giovedì 29 agosto 2019

Il mare di Bordighera per me


Nuotando verso il largo, lentamente e con calma dosando le forze, mi faccio avvolgere da questo mare oggi calmo e limpido la cui sabbia si intravede ondulata dall'onda sul fondo a oltre dieci metri di profondità.
Passata la galleria del Tenda appariva la Val Roja che portava al mare. 
Era Liguria e nella mia mente, nonostante la distanza di decine di chilometri, improvvisamente la valle si apriva, sparivano alberi e rocce, vedevo Bordighera (IM), casa mia, la mia famiglia e il mare azzurro che mi aspettava come sempre.
Mare, ti ho sfidato tuffandomi nell'incavo dei tuoi marosi mentre ti infrangevi a riva. 



Ho amato i tuoi fondali che conoscevo centimetro per centimetro dal San Marco a Sant'Ampelio. Gli anfratti dei tuoi scogli, cercando invano di prendere con la fiocina prede che regolarmente mi sfuggivano. 

Tu custode della mia storia, io spettatore passivo e vile del tuo degrado.
Non mi hai mai tradito e mi hai fatto sognare guardando per ore il tuo orizzonte.
Oggi che sono tornato a te in questi giorni ..., qui al largo mi abbandono immobile cullato e sostenuto dalle tue onde e grazie a te ritrovo la pace con me stesso e con il mondo. 
Non ti crucciare, se adesso allungo il braccio a cercare la mano di Emilia che nuota accanto a me, e trovandola intreccio le sue dita stringendole. 
Lo sai che questi due amori correranno paralleli per sempre.

di Giuliano Desanti


giovedì 22 agosto 2019

L'arrivo della luce elettrica a Pigna (IM)

Pigna (IM)

Mia nonna Petronilla Ferrero, classe 1886, mi raccontava: “Ricordo che la Chiesa era piena, era la sera della Messa del Natale del 1901, tutti erano in attesa della luce, erano giorni che se ne parlava in paese, mia madre mi diceva che era una di quelle diavolerie dei tempi di oggi, ma noi giovani, avevo 15 anni, eravamo affascinati dall’idea di vedere la nostra Chiesa illuminata. La via di accesso era illuminata alla belle e meglio, cuori di larice (tea) ardevano e segnavano il tragitto tutt’intorno alla Chiesa e la maggioranza della gente si spostava con la lanterna ad olio. Quando avvenne l’accensione vi fu una ovazione unica, profonda, non ci si poteva credere, altro che diavoleria, era la nostra Chiesa che avvolta nel buio si rivelava alla luce elettrica più bella che mai”.
Pigna si dota della luce elettrica molto presto: Marcello Grillo (Marcé) aveva sposato la figlia del prefetto di Cuneo, che aveva portato in dote 300.000 lire. Marcello investì quei soldi nella costruzione della prima centrale elettrica di Pigna: una delle prime in Liguria. Siamo nel 1901.
La centrale era adiacente al torrente, in corrispondenza della casa di Minico U Cioca al bivio di Gouta. Nel 1925, a causa di un ingrossamento del Nervia e di una frana, che aveva portato via il canale d'acqua che alimentava la turbina, la centrale venne spostata più a monte, dove si trovava già la segheria ed un frantoio di Giacomo Manesero.
In un primo tempo Marcello aveva previsto di fornire energia elettrica, oltre che a Pigna, anche a Isolabona ed a Apricale. Tuttavia, nel 1927, Marcello, che aveva due figli impiegati in altre attività e che non avevano intenzione di rilevare la Centrale, la vende per 60.000 lire a Giacomo Manesero. Il frantoio ed i suoi macchinari vengono trasferiti a Lago Pigo, nel frantoio dei Manesero (Antonio). [dalla testimonianza di Giulio Manesero del 2002]
Nel 1901,  mese di ottobre, Festa di S. Tiberio, la prima comparsa in casa del Sig. Marcello Grillo in Corso de Sonnaz della luce elettrica. Dicembre 1901: festa solenne di Natale. Alla messa di mezzanotte al Gloria compare per la prima volta la luce elettrica in chiesa e nei principali posti del paese. 1902, gennaio: collaudo con l’intervento del Sottoprefetto di Piero Gagliardi, con altri personaggi del Consiglio di questo Comune in casa di Antonio Toesca.
[dal diario di Lodovico Rebaudo, mio nonno]

A Buggio [Frazione di Pigna (IM)] la centrale elettrica venne installata nel 1928. Un pilone è ancora visibile. Un farmacista, Giovanni Pastor, il finanziatore di questa centrale.

