina da un dattilografo quanto meno ubriaco» <11 e riporta diversi errori di battitura dei nomi a partire da Enrico Contini per arrivare ad un cognome che, come vedremo, era stato trascritto in quattro modi diversi; spesso anche le date vengono trascritte in maniera errata. Queste imprecisioni possono essere in parte imputate al fatto che dopo il 25 aprile 1945 a Savona, come in altre zone d’Italia, il desiderio di giustizia si era fatto impellente e il clima della città era arroventato dalle recenti ferite della guerra; a volte i processi duravano poche ore e le fucilazioni venivano compiute nel giro di pochi giorni. La rapidità delle udienze era direttamente proporzionale alla volontà di epurazione della società dal Fascismo.
Don Nicolò Peluffo, a cui oggi è dedicata la scuola elementare di Vado Ligure, era stato il vice parroco del paese a partire dal 1943. Qualche giorno prima di essere ucciso Don Peluffo era stato arrestato dalle Brigate Nere con l’accusa di essere alleato dei partigiani. Rilasciato per insufficienza di prove il curato venne ucciso da una raffrica di mitra l’8 marzo 1945 mentre recitava il rosario a casa di alcuni fedeli.
[...] Mario Rossello, nato a Savona il 9 aprile 1924, aveva deciso di arruolarsi nella lotta antifascista nel 1943 in un distaccamento garibaldino con il nome di battaglia di “Walli”. Nel dicembre del 1944 era stato catturato e incorporato, come renitente alla leva, in un battaglione di raccolta della divisione San Marco a Cairo Montenotte, dal quale però era riuscito a fuggire. Nuovamente catturato il 9 marzo 1945 da alcuni agenti che si spacciavano per partigiani venne ferocemente torturato
[...] La terribile fine di Rossello viene documentata da Guido Malandra in maniera dettagliata, riportando diverse testimonianze come la dichiarazione fatta da Giacomo Genovese in sede di interrogatorio risalente al 12 e al 17 maggio 1945: "In seguito al lancio di una bomba contro la sentinella della federazione che fu ferita, il federale [Paolo] Pini dava ordine agli uomini della squadra politica di prelevare un prigioniero che si trovava nelle celle della federazione e di farlo fuori. Gli esecutori dell’ordine sono i seguenti: tenente Contini Ennio, tenente Simone Osvaldo, agente [Antonio] Rebora, con probabilità agente [Pietro] Piana o agente [Salvatore] Ronchi" <15 <16.
Sempre Malandra riporta anche il verbale di una sentenza emessa dalla Corte d’Assise Straordinaria di Savona del 20 maggio 1946:
"La sera del 9 dello stesso mese di marzo 1945 fu arrestato dalla Brigata Nera il partigiano Mario Rossello e sottoposto a barbare sevizie che gli cagionarono gravi lesioni. La sera dell’11 marzo venne scagliata una bomba contro una sentinella della sede della federazione (del PFR), e poco dopo Rossello fu prelevato dalla sua cella e accompagnato fuori e poi ucciso sulla pubblica via con alcune scariche di mitra […]. Dopo il lancio della bomba contro la sentinella della federazione, il federale (Paolo) Pini incaricò (Ennio) Contini col Simone, il Rebora, il Ricciardi (Onofrio), il Piano e il Gori di passare per le armi il Rossello che condotto in via Ratti fu colpito con una raffica di mitra dal Ronchi (Salvatore) e dal Rebora, e successivamente ebbe ancora da quest’ultimo, su ordine del Simone, un’altra scarica. Visto il Simone e il Piano bloccare la strada mentre il Rebora e il Ronchi avevano materialmente eseguito l’assassinio".
Ennio Contini scriverà nei diari e nel romanzo ancora inediti la sua versione dei fatti, ma è necessario a questo punto circostanziare anche l’ultimo capo d’imputazione, ovvero quello della rapina e dell’uccisione di due innocenti a Ortovero, quando Contini era stato chiamato a comandare il Presidio di Albenga.
Ad Albenga Contini non aveva incontrato il famoso “Boia”, che avrà modo di vedere durante la sua detenzione nel 1946, né il “vice-boia” Romeo Zambianchi che sarà invece suo compagno di cella nel carcere di Sant’Agostino a Savona in attesa della fucilazione.
