venerdì 24 aprile 2020

Walter Benjamin a Sanremo



“Se qualcuno mi dicesse che la felicità è poter seguire, passeggiando e scrivendo, i propri pensieri in una località stupenda - e San Remo è veramente bellissima - senza essere tormentato dalle preoccupazioni quotidiane, ebbene, cosa gli dovrei rispondere? E se un altro mi si parasse davanti per dirmi in faccia che è ignobile e vergognoso annidarsi così nelle rovine del proprio passato, lontano da tutti i compiti, dagli amici e dai mezzi di produzione, a maggior ragione di fronte a quell’uomo tacerei imbarazzato”.  
Walter Benjamin

Una vista su Sanremo (IM) dalla Frazione Coldirodi

Walter Benjamin è stato anche un grande viaggiatore, e i suoi soggiorni nella stessa Sanremo ne sono la riprova. 
Questo ebreo tedesco perseguitato dalla sorte non ha smesso di porsi in viaggio con foga quasi forsennata, ritrovando presumibilmente in ciò lo spirito del senza “patria” e dell’ebreo errante disponibile alla dislocazione continua, sempre pronto a fronteggiare con il proprio nomadismo il pericolo cui sono esposte le minoranze. 
E d’altro canto la sua personalità offre al tempo stesso l’esempio di chi si sapeva mettere in viaggio restando memore della baudelairiana invitation au voyage, del partir pour partir [...]
Sanremo è una delle tante località italiane in cui lo scrittore berlinese ha soggiornato per periodi più o meno brevi: in particolare Capri, Napoli, Siena, Pisa, Firenze, Lucca, San Gimignano, Livorno, Perugia, Rapallo, Portofino, Marina di Massa, Volterra; senza parlare - poi - delle città da lui viste per così dire “al galoppo” durante il suo viaggio giovanile del 1912: Milano, Verona, Vicenza, Padova e Venezia.
A titolo di curiosità, si può ricordare che nella città di San Remo, da lui definita una volta “la più favorevole stazione invernale di tutta la Riviera” e successivamente una “località stupenda” in cui poter “seguire, passeggiando e scrivendo, i propri pensieri senza esser tormentato dalle preoccupazioni quotidiane”, Benjamin soggiornò dapprima proprio a “Villa Emily" (dal 29 ottobre 1934), poi all’inizio di novembre dello stesso anno all’“Hotel Paradiso", quindi nuovamente a “Villa Emily" dal 12 novembre 1934 in poi, finché optò - almeno a partire dal 10 dicembre 1934 sino a fine anno - per quella che nel frattempo era divenuta la pensione Villa Verde, situata in Via Hope 6, in origine legata alla “Società anonima Villa Verde", che si era costituita il 12 dicembre 1934 in Via Hope 2. Questa pensione era amministrata da “un direttore italiano” e dalla sua ex moglie Dora Kellner, figlia di Leon Kellner, celebre anglista e curatore degli scritti sionisti di Theodor Herzl, precedentemente sposata col giornalista Max Pollak e dalla quale aveva ufficialmente divorziato nel 1930 in seguito alla storia d’amore tra Walter e la regista russa Asja Lacis. 
La Villa Verde costituisce per il saggista berlinese un vero e proprio refugium, una sorta di Zufluchtsort a prezzi modici (in una lettera, Benjamin accenna al costo giornaliero di 20 lire di allora a persona), di cui è gratissimo a Dora.
Nel novembre 1934 così egli scrive a Max Horkheimer: “(…) Non posso che rallegrarmi del fatto che, avendo la mia ex moglie aperto una pensioncina sulla Costa Azzurra, mi si offre la possibilità di esservi ospitato per uno o due mesi. (…) Sono solo uno o due mesi che ho ancora dinanzi a me come una sorta di periodo di tregua”.
E non molto dissimili si direbbero i toni della confessione fatta all’amico Alfred Cohn nella successiva lettera del 19 dicembre di quell’anno.
Proprio in questa “pensioncina" che verrà dichiarata fallita il 30 settembre 1940 e di cui oggi non restano tracce, poiché al suo posto sorge ormai un moderno condominio (la “Residenza Villa Verde”), situato accanto al “Grand Hotel Londra”, egli conduce a termine - “al sicuro dietro i veli fluttuanti di depressioni più o meno persistenti” - alcuni lavori (in particolare il bel saggio su Johann Jakob Bachofen, il celebre autore del Matriarcato, e una lunga recensione del Romanzo da tre soldi di Brecht), corregge le bozze di Haschisch à Marseille e tiene contatti epistolari in particolare con i suoi grandi interlocutore Theodor Adorno, Max Horkheimer e Gershom Scholem (con il quale si scontra a proposito dell’interpretazione dell’opera di Kafka), ma anche con Marcel Brion, Fritz Ratd, Werner Kraft, Jean Ballard, Siegfried Kracauer, Gretel Karplus, Alfred Cohn, Marcel Brion, Karl Thieme Ernst Bloch e altri ancora.
Benjamin è ormai in esilio, e si trova sovente nell’indigenza, nell’“isolamento completo” (in balìa di quella “vollkommene Isolierung” di cui parla più volte nel carteggio), di fronte all’incertezza del futuro. Emergono in varie passi delle lettere sanremesi i temi - da un lato - del contrasto fra la bellezza del luogo e l’assenza quasi totale di risorse, e - dall’altro - della lontananza, tipica dell’esule, dalle persone care e dai libri.
La corrispondenza stessa diventa l’”unico legame con gli amici”.
A Villa Verde egli tornerà poi nel febbraio 1935, nel dicembre 1936, nel luglio 1937 e infine nel gennaio 1938. 
In questa stessa pensione troverà rifugio il loro unico figlio Stefan, che nel ‘38, quando le truppe hitleriane invaderanno l’Austria, riuscirà a fuggire da Vienna, dove sta studiando, e a raggiungere la madre, potendosi infine rifugiare all’inizio del ‘39 insieme a lei a Londra (dove Dora morrà nel 1964 e lui stesso nel 1972). [...]
Può probabilmente valere la pena ricordare che la stessa Dora, l'ex moglie di Walter, affermerà di aver dovuto lasciare - fuggendo dall’Italia nel 1940 - proprio a Villa Verde (se le si deve credere) “due valigie” (zwei Koffer) contenenti - come ella confidò a Scholem - scritti benjaminiani importanti, tra cui tutte le lettere inviate da Benjamin a lei stessa e il lascito del poeta F.C. Heinle, amico di gioventù dello stesso Benjamin e morto suicida. (Un particolare, questo, a cui hanno accennato anzitutto Rosemarie Heise e poi il compianto Gershom Scholem, al quale Dora stessa ne parlò nel 1946).
Va tuttavia aggiunto che i contenuti degli scritti perduti a Sanremo non si sono però purtroppo mai potuti chiarire con sicurezza. Il compianto Gershom Scholem, lo studioso di mistica ebraica amico di Benjamin, dopo aver assicurato di aver “tentato invano” di “chiarire la faccenda”, così si confidò in proposito nel 1977: "Fra il 1949 e il 1961 mi sono arrabattato non poco con Dora per chiarire questa faccenda di San Remo, alla quale lei forniva indicazioni quanto mai contraddittorie. Io ne ho potuto trarre soltanto una conclusione: che, nella faccenda, qualcosa non quadrasse".
[...] D’altronde - come confermato dal Console Britannico di Genova Mr. Jones nell’aprile 1977 - neppure l’Archivio del Consolato di Genova dispone di “dati che si riferiscono a quel periodo". Un fatto si direbbe assodato: nonostante la convinzione contraria di Mrs. Janet Benjamin (la vedova di Stefan, figlio di Walter e Dora), quelle valigie non potevano sicuramente comunque contenere i famosi Kinderbücher (libri per bambini) da Benjamin collezionati con tanta cura e attualmente visibili presso l’“Institut für die Jugendbuchforschung” [Istituto per la ricerca sulla letteratura infantile] di Francoforte, dato che - come precisato da Scholem - quei volumi “si trovavano presso Dora Benjamin stessa quando lei parlò delle valigie da lei lasciate a San Remo”, e di conseguenza “il loro contenuto non può coincidere con quello della Collezione di libri per bambini”, sicché “il mistero rimane”.
Non resta perciò che augurarsi che, in futuro, a qualche studioso arrida magari la fortuna di chiarire tale enigma e di imbattersi in preziosi inediti del sorprendente cronista e saggista berlinese [...]
dalla postfazione di Giulio Schiavoni, San Remo è veramente bellissima. Walter Benjamin tra Riviera dei fiori e resto d’Europa, in Paolo Veziano (a cura di), Sanremo, una comunità ebraica nell'Italia fascista 1937-1945, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 2007
 
