venerdì 25 giugno 2021

Quando un poeta di Oneglia diventa critico d'arte

Cesare Vivaldi - Fonte: La Stampa

Madre non dimentico

A nun me sun scurdàu de ti, che ti me
disgevi, o màe, che "u ventu u nasceva
da e muntagne e u caàva in t'e maìne,
cu u ventu ti sei nascìüu ti". Fasgeva

freidu, un utubre frèidu: u gh'èa in fine-
strun darè au letu, e u ventu u ghe batteva
e sensa fin nìvue gianche. Dimme
se au ventu ti sei morta ti! Cureva

troppu u me cö cu u ventu. In t'e maìne
trövu a to faccia, e au so che ti sei morta.
Trövu u to cö duse e amaru in te st'agri

àsgini d'üga, e toe man sensa fin
in t'e nìvue, e (so che ti sei morta)
in t'u me cö u diamante d'ina lagrima.

Non mi sonodimenticato di te, che mi / dicevi, o madre, che "il vento nasceva / dalle montagne e calava nelle marine, / col vento sei nato tu". Faceva // freddo, un ottobre freddo: c'era un fine- / strone dietro al letto, e il vento vi batteva, / e senza fine nuvole bianche. Dimmi / se al vento sei morta tu! Correva // troppo il mio cuore col vento. Nelle marine / trovo la tua faccia, e lo so che sei morta. / Trovo il tuo cuore dolce e amaro in questi agri // acini d'uva, le tue mani senza fine / nelle nuvole, e (so che sei morta) / nel mio cuore il diamante d'una lagrima.

Cesare Vivaldi
 

Imperia: una vista sul Monte Calvario

La casa dove sono nato

A cà unde a sun nasciüu
a l'è a cà russa ;
in sce u munte Calvariu,
d'unde u se ve in ma ciàiu
d'in tra i uìvi e i pin,
e cume inu stranüu
u ventu u büssa
gerusgìe e fenestrìn.

Vint'anni partìu che a sun,
e aù turnu a mià.
A cà a l'è arruvinà,
e i amìsgi unde i sun?
Ün garsùn d'officina,
l'autru cascè in t'a banca,
in tersu u l'è emigrante
partìu pe l'Argentina:
"Ciau me màe, ciau papà.
Mamma mia dammi cento lire
che in America voglio andà."

La casa dove sono nato / è la casa rossa / sul monte Calvario, / di dove si vede un mare chiaro / tra gli ulivi e i pini, / e come uno sternuto / il vento bussa / gelosie e finestrini. // Vent'anni che son partito, / e adesso torno a guardare. / La casa è rovinata, / e gli amici dove sono? / Uno garzone d'officina, / l'altro cassiere alla banca, / un terzo è emigrante / partito per l'Argentina. / «Ciao mamma, ciao papà. / Mamma mia dammi cento lire / che in America voglio andà."