L’arrivo di Contini ad Albenga risale, come abbiamo visto, al marzo del 1945 in un periodo particolarmente tragico per la popolazione della zona, terrorizzata dallo “squadrone della morte”.
Si apprende dalla sentenza:
"Del delitto di cui all’art. 1 D. D. L. 22/2/45 N. 142 […] per avere dopo l’8 settembre 1943 nella sua qualità di comandante del distaccamento della Brigata Nera di Albenga, tenuto intelligenza col tedesco invasore, comunicando con la Feldgendarmerie alla quale forniva elementi della dislocazione e consistenza delle forze partigiane della Zona, con rilievi fotografici e altro agevolando così le operazioni militari del nemico […]. Del delitto di cui agli art. 628 ult. P. N. 1 C. P. per essersi il 27/3/45 in Ortovero e Pogli di Albenga al fine di trarne profitto in concorso con altri, impossessato mediante la violenza usata con armi in più persone di £ 22.000 sottraendole a Casiano Giuseppe di Mannora e Ramboldi Biviani di Borghetto Arroscia che sulla persona le detenevano. Del delitto di cui all’art. 575/577 N. 1 per avere nelle stesse circostanze di tempo e di luogo causato la morte del Casciano e del Rambaldi, commettendo il fatto per assicurarsi il profitto del resto di rapina e l’impunità […]. Il Contini aggiungeva inoltre che nel periodo in cui era stato al comando del distaccamento di Albenga si era recato assieme ad Enrico Bruno nella zona di Ortovero per l’arresto di certa Fiorina, informatrice dei partigiani. In quell’occasione era stato operato il fermo di tutti i passanti che erano stato riuniti in un cascinale e depredati di tutti i denari che possedevano, due di essi, dai quali temevano di essere riconosciuti, erano stati uccisi per la strada. Per tale fatto egli era stato arrestato dalla Feldgendarmerie che l’aveva consegnato al Federale Pini il quale lo aveva liberato. Intanto era sopravvenuta la liberazione ed egli si era accodato alla colonna nazifascista che abbandonava Savona allontanandosi dalla stessa ad Acqui ove si era consegnato ai partigiani. Contini […] per l’episodio di Ortovero escludeva di avere consumato sia la rapina che gli omicidi che sarebbero stati operati a sua insaputa da Enrico Bruno. […] Anche per gli stessi nazisti e fascisti, adusati a fatti di tenore e di violenza di ogni genere, quattro omicidi ed una rapina in meno di 20 gg. superava ogni possibile sopportazione. Infatti sulla colpevolezza del Contini in ordine a tutti i reati non vi possono essere fondati dubbi. […] Enrico [sic] Contini è inoltre colpevole della rapina aggravata in danno di Casaino, Rombaldi ed altri e dell’omicidio sia del Casiano che del Rambaldi <17. Infatti il teste Murano, attualmente ufficiale dei Carabinieri ed al tempo partigiano nella zona di Ortovero con la Divisione Augusta la mattina del 28 marzo 1945 avvertito dal cognato e dalla fidanzata del Casaino che quest’ultimo era stato fucilato da due finti partigiani, potè compiere pronte indagini interrogando gli stessi che erano stati fermati dal Bruno (da lui riconosciuto) e dal compagno che si erano camuffati da partigiano, erano stati condotti in casa ed ivi rapinati dai due armati di rivoltella. Quindi erano stati condotti a ridosso di una collina ed ivi mentre alcuni erano stati allontanati con l’avvertimento di non muoversi fino a che non avessero sentito dei colpi di rivoltella, due e precisamente Casiani ed un mutilato cioè il Rambaldini erano stati trattenuti. Poco dopo si erano sentiti dei colpi di rivoltella che erano stati quelli che avevano prodotto la morte del Casaini e del Rambaldini, trovati cadaveri. Di fronte a tale piena deposizione può dimostrarsi inutile ogni altra indagine per dimostrarne la colpevolezza del Contini, anche a solo titolo di complemento può essere ricordata che in tasca del Contini andò a finire il maggior provento della refurtiva, £ 20.000 rapinate, che a seguito di tale fatto persino la Feldgendarmerie si credette in dover di intervenire arrestando precisamente il Contini, che fu poi provveduto ad un’indagine da parte della Federazione (sono in atti le copie dei verbali che un legionario certo Rombo si era procurate e che furono recate dallo zio alla commissione di giustizia) ove la responsabilità del Contini risulta schiacciante. Non vale opporre che dopo l’arresto da parte della Feldgendarmerie il Federale Pini sia riuscito a farsi consegnare il Contini che poi fece liberare, evidentemente dal Federale Pini non poteva sperarsi altro comportamento se si tengono presenti i vincoli delittuosi che lo tenevano legato a Contini".