Dopo aver abbandonato Ibiza nell'autunno inoltrato del 1932 Benjamin non si sentiva tranquillo e soprattutto riteneva che i suoi testi non fossero al sicuro. Evitava di uscire di casa. Si era trasferito a Parigi, in rue Dombasle. A chi lo incontrava in quel periodo appariva angosciato e furioso. Vi sono testimonianze che riferiscono del suo spasmodico attaccamento al baule. Non permetteva che alcuno lo sfiorasse. Preda di turbamenti si trasferì nuovamente a Sanremo, alla pensione della ex moglie. «Mi tratterrò per alcuni mesi sulla còte, qui oppure in Francia» scriveva a Werner Kraft, nel novembre di quell'anno. Il 4 aprile successivo si imbarcò di nuovo per Ibiza.
«Benjamin» racconta Selz «al porto di Barcellona, dove prese il battello per Ibiza, apparve con il suo baule. Era guardingo come se fosse inseguito. Mi confessò d'aver lasciato diverse carte in custodia alla sua ex moglie.»
Sull'isola abitò nuovamente nella piccola baia di San Antonio. In quella piccola casa, tutta bianca, calcinata dal sole, gli fece visita un'amica, accolta gioiosamente. Si trattava di Asja Lacis, cui Benjamin aveva dedicato un suo scritto: Einbahnstrasse. Asja Lacis, «una rivoluzionaria russa di Riga, una delle donne più eccezionali che abbia mai conosciuto... un'eccezionale comunista, che lavora nel partito fino dal tempo della rivoluzione russa», si trattenne nella casa della baia di San Antonio qualche giorno. Che Benjamin fosse innamorato di lei appariva chiarissimo. Furono anche visti seduti al caffè, quello sulla piazza di Ibiza, gestito dal barman Toni.
[...] In quel clima il mitico baule di Benjamin rappresentava una preda straordinaria: l'oggetto che poteva racchiudere tutti i segreti del mondo, che poteva accogliere i documenti capaci di far svelare il garbuglio di intrichi spionistici che avvolgevano l'Europa di quei terribili anni.
Fortunatamente alcune carte, forse le più importanti, sembra fossero state lasciate a Sanremo, a Villa Verde, dove lo scrittore tornò ancora nell'estate del '37, dopo altre peregrinazioni tra la Spagna e la Francia. 
«Guardo con ansia e preoccupazione al baratro dei prossimi mesi.»
Ma cosa conteneva il baule oltre l'Angelus Novus di Klee e il piccolo ritratto di Kafka? Benjamin lo aveva abbandonato, nascosto in qualche luogo già saccheggiato a Ibiza. Il baule era stato soltanto sconvolto da una curiosità insana, oppure erano state trafugate delle carte? Il luogo ove Benjamin poteva aver depositato il baule era verosimilmente Sanremo? È probabile.
Quando morì, la pensione era già passata in proprietà a Caterina Ameglio. Dora Kellner, l'ex moglie, aveva fatto un pacchetto delle lettere che gli aveva scritto Asja Lacis facendoglielo pervenire a Mosca, ove era riparata. Le altre lettere inviate a Benjamin devono considerarsi perdute? Egli non fornì nessuna spiegazione della sua improvvisa partenza da Parigi. «Non senza amarezza io mi piego all'infausta costellazione che sembra sovrastarci.» Anche le circostanze della sua morte sono rimaste a lungo oscure, e ancora oggi non si ha una conoscenza dei particolari. Theodor W. Adorno, in una lettera a Selz, scrisse: «Il giorno esatto della morte di Benjamin è impossibile da determinare con precisione; pensiamo che sia stato il 26 settembre 1940. Benjamin aveva attraversato i Pirenei con un piccolo gruppo di emigrati che speravano di trovare asilo politico in Spagna. A Portbou il gruppo fu trattenuto dalla polizia spagnola e fu comunicato che il giorno seguente sarebbe stato rispedito a Vichy. Nel corso della notte Benjamin prese una forte dose di sonnifero e la mattina seguente rifiutò con tutte le forze gli interventi che proponevano di effettuare per salvargli la vita». 
Dopo aver insistito ancora un poco, Caterina Ameglio confessa che un baule certo se lo ricorda, ma pieno di cartacce com'era non aveva suscitato l'interesse di nessuno. Come Juliana Bordereau, il personaggio di James che nel Carteggio Aspern si frappone alla ricerca delle lettere da parte dell'incauto biografo, confessa d'aver fatto bruciare tutto. Mi auguro stia mentendo.
Giuseppe Marcenaro, Passaporti. Un viaggio esoterico, Il Saggiatore, 2020