Cesare Vivaldi
 
Cesare Vivaldi e Simona Weller. Fonte: Wikipedia

Nell’estate del 1958 Francesco Arcangeli intercetta, sul settimanale «Corrispondenza Socialista», tre recensioni di Cesare Vivaldi alla XXIX Biennale di Venezia <1. Il nome di Vivaldi non gli è ignoto e la prima impressione che aveva avuto di lui non era stata buona: in un testo a sua firma apparso a fine 1957 su «L’esperienza moderna» Arcangeli aveva letto un virulento attacco al suo scritto più programmatico e sofferto del decennio, Una situazione non improbabile <2.
Chi scriveva non ci era andato giù leggero, e gli aveva rivolto persino l’accusa di maneggiare idee «malamente orecchiat[e] da tesi francesi ed americane» <3.
Ma nelle recensioni di Vivaldi alla Biennale del 1958 Arcangeli apprezza, e glielo racconterà di lì a poco per lettera, «un sufficiente fregarsene di molte cose; uno spirito non conformista; scelte che non condividevo, ma che erano scelte» <4.
A rileggerli oggi questi tre articoli, sin qui sfuggiti agli studi, sono tutt’altro che memorabili. Con una scrittura che unisce la veemenza di giovanili posizionamenti militanti e gli obblighi di una rassegna informativa Vivaldi stigmatizzava il padiglione italiano «repleto quasi intieramente della più vieta accademia astrattista, di desolante uniformità e squallore»; riconosceva la qualità della selezione di Lucio Fontana («quadri di raffinatissima impaginazione ed improntati ad un grafismo quasi orientaleggiante»); rivendicava l’originalità di Nino Franchina («felicissimo, brillantissimo, estroso autore di ferri battuti e martellati in forme chimeriche»); ammirava la svolta informel di Toti Scialoja e avanzava il sospetto di stasi «manierista» per uno dei tre quadri di Alberto Burri <5; denunciava la dimenticanza di Antoine Pevsner tra i premiati, cui era stato preferito Umberto Mastroianni <6; anteponeva la qualità delle selezioni di Mark Rothko e Mark Tobey a quella di tutti gli altri espositori; riconosceva a chiare lettere la grandezza di Wols <7.
Fontana, Franchina, Scialoja, Pevsner e lo stesso Rothko non sono certo artisti nella costellazione di riferimento di Arcangeli. Ma il riconoscimento che Vivaldi aveva tributato nuova libertà di linguaggio del Mafai post-realista, l’apprezzamento per Carlo Corsi, la netta presa di posizione a favore di Wols sono, per Arcangeli, spie di una testa che non ragiona secondo schemi precostituiti. Tanto bastava per distinguerlo da quella koinè filoventuriana (Umbro Apollonio, Palma Bucarelli, Nello Ponente) che, in catalogo o nelle recensioni, aveva scritto della Biennale e che continuava a ritrovare nella discendenza post-cubista e nell’approdo a una astrazione più o meno geometrica le linee guida della modernità.
Così nell’autunno del 1958 Arcangeli cerca Vivaldi per telefono e i due si incontrano, per la prima volta, a Roma a inizio novembre. Vivaldi restituisce la visita a Bologna: ad accoglierlo c’è anche Sergio Vacchi, il pittore che Arcangeli sta seguendo con continuità nel transito difficile dal paesaggio alla figura; la tappa comune nello studio di Giorgio Morandi è la spia, da parte di Arcangeli, di una significativa apertura di credito <8.
Inizia in questo modo la relazione tra due intellettuali molto diversi per generazione, formazione, città di riferimento, predilezioni artistiche. Da una parte c’è un bolognese nato nel 1915 che è stato il primo allievo di Roberto Longhi e che si è impegnato nella rivendicazione di una continuità dell’arte dell’Italia settentrionale, più specificamente padana, da Wiligelmo a Vitale, dai Carracci ai paesisti dell’Ottocento fino ai pittori padani dell’«ultimo naturalismo» <9: si sente isolato soprattutto dopo che ha abbracciato il campo della militanza critica sul contemporaneo, con tutti i rischi di un ambiente non sempre ben frequentato (le prese di posizione a partire da Gli ultimi naturalisti del 1954 in poi gli hanno procurato «una solitudine senza compagni» <10). Dall’altra c’è un ligure nato nel 1925 che si è presto trasferito con la famiglia a Roma e si è laureato con Giuseppe Ungaretti alla Sapienza: a lungo nel dopoguerra quadro organico del Partito Comunista Italiano, è impegnato nei campi della poesia, della traduzione letteraria e, solo da poco, della critica d’arte <11. Dopo l’uscita dal partito, che data ancor prima dei fatti d’Ungheria, Vivaldi si trova in un isolamento diverso da quello di Arcangeli, non tanto esistenziale quanto politico («La cosa più ardua da affrontare, uscendo da un organismo compatto come il