I fatti di Ortovero sono per Contini ulteriormente aggravati dalla rapina e dall’arresto voluto dalla Feldgendarmerie. Si legge ancora nella sentenza:
"Del resto a porre nella sua giusta luce tale comportamento può essere utile ricordare quanto ha deposto il questore Nitti. Egli riferisce che al tempo si era creato un urto per la Prefettura ed il Comando della 34a divisione germanica di stanza ad Albenga a seguito delle segnalazioni delle atrocità commesse da tale divisione affiancata alla Feldgendarmerie <18. Di ciò si era risentito il comando germanico e di tale risentimento si era reso interprete il Prefetto, il Pini che lo aveva avvertito di evitare noie e seccature dal comando, anche con minaccia di essere considerato di sentimenti antitedeschi. L’intervento del Pini dovette riuscire gradito alla Feldgendarmerie e di ciò egli si valse per ottenere non solo la consegna del Contini, ma altresì una dichiarazione dello Strupp <19 da cui risultava che il Contini si era recato ad Ortovero per assolvere un’importante missione per conto della Feldegendarmerie e che per tale compito aveva ricevuto dal Comando la somma di £ 20.000. Era questa somma che egli aveva rapinato nella zona di Ortovero. […] Il Genovesi poi precisa che egli travestito ed ossigenato era stato mandato in zona dei partigiani per fare rilievi, fare ricognizioni. Tutta questa attività egli la esplicava di intesa e di accordo con i tedeschi. […] Queste operazioni delle Brigate Nere insomma venivano eseguite solo con l’autorizzazione del comando tedesco. Operato il cumulo delle pene inflittegli per ciascuno reato questo si orienta nella pena di morte. Va ordinata la confisca dei beni e la sentenza va pubblicata. La Corte dichiara Contini Enrico colpevole dei reati ascrittigli e visto l’art. 483 C. P. P. lo condanna alla pena di morte".
Ennio Contini, riconosciuto colpevole di quattro omicidi e di una rapina, viene quindi condannato a morte nel luglio 1945. I reati sarebbero stati commessi da Contini tra l’8 e il 28 marzo 1945, all’epoca della sua militanza attiva nella Brigata Nera ‘Briatore’ di Savona. Gianfranco Simone ha cercato di circostanziare i fatti compiuti dall’allora tenente Contini in veste di comandante del presidio di Albenga, fatti aggravati, come abbiamo letto, dall’arresto effettuato ai suoi danni dalla Feldgendarmerie. Secondo il racconto ricostruito da Simone - che si è avvalso di testimonianze dirette e documenti dell’epoca - Ennio Contini viene incolpato prima che da altri dai “suoi”, i legionari Enrico Bruno e Giancarlo Rombo che denunciano Contini al Federale di Savona Paolo Pini per i reati commessi ad Ortovero. Enrico Bruno aveva dichiarato: "che alle 15 del 26 marzo il suo comandante gli aveva ordinato di indossare come lui abiti borghesi e di portarlo in moto per una missione speciale a Ortovero. Prima di partire Contini ordinò a Rombo di uccidere la moglie e la figlia di Enrico se questi non fosse tornato in Feldgendarmerie […]". I due brigatisti neri, sempre secondo la
deposizione di Enrico, raggiunsero una casa a Costa Bacelega (Ranzo) dove si spacciarono per il capo partigiano di Calizzano “Bill” e il suo gregario “Bleck” e pistole in pugno, radunarono una quindicina di persone […]. Contini perquisì i contadini e la casa poi disse a Enrico di aver raccolto solo 5.500 £, dandogliene 500 e promettendogli che avrebbe diviso con lui il resto a Ortovero. Quindi portò nel bosco due dei civili col pretesto di farsi indicare la strada per incontrare “Cimitero”. Contini ordinò a Enrico di uccidere i due contadini, ma il legionario, a quanto sostenne, finse di sparare per cui il sottotenente fulminò i due poveretti con quattro colpi di pistola alla nuca" <20.