venerdì 17 aprile 2020

Tradizioni d'antan ad Airole (IM)

                                        
Airole (IM) - Santuario di Nostra Signora delle Grazie
                               
[...] Brani tratti da "Penna Vintimili" di Lorenzo Limon

Airole vanta anche a breve distanza dal paese un antico insigne Santuario [...]
nei due sfollamenti del paese ordinati durante la seconda guerra mondiale, la popolazione [... ] portando negli occhi e nel cuore la visione e il ricordo di Maria che nella terra dell'esilio veniva così pregata:
Dal tempio a noi vicino
Veglia sul paesel
Addita a noi il cammino
Che guida su nel Ciel.

E la Madonna li esaudì; tornata, la popolazione trovò il dolore e la miseria. Ma gli ulivi argentei, curvi come non mai sotto il peso dei loro frutti, diedero agli Airolesi la possibilità di risorgere. 


Spontaneo da ogni cuore sorgeva allora il canto riconoscente:
Del popolo di Airole
Sei vanto e sei l'onor
E' un popol che ti vuole
Patrona d'ogni cuor
.

Il gioco del pallone, di cuoio prima e poi di gomma, in voga ad Airole, non attecchì a Olivetta [Olivetta San Michele (IM), finitimo paese di Limon], malgrado tentativi, per la difficoltà di trovare luoghi adatti per giocarlo.



Ad Airole si prestava la vasta piazza contornata da alti fabbricati. C'era pericolo di fare dei danni, ma i giocatori avevano l'avvertenza di far gridare dal marcatore, prima di iniziare il gioco:
Segnure, seraive porta e barcun
che s'acumensa u giogu du balun

[Signore, chiudete porta e balcone, che comincia il gioco del pallone].

Tanto ad Airole quanto ad Olivetta era in uso, per parare il freddo il gioco del battimano, che consisteva nel battere ritmicamente con le proprie mani quelle di un altro giocatore, accompagnando talvolta i movimenti con la cantilena sulle streghe, che secondo gli Airolesi quando piove e insieme splende il sole fanno all'amore "ciove e luxe u sùe masche fan l'amù".
Era in uso la tombola. Ad Airole usavano pure i "birilli" e "la lippa ", i giochi con i soldi .
A Fanghetto andavano musicanti di Airole che traevano seco altri Airolesi che animavano il ballo.
Pantagruelico il pranzo che offrivano i miei parenti agli amici e ai congiunti intervenuti alla festa. Una pila di piatti indicava al commensale che li aveva davanti il gran numero delle portate.
Ogni piatto secondo l'uso del tempo era una portata.
Terminato il pranzo i giovani andavano in piazza a ballare, gli anziani si trattenevano a tavola a bere e a chiacchierare.
A sera inoltrata gli Airolesi lasciavano in massa il paese facendo ritorno per la strada rotabile alle loro case. E valle Roya eccheggiava la loro allegria.

Quanti miei ricordi si connettono ad usi e riti del paese dove sono nato e ho trascorso la fanciullezza! Le suggestive funzioni della Settimana Santa in Chiesa e sul sagrato.
Il baccano delle "tarabele", dei "pichetti" e delle "sgrisure", con i quali i ragazzi si baloccavano nel tempo in cui le campane erano legate, l'ascensione sul campanile a vedere come era fatto l'orologio, e come si faceva per le feste grandi a suonare insieme le campane, "a triunà".
Le gare per avere il cappello del padrino durante i battesimi all'entrata in chiesa, per tenerlo alla porta durante il rito e avere la regalia nel riconsegnarlo all'uscita.
I parapiglia per arraffare le "batesaglie" lanciate dalle finestre della casa allietata dalla nascita del bambino. 