PCI, è proprio vincere la sensazione di isolamento che subito ti afferra, il terrore di aver abbandonato un clan di cui eri parte per l’ignoto» <12); l’aggiornamento sui periodici culturali europei, testimoniato dalla rubrica che tiene mensilmente su «Tempo presente», dimostra un vorace interesse interdisciplinare. I due, Arcangeli e Vivaldi, hanno un carattere poco portato agli accomodamenti tattici, ed è questo che più di tutto li avvicina. Ed entrambi vivono sulla propria pelle una condizione di irregolari, fuori dall’accademia e dalle posizioni che contano nel sistema culturale italiano: Arcangeli professore di liceo, Vivaldi giornalista freelance uscito volontariamente dalla rete della stampa comunista.
Potrebbe essere una delle tante relazioni intellettuali che si imbastiscono, per poi magari rapidamente naufragare, in una Italia ancora policentrica in cui discutere di arte moderna vuol dire allargare il campo ai temi della cultura umanistica e civile: relazioni che non escludono il confronto di idee, anche aspro. La scintilla di un interesse più profondo da parte di Arcangeli scatta quando legge, nel numero di settembre-ottobre 1958 di «Tempo presente» (la rivista di Silone e Chiaromonte che ospita molti transfughi dal PCI), una lunga confessione di Vivaldi dedicata alle ragioni della propria uscita dal partito di Togliatti: Arcangeli capisce che è possibile trovare con quell’inquieto trentatreenne, e glielo scrive per lettera, «un punto utile di contatto». E non solo perché Vivaldi è un uomo colto, un gran lettore <13; ma perché, afferma, lo ha fatto riflettere su «quanto di conformistico, di non vero, ci sia anche sulla sponda dove bene o male io (che non sono mai stato comunista) sono sempre stato, e dove tu sei approdato» <14: la sponda, cioè, di una collocazione politica laica e progressista, con un dichiarato credo anarchico per Arcangeli <15, una vicinanza, seppur tiepida, al PSI per Vivaldi <16.
Dopo il primo incontro bolognese Arcangeli e Vivaldi cominciano a scriversi e continuano a farlo fino agli anni Sessanta inoltrati. Le lettere più importanti che si scambiano, sette, datano a un arco di mesi ristretto, dal novembre del 1958 all’aprile del 1960, e trattano temi decisivi per l’arte italiana dello scorcio del sesto decennio: finora inedite, sono conservate nel Fondo Arcangeli della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna (quelle di Vivaldi ad Arcangeli) e nell’Archivio Cesare Vivaldi della Biblioteca Fondazione Mario Novaro di Genova (quelle di Arcangeli a Vivaldi) <17. Lo sguardo sui fatti e sulle opinioni è, in queste lettere, sempre franco, spesso carico di umori: a un certo punto le distanze prevalgono sulle intese e si risolvono in un confronto anche aspro, con la consapevolezza di trovare nell’altro un interlocutore comunque comprensivo («di tanto in tanto ci si aggredisce, o ci si accarezza, non so», prova a rimediare Vivaldi in una lettera <18). La polemica, perché di polemica vera e propria si tratta (e così l’avrebbe ricordata retrospettivamente Vivaldi <19), si scandisce negli interventi pubblici: soprattutto introduzioni a cataloghi di mostra ma anche scritti su riviste e giornali, dove la distanza tra il credo naturalista di Arcangeli e le passioni di internazionalismo modernista di Vivaldi appare non colmabile. Ma le spiegazioni tra i due avvengono in privato: nelle lettere le rispettive posizioni sono rivendicate con forza; le allusioni, talvolta velate nei testi pubblici, si esplicitano; non si risparmiano nomi e cognomi, fatti precisi, retroscena e insofferenze. Tra queste sette lettere ce n’è una, lunga e articolata (otto cartelle dattiloscritte), di Arcangeli dell’aprile 1960: è un’amara riflessione sul costume dell’arte moderna italiana che fa il consuntivo del decennio appena chiuso <20. Non mi è consentito di pubblicarla integralmente perché non ho ottenuto il permesso da Nadia Arcangeli, che detiene oggi i diritti degli scritti di Francesco Arcangeli <21.
Questo divieto impedisce la lettura di un testo che, per ampiezza degli argomenti e tensione della scrittura, ha lo statuto di un vero e proprio saggio: qualche breve citazione nel presente contributo ne darà una testimonianza parziale.
Nell’impossibilità di pubblicare le lettere ho provato a intrecciare, per il periodo 1958-1960, scritti pubblici e privati dei due corrispondenti cercando di inserirli nella trama della discussione critica italiana del tempo.
Questa polemica, che si esaurisce nel 1960, lascerà in entrambi il segno [...]