Stando alle testimonianze di Enrico Bruno e di Giancarlo Rombo <21, rese di fronte al Federale del Partito Fascista di Savona Paolo Pini, Contini si era reso il solo colpevole sia della rapina, sia del duplice omicidio.
Gianfranco Simone fa luce sulla intricata vicenda
[...] Per quanto riguarda l’altra vittima, Giuseppe Cassiano, Gianfranco Simone ha raccolto la testimonianza di un suo lontano parente che sapeva dell’uccisione del cugino da parte di due fascisti e «che di Enrico Bruno non sa nulla».
L’inchiesta su Contini, denunciato da Bruno e Rombo alle autorità competenti si era chiusa grazie all’intervento del Federale Paolo Pini, che lo aveva liberato. Aveva concorso a favore della sua liberazione anche la testimonianza del maresciallo Strupp della Feldgendarmerie che aveva dichiarato di essere stato lui ad aver mandato Contini in missione ad Ortovero e di avergli dato, per questo, un acconto spese di £ 20.000. La stessa cifra che, stando all’accusa, Contini avrebbe invece rapinato.
[...] Il tenente Contini, con quello che rimaneva della colonna e del suo plotone, aveva deciso quindi di avviarsi in direzione di Cassine e di rinunciare alla marcia verso il Po. Giunti a Cassine i militari superstiti erano stati condotti al Comando del C.L.N. locale per consegnare le armi ed erano stati dichiarati uomini liberi, salvo poi venire arrestati qualche giorno dopo. Contini, nei suoi scritti inediti, ricorda il breve periodo trascorso a Cassine parlando di giorni e di «tempi sereni e qualche volta anche gai», contraddistinti dalla grande correttezza dei partigiani locali.
[...] Le vicende di Contini trascorrono serene anche dopo il suo trasferimento da Cassine ad Acqui dove gli viene ufficialmente consegnato un lasciapassare. Ma il sapore della libertà è fugace: alla stazione di Alessandria il giovane Contini viene nuovamente arrestato da un altro partigiano, un badogliano, che lo accompagna al Comando locale del C.L.N.
[...] L’arrivo a Savona è segnato fin dall’inizio da un presagio: agli occhi di Contini sembrava che tutta la città fosse lì ad attenderlo, davanti alla Questura, per processarlo. Il tenente era stato portato immediatamente nel carcere di Sant’Agostino <30 dove aveva trovato come compagno di cella l’ex prefetto di Savona De Maria <31.
Per quattro giorni Contini era rimasto in carcere prima di essere trasferito in Questura. Qui, stando alla sola sua testimonianza scritta, era stato più volte duramente percosso e costretto ad ammettere colpe non sue. La sentenza riporta il fatto come un tentativo dell’imputato di negare una grave accusa, si legge infatti: «Invero a prescindere dalla falsità del suo assunto che le confessioni da lui rese in Questura gli fossero state estorte con la violenza».
[...] Dopo la confessione Contini era stato nuovamente trasferito in una cella del carcere di Sant’Agostino. Qui, in attesa del processo, il giovane tenente aveva incontrato il Pubblico Ministero che avrebbe dovuto sostenere la sua accusa, l’avvocato Antonio Catte <33 che, stando al racconto di Contini, si era accorto della gravità della situazione e dei torti subiti dall’imputato.
[...] L’imputato, ormai condannato alla fucilazione, viene nuovamente trasferito nel carcere di Sant’Agostino, in attesa dell’esecuzione. Va aggiunto che gli avvocati della difesa si erano rifiutati di fare appello in Cassazione rendendo, come scrive Contini, «la mia condanna di morte definitiva».
[...] Anche nel suo romanzo inedito Contini ricorda la morte di Zambianchi come un episodio fortemente perturbante. Per Contini Zambianchi era stato fucilato al posto suo, quasi una vittima sacrificale e innocente.
[...] Contini, come sappiamo non era stato fucilato e nel 1947, senza preavviso, viene trasferito nel carcere di Procida insieme ad altri detenuti politici. Qui Contini era stato informato della conversione della sua pena in ergastolo [...]