I doni natalizi e Pasquali dei padrini e delle madrine di battesimo e di cresima ai figliocci; "u galetu" ai maschi a Natale e a "marieta" alle femmine, che erano dolci fatti in casa con farina intrisa nell'olio, spolverati di zucchero e picchettati con zuccherini, cotti al forno, figuranti alla lontana galli e bambole stilizzate; l'uovo sodo "grixurau" a Pasqua, colorato uniformemente o screziato facendolo rassodare in acqua con fondi di caffé o con erbe.
L'uovo si giocava in piazza battendolo con la punta su di un altro, perdeva quello che si rompeva. E con quanta attenzione bambine e ragazzi cercavano di colpire bene e di offrire ai colpi il minor spazio.
E prima di dare il colpo quante prove della resistenza dell'uovo sui denti!
Le scorribande nella Chiesa e nell'Oratorio, temporaneamente sconsacrati, alla ricerca di oggetti lasciati tra la paglia trita dai soldati che vi si erano accantonati per qualche giorno.
La gita estiva alla cappella di San Bernardo in margine dell'antica strada di Ventimiglia, per la sagra del Santo con la relativa pappatoia sull'erba dopo la Messa.
L'escursione annuale sull'"Arpe" a cercare "funsi e burei" [funghi e boleti]. 


La cerca del mosto durante la torchiatura delle vinacce. Andavo spesso a veder funzionare il torchio di mio nonno materno "Suttubarcun".
Arrivava il cercatore: "ghèren pe a geisa?" [c'è niente per la Chiesa?]. Ce n'era sempre per la Chiesa, una due o più coppe, secondo la qualità delle vinaccie torchiate. E con le coppe si empivano botti di buon vino.

Airole (IM) - Chiesa Parrocchiale dei Santi Filippo e Giacomo
Infine i "foghi da Madona" [i fuochi della Madonna] mi fan pensare "au fogu du Bambin", al falò della vigilia di Natale. Durante il giorno ragazzi e giovanotti in lieta gara raccoglievano quanti rovi, quante frasche, quanti rami secchi trovavano nelle campagne attorno al paese, li accumulavano in piazza vicino alla chiesa e la sera vi davano fuoco in segno di allegria per la venuta al mondo del Redentore.
Ad Airole le Confraternite erano due, dei bianchi e dei neri, dal colore del camice.
La Confraternita dei bianchi aveva sede nell'Oratorio di San Giovanni Battista, dove al tempo della mia fanciullezza si celebrava la seconda delle tre Messe Domenicali.

Airole (IM) - ex Oratorio di San Giovanni Battista
La gente gremiva l'Oratorio non solo, ma si addensava fuori della porta spalancata.
Il paese era allora molto popolato. Quando terminata la prima Messa, la gente sciamava dalla Chiesa Parrocchiale nella vasta piazza, quasi la riempiva. Ne approfittava il messo comunale per richiamare l'attenzione sulle carte affisse all'albo pretorio.
Dal fondo della piazza dove era l'albo "bateva a cria" [dava un grido].
Gridava previo squillo di tromba: "Segnuri, chi vo lese s'accoste, Ma gardai de nu rumpive e coste" [Signori, chi vuol leggere s'accosti, ma state attenti a non rompervi le costole].

Era un po' scettico il buon "Giacumin u pedun", postino oltreché messo della Comunità.

Nell'Oratorio molti andavano la mattina del Venerdì Santo, scalzi con una candeletta in mano, a baciare i piedi del Crocifisso esposto sul pavimento dopo aver compiuto uguale pietoso e devoto rito nella Chiesa Parrocchiale [...]


Lorenzo Rossi, Airole 500 anni. La storia di un paese nella cronaca di cinque secoli, Comune di Airole, Stabilimento grafico "Priamar" di Savona, 1998


domenica 12 aprile 2020

Cenni su Bordighera (IM) e Sanremo in un articolo di giornale inglese di gennaio 1922



San Remo e Bordighera. Una passeggiata sul mare

(dal nostro corrispondente)

Bordighera sorge appena oltre il confine italiano con la Francia e, se si è persa l'ultima coincidenza del treno, come non di rado avviene in questi giorni, per il vagabondo che vi si avventuri la strada litoranea potrebbe non essere agevole.
Ventimiglia dista da Sanremo poco meno di 20 chilometri ed unisce la vegetazione alpina con vista sul mare al clima tropicale: è come assaggiare una serie di piatti fuori stagione.
Molto indietro rispetto al confine si trovano Monte Carlo e Cap Martin, con i ricordi del soggiorno dell'imperatrice Eugenia.
Davanti al Mediterraneo, verso est, sul filo di tortuose scogliere s'incontra Ospedaletti e, dietro il promontorio, Sanremo, con la sua memoria del moribondo imperatore Federico.  Ogni hotel e villa della Riviera vanta il suo record di illustri invalidi. Siamo alla metà dell'inverno, eppure gli stretti crinali tra la montagna ed il mare sono verdi con palme trapuntate, eucalipti, pini, limoni ed aranceti.  Le margherite possono essere raccolte numerose come mirtilli in montagna. Le cime degli agrumi sono cariche d’arance  numerose come ghiande sulle querce. E i garofani rosa stanno iniziando a sbirciare, nonostante la siccità dei nove mesi precedenti.
La prima pioggia di benvenuto è arrivata la scorsa settimana, e in un attimo il grigio della siccità si è mutato in verde; nelle gole aride, i torrenti hanno iniziato a rumoreggiare fangosamente verso il basso,  gli abitanti, che hanno potato i loro olivi per far crescere i fiori per la fabbrica di profumi, sono molto più sereni.