1 VIVALDI 1958d, VIVALDI 1958e, VIVALDI 1958f. Il settimanale «Corrispondenza Socialista», fondato nel giugno 1957 da Eugenio Reale e Giuseppe Averardi, sosteneva posizioni di dialogo tra PSI e PSDI ed era animato da una aggressiva polemica anticomunista e antisovietica.
2 ARCANGELI 1957/1977.
3 In VIVALDI 1957d, pp. 21-23, un duro passaggio era dedicato proprio ad ARCANGELI 1957/1977: «Giova dire, a questo punto, che il problema della ‘natura’, che qualche critico ha creduto possibile riproporre come una conquista attuale, presentandolo in termini di ‘continuum’ materico, ed esemplandolo su Morlotti ed altri anche più mediocri (con discorsi - vedi Francesco Arcangeli su Paragone del gennaio 1957 - malamente orecchiati da tesi francesi ed americane) non solo non rappresenta nulla di nuovo, ma non ha in realtà neppure la consistenza di un vero e proprio problema».
4 Lettera di Francesco Arcangeli a Cesare Vivaldi, [Bologna], 15 novembre 1958, Archivio Cesare Vivaldi, Biblioteca Fondazione Mario Novaro, Genova.
5 Tutto in VIVALDI 1958d; il quadro «manierista» di Burri era il monocromo Tutto Bianco in BURRI 2015, p. 102, n. 887.
6 VIVALDI 1958e.
7 VIVALDI 1958f; il titolo dell’articolo (Tobey e Wols. I due maggiori presentati alla Biennale di Venezia), evidentemente redazionale, non rispecchiava la scala di valori espressa dal recensore.
8 Tutte queste informazioni nella lettera di Francesco Arcangeli a Cesare Vivaldi, [Bologna], 15 novembre 1958, Archivio Cesare Vivaldi, Biblioteca Fondazione Mario Novaro, Genova. Sergio Vacchi aveva già scritto a Vivaldi, in una lettera del 7 novembre 1958 consevata nello stesso archivio, che «per noi [Vacchi e Arcangeli] la tua visita a Bologna è stata un acquisto o meglio incontrare una persona che ha tutta l’aria di poter diventare un amico»; la visita gli era parsa «stranamente delicata per i tempi [che] corrono (esempio: i fiori per Morandi)», e continuava: «mi è piaciuta la tua intelligenza stranamente ‘settentrionale’ per la città in cui vivi. Insomma un’intelligenza corposa»; a chiusura della lettera Vacchi prometteva a Vivaldi il regalo di un suo quadro per il giorno del suo compleanno. Nel dicembre successivo Vivaldi avrebbe ospitato Vacchi e la moglie nella sua casa di Roma. Giorgio Morandi, cui Vivaldi aveva già inviato in dono un suo libro di poesie (con ogni probabilità il recente Il cuore d’una volta, del 1956: lettera del 4 marzo 1957), rispose all’invio da parte di Vivaldi di un numero di «Tempo presente» che lo vedeva tra i collaboratori la consueta formalissima lettera di ringraziamento (datata 20 novembre 1958) in cui ricordava la visita di Vivaldi nella sua casa-studio di Bologna.
9 La dichiarazione più appassionata ed esplicita di sostegno a questa linea (da Catullo a Giuseppe Verdi, da Wiligelmo a Carrà e ai pittori dell’«ultimo naturalismo»), in ARCANGELI 1954/1977, pp. 318-319. Sono numerosi gli strumenti oggi disponibili per l’inquadramento della figura culturale di Arcangeli: la biografia e la bibliografia più complete si ritrovano in SALVATORI 2005 e RIZZI 2005 (la bibliografia va integrata con quella in ROVATI 1998b, pp. 149-169); esistono una raccolta antologica degli scritti sull’arte contemporanea (ARCANGELI 1977); una raccolta completa degli scritti di galleria (ARCANGELI/TRENTO 1994); una raccolta degli scritti sul Trecento bolognese (ARCANGELI 1978); i testi delle lezioni universitarie del periodo 1967-1970 (ARCANGELI/PIETRANTONIO 2015). La tesi di laurea su Jacopo di Paolo e la corrispondenza con il relatore Roberto Longhi si leggono in MASSACCESI 2011; il primo libro sulle Tarsie (1942) in ARCANGELI 2014; la raccolta delle poesie in ARCANGELI 1996. Per gli studi su Arcangeli vanno ricordati almeno TRENTO 1992; TRENTO 1994; ROVATI 1998a e ROVATI 1998b; BRUNETTI 2002; RAIMONDI 2010; TURNER MONET POLLOCK 2006; ROVATI 2011; FERRETTI 2014; EMILIANI 2018.
10 Lo dichiara lo scrivente stesso in apertura di ARCANGELI 1957/1977, p. 338.
11 I materiali e gli studi oggi disponibili sulla figura e l’opera di Cesare Vivaldi sono limitati: dopo la sua morte (1999) sono state ripubblicate solo le poesie (VIVALDI 1999; VIVALDI 2002) e le traduzioni dell’Eneide del 1962