[NOTE]
1a Ad Albenga operava una Compagnia della Brigata Nera savonese «Francesco Briatore», costituitasi l’11 luglio 1944 con lo scopo di controllare l’ordine pubblico di quella zona. Il Presidio di Albenga era composto da una trentina di uomini, comandato dapprima da Felice Uboldi, poi da Pierluigi Russo e successivamente, fino al suo scioglimento, da Ennio Contini.
2a AC, brano tratto dal romanzo inedito, primo dattiloscritto dal titolo Il poema della speranza, pp. 66-67.
3a Tratto dalla sentenza della Corte Straordinaria di Assise di Savona emessa l’ 11 luglio 1945 contro il tenente Ennio Contini. I documenti relativi al processo sono conservati presso l’Archivio di Stato di Genova, Corte Assise Speciale, faldone 85.
1 La Feldgendarmerie era la polizia militare dell’esercito tedesco. Era divisa in «Trupp» e di norma era formata da due plotoni, tre ufficiali, quarantuno sottufficiali e venti graduati di truppa.
2 Gianfranco Simone, Il boia di Albenga. Un criminale di guerra nell’Italia dei miracoli, Milano, Mursia, 1998, p. 25.
3 Nel giugno del 1944 era stato istutuito, per volere di Alessandro Pavolini, il Corpo Ausiliario della Squadre d’azione delle Camicie Nere. Le federazioni provinciali del Partito Fascista Repubblicano avevano preso il nome di Brigate Nere.
4 Luciano Luberti (Roma, 1921-Padova, 2002) detto ‘il Boia di Albenga’ era stato un criminale di guerra, giunto alla ribalta della cronaca anche negli anni ’60 per l’uccisione della compagna Carla Gruber. Secondo alcune fonti Luberti si arruolò nell’esercito nel 1941 ma è nel gennaio 1944, con il suo reclutamento tra le file della Wermacht che Luberti iniziò a farsi strada tra tradimenti e omicidi. Nel gennaio 1944 fu coinvolto nel rapimento di Umberto Spizzichino, ebreo suo amico, condotto nel campo di sterminio di Auschwitz, dove morì nell’agosto 1944. Sempre nel 1944 Luberti decise di passare alla Feldgendarmerie di Albenga, in veste di traduttore, ma ad Albenga uccise e torturò più di sessanta persone (stando alla sentenza della corte d’Assise straordinaria di Savona Luberti si era reso colpevole di oltre duecento omicidi). Catturato nel 1946, mentre cercava di espatriare in Francia, Luberti venne condannato a morte e scontò sette anni di carcere. Subito dopo la sua scarcerazione Luberti tornò a Roma dove, tra il 1953 e il 1970, diede vita ad alcune iniziative editoriali attraverso l’Organizzazione Editoriale Luberti, pubblicando suoi testi come Furia (sotto lo pseudonimo di Max Trevisant) del 1964 o I camerati del 1969. Nel gennaio 1970 la compagna di Luberti, Carla Gruber, fu ritrovata morta nell’appartamento del ‘Boia’ in avanzato stato di decomposizione, uccisa da un colpo di pistola al cuore. Luberti venne arrestato per l’omicidio della Gruber solo nel 1972 e scontò, anche questa volta, solo otto anni di carcere perché «incapace di intendere e volere». Trascorse i suoi ultimi anni a Padova, tra arresti per detenzione di droga e il manicomio. Nel 1998 la Rai lo intervistò per la trasmissione Parola ai vinti. Il ‘Boia’ morì qualche anno dopo, ospite di una casa di riposo.
5 Gianfranco Simone, Il boia di Albenga, cit., p. 41.
7 Sentenza della Corte Straordinaria di Assise di Savona emessa l’11 luglio 1945 contro il tenente Ennio Contini. I documenti relativi al processo sono conservati presso l’Archivio di Stato di Genova, Corte Assise Speciale, faldone 85.