Bordighera la città doppia
Bordighera è composta da due città: quella degli alberghi, le ampie strade, le palme e le pitture murali sgargianti, e l'alveare rigoroso che viene reso impenetrabile il più possibile al sole cocente ed ai rapaci Saraceni. Ogni strada è uno stretto corridoio di mattoni. Quelle secondarie sono tunnel e Piazza del Popolo ha l’aspetto di un’area infossata, a parte la magnifica angolatura che fa capolino nel Mediterraneo.
Il tutto è affastellato attorno alla vecchia chiesa oscura e sostenuto da contrafforti volanti e ponti ariosi: un vera e propria polizza assicurativa contro il terremoto. Ma non c'è nessuna difesa contro le onde che hanno recentemente distrutto  metà della passeggiata che porta al Casinò.
La città vive sotto l’euforia della colonia inglese, dei loro club e le chiese, i quotidiani di Londra ed un insopprimibile passione per il tennis.
Vicino al Casinò una chiesa in rovina nasconde la grotta di un eremita venuto dal mare, le cui reliquie sono state a lungo sottratte dai Sanremaschi. Al di là delle leggende metropolitane non si trovano boschetti di palme, poiché la località ha il privilegio papale di soddisfare le richieste, da ogni parte del mondo cristiano, la Domenica delle Palme. I ciuffi già selezionati sono stati legati strettamente nei mesi precedenti, come vecchi ombrelli da riparare, fino a quando non si colorano di un giallo ocra direttamente sulla cima dell'albero. 
Durante la Quaresima inizia la cerimonia della raccolta tagliandole nettamente.
La passeggiata verso est è sempre invitante. Mentre il sole tramonta le scogliere assumono una ricca doratura, mentre i sempreverdi, gli ulivi centenari, i cactus dall'aspetto assurdo diventano di colore sempre più cupo. È come esser in un meraviglioso paradiso, se non fosse per l'assenza totale di uccelli. 
Si vedono sciami di grandi api scure e di falene che silenziosamente si appoggiano sulle fioriture. Ancora una volta il mare blu ondeggia sullo sfondo di quei magnifici candelabri che sono le aloe. Il fico d'India, che si attacca come stuccatura colorata alla foglia madre, è comune quanto l'ortica a casa nostra. Sulle spesse foglie dall'aspetto di linoleum gli amanti incidono le loro iniziali e disegnano i loro cuori trafitti. Mentre ci si avvicina ad Ospedaletti il sole tramonta dietro una cascata d'oro. Si tratta di un'altra cittadina bassa con immensi hotel bianchi, dotati della luce elettrica, tavoli verdi e flora tropicale. 

La casa degli invalidi.
Appena girato l’angolo ecco San Remo, che vede addossati gli uni agli altri molti, e ville nascoste da ville. La Villa Mexborouglh, dove si tenne la Conferenza di pace, esibisce la Union Jack.
La presenza massiccia di stranieri è marcatamente segnata.
Chiese alte, basse e presbiteriane, occupano gli angoli più prestigiosi.
Esiste persino una Chiesa Russa in costruzione con minuscole cupole a forma di palloncino che si intonano bene con la strana flora della Riviera. Fermata a metà dalla guerra, è servita solo per il funerale e la sepoltura del re del Montenegro, e ora giace meravigliosamente desolata dietro un palizzata di filo metallico.
Questa parte della Riviera è la casa degli invalidi, dell'esilio e delle lacrime di tutti i popoli. I giovani e gli avventurosi preferiscono andare a Cannes e Monte Carlo.
Fatta eccezione per l'Hotel des Anglais, gli Hotel di San Remo sono tutt'altro che pieni. Forse hanno fatto pagare un prezzo esoso la scorsa stagione. Nel Casinò e nel Riviera Palace sono le giovani del posto che si divertono ballando con i giovani ufficiali italiani, mentre i villeggianti assistono o zoppicano, cercando di respirare alla luce del sole evanescente qualche ricordo della loro giovinezza perduta.

di Alfredo Moreschi

 

lunedì 6 aprile 2020

Cenni circa l'opposizione alla Grande guerra in provincia di Porto Maurizio


Un'immagine d'epoca di Porto Maurizio

[...] L'avvicinarsi della guerra determina nel Ponente ligure crescente tensione a causa della prossimità territoriale con la Francia. Il primo effetto che il conflitto sortisce in zona è costituito da un'ondata di rimpatri spontanei di emigranti italiani che affollano la stazione di Ventimiglia. La frontiera è permeabile e si tramuta in un'occasione ora di rientro, ora di fuga: ventuno richiamati della classe 1891 sono infatti arrestati mentre - passaporto alterato alla mano - tentano di passare il confine per sfuggire all'arruolamento. 

Subiscono conseguenze anche gli istituti di credito locali, i cui sportelli sono presi d'assalto dai contribuenti che reclamano il proprio denaro.
Un ulteriore prodotto dell'approssimarsi del conflitto è un aumento istantaneo del prezzo del pane.
Lo scoppio della Prima guerra mondiale e la conseguente dichiarazione di neutralità dell'Italia scatenano infine per l'allora Provincia di Porto Maurizio numerose preoccupazioni legate soprattutto all'esportazione.
[...]
I timori della Camera di commercio sono pertanto indicativi del danno potenziale che le contingenze internazionali possono arrecare all'economia del Ponente: Siamo in pace con tutto il mondo - non è a contare l'esercizio brillantissimo di tattica militare che le nostre valorose truppe esplicano giornalmente contro i ribelli in Cirenaica.  
La guerra però che si combatte in Europa, agisce come risacca nella vita economica del nostro Paese. 
È  tempo di avvisare a provvedimenti che non fermino le nostre industrie, arenino i commerci - anzi l'Italia deve trarre, anche colla sua marina mercantile, il maggior profitto della sua posizione di potenza neutrale 

[...]  Gli abitanti di Porto Maurizio ed Oneglia, a prescindere dall'appartenenza politica o dalla suggestione ricevuta dagli esponenti neutralisti, si mostrano nel complesso sfavorevoli all'intervento armato, soprattutto per le ricadute economiche che da esso deriverebbero [...]  