(VIRGILIO/VIVALDI 2005) e de L’arte di amare del 1996 (OVIDIO/VIVALDI 1996). A porlo in una posizione di rilievo nella critica d’arte militante italiana tra anni Cinquanta e Sessanta è stato il rinnovato interesse per la Scuola
romana di Piazza del Popolo a partire dall’intervista rilasciata da Vivaldi a Marco Di Capua in ROMA ANNI ’60 1990, p. 384; gli affondi più fruttuosi si devono a MESSINA 2011; CINELLI 2014; CINELLI 2017.
12 VIVALDI 1958g, p. 730.
13 «Madonna, quanto hai letto! Io mi prendo paura, con la mia cultura paurosamente lacunosa, anche perché so che tu non hai sprecato le tue letture; per me, con la mia cultura, sono ancora a dover risolvere delle immense parole incrociate di cui ho riempito solo qualche quadratino, qua e là» (lettera di Francesco Arcangeli a Cesare Vivaldi, [Bologna], 15 novembre 1958, Archivio Cesare Vivaldi, Biblioteca Fondazione Mario Novaro, Genova). Arcangeli commentava qui un passaggio di Cesare Vivaldi del 1958: «A vent’anni ero un accanito e velocissimo divoratore di libri, qualità che invero m’è rimasta, e sommuovevo implacabilmente biblioteche e librerie alla ricerca di testi rari (allora) dei più oscuri (allora) autori contemporanei, soprattutto americani; i classici, italiani e stranieri, li avevo letti praticamente tutti, anche molti ‘minori’, tra i quindici e i diciott’anni, e in quel momento non mi interessavano. ‘Consumavo’ tre o quattro libri al giorno, le antologie di Untermeyer, Whitman e Sandburg (entrambi da me tradotti quasi per intero), Pound, Eliot, Anderson, Hemingway, Hughes, e giù giù sino a Dos Passos, Mac Kay, Hergesheimer perfino, sino ai più trascurabili. E leggevo gli spagnoli, russi come Babel e la Sejfulina (che credevo ‘ortodossi’), i francesi, inglesi come Hopkins e Joyce, i tedeschi, e naturalmente gli italiani. Tutto quel che leggevo mi spingeva verso un engagement letterario-politico, romantico ed esaltante. Con in più la buona fede ero un po’ come quei commentatori fascisti di Dante che identificavano Mussolini con il ‘veltro’: in tutto vedevo comunismo. "Le mur" mi sembrava un libro comunista, e così "Per chi suona la campana"; "La condition humaine" mi innamorava. L’antifascismo di Sartre e di Hemingway, la spinta sociale del primo Auden, l’antirazzismo dei poeti negri, il democraticismo di Whitman, il realismo di Sandburg erano altrettanti incoraggiamenti all’engagement» (VIVALDI 1958g, p. 723).
14 Lettera di Francesco Arcangeli a Cesare Vivaldi, [Bologna], 15 novembre 1958, Archivio Cesare Vivaldi, Biblioteca Fondazione Mario Novaro, Genova.
[...]
17 Per il periodo qui indagato la sequenza delle lettere dei due scriventi è la seguente: 1. Lettera di Francesco Arcangeli a Cesare Vivaldi, [Bologna], 15 novembre 1958 (6 facciate manoscritte, con allegata poesia dattiloscritta); 2. Lettera di Cesare Vivaldi a Francesco Arcangeli, Roma, 18 novembre 1948 [errore per 1958] (4 facciate manoscritte); 3. Lettera di Cesare Vivaldi a Francesco Arcangeli, Roma, 20 novembre 1958 (1 facciata manoscritta, ad accompagnamento di un appello dattiloscritto al Ministro della Pubblica Istruzione); 4. Lettera di Francesco Arcangeli a Cesare Vivaldi, Bologna, 15 gennaio 1959 (6 facciate manoscritte); 5. Lettera di Cesare Vivaldi a Francesco Arcangeli, Roma, 12 aprile 1960 (8 facciate manoscritte); 6. Lettera di Francesco Arcangeli a Cesare Vivaldi, Bologna, 19 aprile 1960 (8 facciate dattiloscritte, con interventi autografi manoscritti); 7. Lettera di Cesare Vivaldi a Francesco Arcangeli, Roma, 4 maggio 1960 (6 facciate dattiloscritte con interventi autografi manoscritti a penna e commenti di Arcangeli a matita). Non si è conservata una lettera di Arcangeli a Vivaldi di inizio 1960 cui la lettera di Vivaldi ad Arcangeli del 12 gennaio 1960 fa chiaro riferimento.
18 Lettera di Cesare Vivaldi a Francesco Arcangeli, Roma, 4 maggio 1960, Fondo Arcangeli, Biblioteca dell’Archiginnasio, Bologna.
19 Così nella intervista di Marco Di Capua a Cesare Vivaldi in ROMA ANNI ’60 1990, p. 384: «Ha mai avuto polemiche culturali? Con Arcangeli, ma questo alla fine degli anni ’50».
20 Lettera di Francesco Arcangeli a Cesare Vivaldi, Bologna, 19 aprile 1960, Archivio Cesare Vivaldi, Biblioteca Fondazione Mario Novaro, Genova.