8 La grafia Enrico è corretta a mano in Ennio, ma l’alternanza tra i due nomi ricorre per tutta la sentenza.
9 L’omicidio di Don Nicolò Peluffo era avvenuto l’8 marzo 1945.
10 Il nome corretto è Nicolò. Anche in questo caso nella sentenza si ritrovano ripetuti sia Nicola sia Nicolò.
11 Gianfranco Simone, Il boia di Albenga, cit., p. 73.
15 L’elenco è simile a quello riportato da Lunardon nella descrizione dell’omicidio di Don Peluffo.
16 Guido Malandra, Squadre di azione patriottica savonesi, Savona, cit., p. 16.
17 Il cognome delle due vittime di Ortovero oscilla tra diverse scritture, anche Gianfranco Simone nota questa discrepanza di trascrizione: «La motivazione della Corte di Assise assegna alla seconda vittima un cognome che oscilla tra Ramboldi, Rambaldi, Rombaldi e Rambaldini un nome che potrebbe essere Diviani o Tiviani» (Gianfranco Simone, Il boia di Albenga, cit., p. 73).
18 La Brigata Nera Briatore si era distinta, nella zona di Alassio e Albenga, per aver accentrato nelle proprie mani il mercato nero, accumulando derrate alimentari a scapito di chi non faceva parte del Mussolini: «Il nuovo federale ha trovato la Brigata Nera in cattive condizioni, anche moralmente parlando, e sta raddrizzandola. Esiguo il numero dei componenti: 242. Scarso l’equipaggiamento, mediocre l’armamento. Particolarmente quello di Alassio si è comportato male, con iniziative autonome di arresti e furti, che ne provocarono il disarmo da parte dell’autorità tedesca» (Francesco Biga, Storia della resistenza imperiese, volume III, Farigliano, Milanostampa, 1977, p. 45).
19 Friedrich Strupp è stato il maresciallo della Feldgendarmerie di stanza ad Albenga. Si era reso colpevole, insieme a Luberti, di diversi omicidi e torture perpetrate a danno degli ostaggi.
20 Gianfranco Simone, Il boia di Albenga, cit., pp. 68-69.
21 Giancarlo Rombo fu mandato il giorno dopo ad Ortovero, insieme ad altri, per fare da scorta a Contini e Bruno. Bruno raccontò la sua versione dei fatti a Rombo che «mandò Bruno a Savona ad avvertire il comando della Brigata Nera, che aprì un’inchiesta, proseguita fino al 22 aprile» (Gianfranco Simone, Il boia di Albenga, cit., p. 69).
30 Il padre di Contini, Gavino, era stato per un periodo direttore del carcere Sant’Agostino di Savona. Scrive Ennio nei suoi diari inediti: «Sant’Agostino, il carcere ricavato da un vecchio monastero, lo conoscevo da tempo immemorabile per il semplice fatto che mio padre, buonanima, ne era stato il Direttore… E a proposito di Sant’Agostino, come Direttore, e contro la volontà del capo-guardia, aveva liberato tutti i detenuti politici sia di destra sia di sinistra… Papà, in quell’occasione, venne portato in trionfo per le vie della città… Io ero ragazzino allora… Bei tempi!» (AC, scritto inedito su due fogli, impiegati solo sul recto, senza data).
31 L’ex prefetto di Savona Paolo De Maria (Alessandria, 1891-Spoleto, 1968) dopo aver ricoperto la carica di presidente della provincia di Frosinone era stato trasferito nella città ligure dove aveva preso servizio l’8 gennaio 1945. Processato dalla Corte di Assise Straordinaria di Savona, fu condannato a un anno e otto mesi di reclusione per collaborazionismo.
33 Antonio Catte, detto Totoni (Oliena, 1912-1949) era stato il più giovane magistrato d’Italia, avendo conseguito la laurea in legge a soli ventidue anni. Di origine sarda, come Contini, abbandona la sua terra natale per ragioni lavorative. Figura attiva della resistenza ligure partecipa in prima persona alla lotta di liberazione nella Brigata ‘Giustizia e Libertà’; dopo il 25 aprile gli viene consegnato l’incarico, in qualità di magistrato, di prendere parte ai processi contro i fascisti per il Tribunale Speciale di Genova. Per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, a causa di una malattia contratta nei duri mesi trascorsi tra le fila partigiane, è costretto ad abbandonare il suo ruolo e a fare ritorno a Oliena, dove muore, in giovane età, nel 1949.Francesca Bergadano,
«Il gioco irresistibile della vita». Ricerche su Ennio Contini (1914-2006): poeta, scrittore, pittore, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2017-2018