Concorre alla definizione di un'autocoscienza non interventista delle masse cittadine la conferenza  pubblica del deputato belga Giorgio Lorand ospitata al teatro Cavour di Porto Maurizio il 29 novembre del 1914.
L'affollatissima riunione conta fino a 2000 persone e vede il parlamentare denunciare i crimini perpetuati dai tedeschi nel Belgio neutrale.
L'appello finale è rivolto agli italiani affinché rimangano fuori della contesa armata o, ancor meglio, entrino in guerra contro gli Imperi centrali.
La cittadinanza vive dunque un momento di alta partecipazione, celebrato dall'esecuzione in teatro dell'inno nazionale del Belgio e dalla presenza di numerosi vessilli dei due paesi.
La conferenza termina con la ottoscrizione di aiuti economici a favore dei profughi belgi.
La visita di Lorand rappresenta in questo senso un momento centrale nel processo di maturazione del dibattito interventista [...] 

Nei primi mesi dell'anno 1915, tuttavia, la regia politica della protesta è ancora evidente agli occhi del prefetto Pesce, che in un telegramma diretto al Ministero dell'interno sottolinea come la direzione socialista locale stia tentando di uniformarsi alle disposizioni centrali, mettendo in campo una certa attività di propaganda contro la guerra, sostenendo la necessità per l'Italia nell'interesse del proletariato di non intervenire nell'attuale conflagrazione europea.

Si inserisce in questo contesto un piccolo tour propagandistico ad opera di Donzella e Gaglietto, i quali il 10 gennaio del 1915 si recano in diversi paesi dell'estremo ponente per diffondere l'idea della lotta alla mobilitazione armata. Con scarsa partecipazione di pubblico, i comizi raggiungeranno Bordighera, Soldano, San Biagio della Cima, Vallecrosia, Vallebona e Sasso. Ugualmente timida l'adesione a Poggio di Sanremo, Dolceacqua e Seborga.

Maggiore scalpore suscitano le conferenze dell'onorevole socialista Enrico Dugoni tenute ad Oneglia il 22 gennaio e a Sanremo il giorno successivo
[...] La seconda conferenza di Dugoni è invece ostacolata dai seguaci di Raimondo, che più volte impediscono all'oratore di esprimersi.
Questi ultimi organizzano un improvvisato contro-dibattito in cui le divisioni partitiche hanno la meglio sulle questioni neutraliste.

Chiude il lungo gennaio della contestazione un ciclo di appuntamenti a Porto Maurizio, Oneglia e nei borghi limitrofi, a riprova di una rete della protesta che è in questa fase organizzata su base provinciale, con pochi oratori cha a turno espongono le loro idee in diversi conte sti. Mario Donzetta e Andrea Bedini il 30 gennaio sono a Porto Maurizio per sostenere la tesi della neutralità assoluta e il dovere del proletariato di opporsi al conflitto in quanto foriero di rovina e miseria.
Il giorno successivo i socialisti sanremesi Andrea Carbone, Dino Taggiasco, Guglielmo Sacco e Gaspare Amoretti dichiarano la propria avversione alla guerra a Lingueglietta, Cipressa, Riva Ligure e Bussana.

Interessante l'appassionato discorso contro la guerra di un contadino di Civezza, Francesco Saglietto, che il 7 febbraio del 1915 si rivolge a uomini, donne e ragazzi del posto in un comizio improvvisato.
Quello stesso giorno la protesta torna ad accendersi ad Oneglia: nel teatro Umberto I, alla presenza di circa ottocento persone, si tiene la pubblica conferenza di Francesco Misiano sul tema Le ragioni socialiste della neutralità [...]   
Il comizio verte sulla contrarietà ad ogni ordine di spesa militare e si svolge senza incidenti, fatta eccezione per qualche vivace scambio d'invettive tra il relatore ed un gruppo di nazionalisti.
Riferisce sulla conferenza il giornale socialista La Lima, che esalta l'oratore per il suo eloquio così facile e persuasivo, dalla logica serrata, dagl'impeti così elettrizzanti mentre minimizza il ruolo dei quattro pagliaccetti nazionalisti che hanno tentato l'azione disturbatrice.
[...]
Fin qui defilato dalla propaganda attiva nell'onegliese, Giacinto Menotti Serrati torna nella sua città natale in febbraio e con l'occasione tiene due comizi: il 21 è atteso da oltre un migliaio di persone ad Oneglia per parlare di neutralità; il 26 replica a Porto Maurizio, in piazza della Posta [...]
L'opposizione al conflitto vede finalmente attivi anche i cattolici, i quali organizzano per il 14 marzo una funzione religiosa Pro Pace al santuario di Santa Croce del Monte Calvario che sovrasta una collina adiacente Porto Maurizio.
L'iniziativa è promossa dalla Confraternita della S.S. Trinità e si articola in una processione intorno al colle, seguita dalla messa solenne in una gremita piazza del Santuario.
Celebra il reverendo arciprete Osanna Tomasso, parroco della frazione di Cantalupo, il quale deplora gli orrori del conflitto ed esalta le opere della pace.
Il dato interessante è la partecipazione alla funzione del Circolo socialista locale, a riprova di una comunione d'intenti sovrapartitica.
Tale adesione è comunque criticata dallo scrittore Giovanni Boine, all'epoca bibliotecario a Porto Maurizio: in un articolo comparso sul giornale satirico "La Tiratina" del 20 marzo, il poeta si rivolge ai suoi concittadini con tono sar­ castico, affermando che «se la guerra ha da venire non c'è cristo che tenga».