Flavio Fergonzi, Una polemica tra Francesco Arcangeli e Cesare Vivaldi sulla pittura moderna (1958-1960), Studi di Memofonte, 24/2020

 


Era un ligure schivo, un uomo dentro la cultura e fuori dalle giostre del pettegolezzo letterario o artistico, il poeta e critico d'arte Cesare Vivaldi morto ieri a Roma. Aveva settantaquattro anni. Scrisse di sé con lucida obbiettività d'essere stato "da giovanissimo ermetico, successivamente realista su modelli americani e pavesiani, poi realista-socialista, trovando quindi una via di scampo nella poesia dialettale". E fu lui stesso a parlare "di un'adesione concreta (attraverso il dialetto) alle cose più semplici, ai sentimenti più elementari". A questo autoritratto culturale, che risale agli anni Cinquanta e nacque per quell'indimenticabile monumento della poesia italiana che è l'antologia di Giacinto Spagnoletti, mancava forzatamente la conclusione. Nel suo libero e inquieto cercare e cercarsi, Vivaldi approdò da ultimo a un consapevole sperimentalismo maturato nell'ambito della neoavanguardia. Fra i suoi titoli più recenti, si possono ricordare "Una mano di bianco" e "La brace delle parole". Ma parlare di letteratura non basta a rendere l'idea di un uomo così presente al suo destino come Cesare Vivaldi. Originario di Imperia, dove era nato il 13 dicembre 1925, si trasferì ben presto a Roma dove si laureò in lettere. Da subito, all'attività letteraria, alternò il lavoro giornalistico: prima fu cronista, poi redattore politico, poi finalmente critico d'arte. E fu proprio il Vivaldi critico a suggerire al Vivaldi poeta che "le componenti semantiche del discorso... devono essere l'una con l'altra non in un rapporto meramente logico sibbene nello stesso rapporto con cui il pittore astrattista e neo-informale dispone i suoi colori".
Antonio Debenedetti, Cesare Vivaldi. Il colore delle parole, Corriere della Sera, 14 gennaio 1999 

 







Chi l’ha sostenuto con maggiore decisione è stato colui che - almeno per i primi due terzi di questo periodo - tutti concordano nell’indicare come il primo motore tutt’altro che immobile: Plinio De Martiis. Nel grande catalogo della mostra curata nel ’90 da Maurizio Calvesi e Rosella Siligato, che della presente è antecedente diretta, Roma anni ’60. Al di là della pittura - catalogo che è anche una preziosissima fonte di dati e documenti -, colui che nel ’54 aveva fondato La Tartaruga a gran voce proclama (intervistato da Federica Pirani): «era una città diversa… se tu frequentavi certe gallerie, certi caffè e certe librerie incontravi tutto il mondo letterario e artistico. Ed era un mondo affollatissimo e vario, affascinante e fantastico come oggi non potete nemmeno immaginare. Oppure prova ad immaginare: insieme, nello stesso ambiente, de Chirico, Comisso, Ungaretti, Palazzeschi, De Pisis e Sandro Penna. […] L’intreccio tra poeti e pittori, tra musicisti, scrittori e cineasti è stato sempre talmente stretto, formando un tessuto così intricato, un humus così denso, che per forza qualcosa doveva ancora nascere».
Su questo un giovane scrittore che allora intensamente collaborava con De Martiis (assai di frequente di suo pugno, specie nei primi e ruggentissimi anni del periodo, le presentazioni ai cataloghi della Tartaruga), Cesare Vivaldi, ha un giudizio più cauto. Intervistato nel medesimo catalogo da Marco Di Capua, il quale gli chiede «chi s’incontrava, tra i miti letterari d’allora? Gadda…», Vivaldi risponde reciso: «Mai. La letteratura ufficiale ci era del tutto estranea. L’unico era Sinisgalli. Moravia quando mai, Pasolini mai. A quelli piaceva Guttuso, Vespignani. Ci arrabbiammo parecchio quando Schifano andò dietro a Moravia, la mondanità stupida. Là era scattata la molla degli interessi, conoscere contesse… Mancava una struttura morale adeguata». L’unica presenza che Vivaldi non si senta di obliterare (ma, già per le sue dimensioni, in qualche modo sempre tenuto a parte) è quella di Emilio Villa.
Andrea Cortellessa, Luna in polistirolo su Colosseo di plastica in «Roma Pop City 60-67», catalogo della mostra, Roma, MACRO, 13 luglio-27 novembre 2016, a cura di Claudio Crescentini, Costantino D’Orazio e Federica Pirani, Imola, Manfredi, 2016

Il “Gruppo ‘63”, nacque in una felice enclave culturale di sperimentazione e riflessione critica, testimoniata dalle tante riviste pubblicate <2 in grado di scompaginare quella società ritenuta appiattita in uno stato di letargico conformismo, e di cui proprio quest'anno ricorre il cinquantesimo anniversario della costituzione.
Vicino Palermo, all'hotel Zagarella, una trentina di giovani scrittori ed intellettuali, che si chiamavano Nanni Balestrini, Umberto Eco, Renato Barilli, Edoardo Sanguineti, Antonio Porta, assieme ai giovani “padroni di casa” (Michele Perriera, Gaetano Testa, Roberto Pagano, Francesco Agnello e Nino Titone), organizzarono, dal 3 all'8 ottobre dell'anno eponimo, quello storico convegno collegato alla quarta Settimana Internazionale di Nuova Musica con lo scopo di sviluppare linee alternative al linguaggio ormai superato del neorealismo e della poesia tradizionale.
[...] Non bastò a riscattare questo clima intorpidito la contestuale mostra Revort2, per la quale i curatori, Gillo Dorfles, Otto Hahn e Cesare Vivaldi, vollero allargare il panorama proposto oltre la Pop Art e dare più spazio alla rappresentanza locale <13, né la nascente stagione della Nuova Presenza, galleria multidisciplinare inaugurata qualche mese prima e punto d'incontro culturale, aperta da Francesco Carbone in via Enrico Albanese.
Forse la città bifronte, pur capace di grandi fughe in avanti, distratta da gravi problemi economici e sociali <14, non fece in tempo a capire quale occasione di riscatto, culturale e di riproposizione d'immagine, quegli incontri potevano rappresentare.
Per questo motivo la nostra Fondazione è stata invitata dal Comune di Palermo assieme al Conservatorio di musica "V. Bellini" e all'Istituto Gramsci Siciliano, all'organizzazione di un convegno dedicato a quell'esperienza brevissima che svegliando Palermo da una letargica catalessi culturale la rivelava come piccola capitale d'arte contemporanea.
2 - Tra le tante spiccano “Collage”, diretta da Nino Titone, “Il Verri”, diretta da Luciano Anceschi, “Quindici” diretta prima da Alfredo Giuliani e poi da Nanni Balestrini
13 - La rappresentanza locale contava Francesco Carbone, Bartolomeo Manno, Michele Canzoneri e Turi Simeti
14 - Erano gli anni delle bombe mafiose (a fine giugno dello stesso anno era esplosa la Giulietta dei carabinieri a Ciaculli) e del famelico “Sacco di Palermo”, perpetrato dalla nuova mafia ormai arrembata al Palazzo delle Aquile