Le disposizioni date ai prefetti del febbraio 1915 inibiscono le manifestazioni di piazza pro e contro la guerra [...] 

a scatenare quella che di fatto è la prima grande manifestazione di piazza contro la guerra delle popolazione  è un altro provvedimento del Governo che impone la produzione di un pane unico in quantità e qualità predefinite. [...] Per due giorni dal 25 al 26 marzo [1915] la folla presidia il municipio, fa la posta alle case dei personaggi politici più importanti e soprattutto blocca l'accesso ai molini [...]

Ad aprile si registra una dimostrazione interventista anch'essa dal carattere semi-spontaneo. Ad animarla sono gli allievi delle Scuole tecniche di Porto Maurizio che in occasione del Natale di Roma del 21 aprile 1915 sfilano per le vie della città ed inneggiano alla guerra. Entrati in contatto con un gruppo di socialisti, prima provano a fronteggiarli, poi si danno alla fuga  [...]

Si comincia con la Festa dei lavoratori, la quale fornisce il pretesto naturale per un'aggregazione dei socialisti. Sin dal mattino gli operai si impadroniscono di piazza Doria ad Oneglia e di lì sfilano per le vie della città in un corteo che vede in prima fila i loro figli.
L'intento è quello di mostrare la bellezza e l'innocenza di quella gioventù insidiata dalla guerra.
Una tessera commemorativa offerta ai manifestanti richiama l'allegoria del Sole del 1° maggio eclissato da una Morte alata i cui artigli brandiscono un teschio di soldato [...]
... Il sole del Primo Maggio non splende quest'anno in pieno, proiettando i raggi della sua chiara luce per ogni dove. È oscurato dall'ala della morte. L'eclisse parziale della guerra devastatrice offusca il nostro bel sole augurale. Ma passerà! I raggi avranno ragione della tenebra, l'aquila nera che cova sotto l'ali il teschio macabro della morte sarà dispersa, fugata per sempre; l'eclisse di quest'anno rimarrà un triste ricordo! [L'eclisse, 24 aprile 1915]
[...]
I neutralisti scendono in piazza ancora una volta in quelle che sono al contempo le ultime e le più grandiose manifestazioni di rifiuto della guerra nell'imperiese.
Si comincia il 7 maggio 1915, quando la partenza di alcuni richiamati dalla stazione ferroviaria di Oneglia fornisce il pretesto per l'organizzazione del dissidio da parte dei maggiori esponenti del Partito socialista e dalla Camera del lavoro. [...] I dimostranti si ritrovano al grido di "Abbasso la guerra, Viva la Rivoluzione" in piazza Doria, sede della Camera del lavoro. Proprio da un balcone della stessa iniziano a piovere oggetti di vario tipo, persino padelle.
La folla incalza i militari intervenuti colpendoli con pugni e sassi, costringendoli alla fuga.
Si forma un imponennte corteo che inizia a percorrere le vie della città.
Vengono percossi due interventisti, uno studente ed un orefice: avevano urlato «Viva la guerra» al passaggio dei dimostranti.
Intanto iniziano le prime partenze dei soldati, fatti che «esasperavano maggiormente la folla stessa, la quale - eccitata dai discorsi dei più violenti - non sapeva tollerare come i richiamati partissero nonostante l'opposizione dei socialisti» [dal prefetto di Imperia al Min. dell'Interno, 13 maggio 1915].
La moltitudine furiosa si reca nuovamente in piazza Doria dove Nino Bruno, eretto sul poggiolo della sede locale della Camera del lavoro, invita il corteo a disperdersi e comunica la nuova tattica: la partenza sarà impedita il giorno successivo facendo occupare i binari da donne e bambini, mentre gli uomini avrebbero tentato di distruggere il materiale ferroviario.

[...]
8 maggio, giorno in cui circa un migliaio di persone, fra cui trecento donne, si raduna in piazza della stazione allo scopo d'impedire con la violenza il proseguimento del treno dei richiamati. L'intervento tempestivo di un folto contingente di militari ostacola la realizzazione del piano eversivo: i binari sono sgomberi e i soldati possono partire. Ma la folla insiste [...]

è la prima volta che le forze dell'ordine sono costrette a contenere con la violenza una protesta contro a guerra ad Oneglia. La folla reagisce con una fitta sassaiola e alla fine si contano tre feriti e diversi arresti, tra cui quello di Carlo Spalla accusato di resistenza verso le autorità e vilipendio dell'esercito. 
Si decide dunque per un ultimo disperato tentativo di opposizione all'intervento: il successivo lunedì 10 maggio quasi 3000 lavoratori onegliesi scendono in piazza: aderiscono anche i portuali guidati da Dulbecco [...] rimane gravemente coinvolto il già citato Giacomo Molle, nazionalista di trentuno anni che aveva inveito contro i dimostranti. Quando questi si erano avvicinati a lui con le peggiori intenzioni, Molle aveva tentato di estrarre una rivoltella, ma un militare l'aveva prontamente disarmato. Aveva provato dunque a fuggire per sottrarsi al linciaggio, ma fu raggiunto e percosso a sangue. Il tutto avvenne davanti agli occhi delle forze dell'ordine che, vedendo sopraggiungere il malcapitato verso il cordone di sicurezza da essi composto, decidono di non scioglierlo, decretando così la sua malasorte. La Lima, che di quella protesta dipinge un affresco epico, si trova comunque in difficoltà nel giustificare un simile atto [...] 