Francesco Andolina, Il Gruppo '63: quando Palermo divenne capitale culturale, SalvarePalermo.it, n° 37, 2013

Durante i sette anni in cui "Collage" venne pubblicata, ci fu un avvicendamento tra gli autori coinvolti, pur mantenendosi costante la presenza di Carapezza e Titone, che dal numero 6 (1966) risultò direttore (General Editor) della rivista. Attorno ai due curatori si avvicendarono illustri critici d'arte: all'iniziale nucleo romano costituito da Calvesi, Ponente (presenti fino al numero 5, del 1965) e Rubiu, si unirono Cesare Vivaldi (dal numero 3-4, 1964), Mario Diacono, Otto Hahn, Manfred de la Motte (dal numero 6, 1966), Jasia Reichardt e Laurence Alloway (numeri 6 e 7), fino ad Achille Bonito Oliva (numero 9, 1968). Vi furono anche episodici interventi di Maurizio Fagiolo Dell'Arco, Gilio Dorfles, Filiberto Menna, Giuseppe Gatt. Anche il numero dei corrispondenti esteri si ampliò fino a dieci persone, col coinvolgimento, ad esempio, della gallerista Annina Nosei da Parigi, di Christian Wolff da New York e Edison Denisov da Mosca.
[...] "Collage" divulgò saggi, recensioni e approfondimenti su artisti stranieri, soprattutto americani e inglesi, come Joe Tilson, Roy Lichtenstein, Andy Warhol, Claes Olbenburg, Brett Whiteley (australiano ma residente a Londra), ma anche francesi (Martial Raysse e Daniel Spoerri, esponenti del Nouveau Realisme) e italiani come Pino Pascali, il gruppo della cosiddetta "Scuola di Pistoia" (etichetta coniata da Cesare Vivaldi proprio sulle pagine di "Collage" e comprendente gli artisti Barni, Buscioni, Ruffi e l'architetto Natalini), Mimmo Rotella, Mario Schifano, al quale fu dedicato un articolo sulle opere realizzate a New York a quattro mani col poeta americano Frank O'Hara (esposte alla Galleria Ferro di Cavallo di Roma nel 1964). In alcuni casi, come per Tilson, Raysse, Oldenburg, furono pubblicate loro testimonianze dirette.
Marina Giordano, 'Collage': un'esperienza di esoeditoria d'avanguardia nella Palermo degli anni Sessanta, TECLA, 2 - dicembre 2020, Palermo

Un altro poeta ligure, giovane e ancora privo di una significativa produzione dialettale, viene usato da Pasolini per introdurre la poesia emiliano-romagnola. Cesare Vivaldi è associato ai più moderni poeti dialettali, cioè a Dell'Arco, ai friulani, ad Antonio Guerra (oggi conosciuto come Tonino e noto soprattutto per il lavoro di sceneggiatore), che condividono con lui un legame con la contemporanea cronaca e l'impegno sociale.
Gesualdo Maffia, Pasolini critico militante. Da passione e ideologia a empirismo eretico, Tesi di laurea, Università di San Paolo del Brasile, 2018