L'11 maggio, per esempio, il negoziante d'olio Antonio Giribaldi di Oneglia guida una spedizione punitiva nel vicino comune di San Lorenzo al Mare dove alcuni intervisti locali stanno pranzando [...] 

L'attività propagandistica de La Lima contro l'intervento vede infine la pubblicazione di un minaccioso inserto al numero settimanale del 19 maggio. L'opuscolo CONTRO LA GUERRA [...]

Le affermazioni al passato dell'autorità prefettizia [comunicazioni al Min. dell'Interno] non sono casuali: quel rapporto è datato 30 maggio [1915], la guerra è stata già dichiarata e il neutralismo ha fallito.
[...]


di Graziano Mamone in Guerra alla Grande Guerra. La galassia dissidente tra Basso Piemonte, Liguria di Ponente e Provenza. 1914-1918, Saluzzo, Fusta, 2016


giovedì 2 aprile 2020

Lo zio Giovanni “Nani”



Il mio viaggio annuale in Piemonte era una sorta di regalo di Natale, anzi, il viaggio io me lo sognavo.
I giorni che precedevano la partenza, mia zia Petronilla (Pelilun) cucinava per ore, tra i fiori da portare ai fratelli dello zio ed ai morti piemontesi, tra i bottiglioni di olio che papà barattava in cambio di vino. Quel vino che quando lo zio lo fece arrivare a Pigna, nel suo ristorante “da Caterina”, mise a soqquadro le abitudini degli avventori, abituati come erano ad un vino leggero “a vigneta” come veniva genericamente definito quel vinello leggero ed aggiunto di acqua durante la spremitura, un vino per tutti i giorni: quello buono i miei concittadini se lo vendevano. Difficile era allora trovare del rossese o del vermentino nei locali pubblici. Tant’è che l’arrivo di quella Bonarda e e di quel Ciliegiolo spezzò le gambe a molti, abituati com’erano alla vigneta.

Lo zio grande bevitore e grande fumatore, due pacchetti di Gauloises senza filtro al giorno. Io in vita mia ho visto poche persone bere tanto e rimanere sempre sul pezzo. Loro i piemontesi, come affermava mio padre “i l’an in tu sanghe u vin”.


Lo zio era stato soldato sul finire degli anni trenta a Pigna, dove stazionavano a partire dal 1937 oltre cinquemila soldati e tanti altri erano dislocati sui nostri monti, da Gouta a Cima Marta.
Un pullulare di caserme e casermette dove giungevano da tutta Italia giovani uomini destinati a partire dal 1940 ai vari fronti, Greco, Albanese, tragedia immane del fronte Russo.

Lo zio Giovanni a Pigna vi restò, così come altri giovani militari.
Si sposò mia zia materna ed ebbe due figlie.
La prima figlia lo salvò, grazie alla prontezza ed al polso ferreo di mia zia, dal plotone di esecuzione nazista alla fine del 1944.
Quei giorni tristi di angoscia credo che segnarono per sempre la mia povera mamma, allora 17 enne che insieme alla zia conduceva l’osteria da “Baruffa” in piazza Colla.
Quei terribili momenti a partire dai giorni della Repubblica di Pigna a settembre sfociarono nel massacro di oltre 20 giovani pignaschi oltre ai terribili bombardamenti degli anglo francesi del dicembre del 1944.

Lo zio rimase piemontese fino alla fine dei suoi giorni, sia nella parlata che nei modi, oltre che alla sua idea di cucina.
Quella cucina patriarcale che aveva conosciuto nel Piemonte delle colline tortonesi era il suo imprinting: ricordo lo stoccafisso con le patate che la zia preparava, interi stocchi di Ragno che le recapitavano direttamente da Genova e che mia zia trasformava in una squisita buridda, senza eguali, o i suoi spezzatini, come diceva la mamma, senza limiti.

Lo zio amava il cibo come lo amo io. Credo che lui e la mia nonna paterna mi abbiano trasmesso quell’amore che nutro per il cibo. Le mie porzioni le devo alla memoria dello zio Nani, che per me rimase sempre lo zio, il mio secondo padre.

Quel viaggio era il compendio di tutto quello che io mi portavo dentro delle sue gesta, un viaggio senza tempo con la sua giardinetta, senza scadenze; la zia spesso lamentava allo zio la lentezza di quel viaggio, ma lui era la quintessenza della lentezza. Aveva i suoi punti di sosta scritti sul “navigatore” diremmo ora; uno di questi era ad Alassio, tra Laigueglia ed Alassio una fragile piazzola a lato dell’Aurelia, il mare di sotto e spesso una leggera brezza che ci annunciava la prossimità del vento che avremo incontrato nel savonese. Una sosta da vero gourmet, cesta di vimini, bistecche impanate, uova sode, fette di arrosto con tanto di sugo e le sue immancabili bottiglie di vino, scelte con una cura tutta piemontese: per l’occasione un bel fiasco che lui consumava durante il viaggio.

Era una festa quel viaggio che io agognavo quando si approssimava la partenza.

Era un'Italia che cresceva quella e la generazione di mio zio aveva dato tanto al nostro paese.
La Guerra prima e la ricostruzione dopo, anni di grandi sacrifici e di immancabile speranza per un bel domani di cui si immaginava non avvertire mai la fine....


Roberto Trutalli, Sindaco di Pigna (IM)