di Roberto Trutalli, Sindaco di Pigna (IM)


mercoledì 14 agosto 2019

Il rastrellamento tedesco in Valle Arroscia dei primi di agosto 1944

Il comandante partigiano Silvio "Cion" Bonfante
 
Alle tre del mattino del 2 agosto 1944 la cresta della montagna che si estende dal Pizzo d'Evigno al Pizzo della Ceresa, ancora in ombra, emerge netta sullo sfondo del cielo chiaro e stellato.
Ad un tratto, un bisbiglio di pronuncia straniera giunge all'orecchio di Albino Biga della banda di Roncagli, accovacciato in un cumulo di fieno nei prati di "Scornabò".
Alzata la testa ancora piena di sonno e volto lo sguardo verso la cresta, ad una ventina di metri scorge le ombre di una lunga fila di uomini sagomate contro il cielo, che gesticolano verso il fondo valle. I Tedeschi, pensa. Ma no! Non può essere, altrimenti i partigiani accampati ai "Fussai" lo saprebbero.
Il S.I.M. li avrebbe informati di un probabile rastrellamento. Saranno i disertori polacchi unitisi ai partigiani, che stanno per trasferirsi in Valle Arroscia. Infatti, il giorno precedente gli uomini di "Mancen" [Giuseppe Gismondi, pochi mesi dopo comandante della I^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Silvano Belgrano" della Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] a Borello, a Borganzo, a Roncagli, ad Arentino, ed a Evigno, avevano preso in prestito dai contadini una trentina di muli per il trasporto degli equipaggiamento.

Albino, che nella penombra osserva ancora, ad un tratto intuisce che le ombre sono veramente soldati tedeschi che stanno per iniziare il rastrellamento.
Con movimenti impercettibili riesce a raggiungere l'oscurità del bosco sottostante. Scivola rapido tra gli sterpi ed i cespugli di un ruscello, si avvicina, giù in basso, al casone dei "Fussai" dove sono accampati e dormono i partigiani della "Volantina"; della presenza tedesca avvisa la sentinella che attizza il fuoco sotto la marmitta del caffè e che, disgraziatamente non crede alla notizia, poi scende rapidamente le scogliere del "Negaesso" e si rifugia in inaccessibili tane insieme ad alcuni compagni. Altri contadini che, in piena fienagione, stavano dormendo per i prati, sono protagonisti dello stesso episodio, tra cui la ragazza Lucia Ardissone che, dopo una corsa di qualche chilometro per la montagna, riesce a mettere in allarme una decina di giovani di Roncagli che stavano riposando in una baita in località "Pian della Chiesa". Appena vi giunge, tutta la vallata già rimbomba di scoppi di bombe a mano, colpi di fucile, raffiche di mitragliatrici. 

I soldati tedeschi giunti nella notte dalla Valle Impero, dalla Valle Andora, dalla Valle Steria, dal Passo della Colla, dal Monte Ceresa, dal Colle del Lago e dal Monte delle Chiappe, scendono a valle. Alle sette del mattino i borghi di Evigno, Arentino, Roncagli e Borganzo vengono investiti e saccheggiati. Con qualche masserizia e col bestiame, gli abitanti fuggono disperati per tentare di nascondersi nei rifugi della campagna. Intanto i grandi stormi di fortezze volanti americane attraversano il cielo, lasciando lunghe strisce bianche. Il rumore assordante prodotto dai motori degli aerei fa vibrare il terreno, in modo insopportabile si ripercuote nelle tane costruite nelle fasce ulivate.
Ogni cespuglio del torrente Evigno viene battuto da raffiche di mitra e bombe a mano. Chi vi si trova nascosto prova momenti di indescrivibile terrore.

L'attacco del 2 agosto 1944 alla “Volantina” nella valle di Diano Marina, con il rastrellamento tra il Merula e l'Impero, e la marcia della colonna nazifascista, che pervenuta da Garessio (CN) si arresta ad Ormea (CN), vanno intese come operazioni preliminari al vasto rastrellamento vero e proprio.

Il piano del Comando tedesco prevedeva azioni su un territorio molto ampio. Infatti i contingenti
militari partirono da direzioni notevolmente distanti l'una dall'altra: Garessio-Ormea, Albenga SV), colle San Bartolomeo. Sono toccate ben tre province (Cuneo, Savona, Imperia) e due regioni (Piemonte e Liguria).
L'obiettivo è importante ma, nell'agosto, il fine si presenta più limitato rispetto al precedente mese di luglio, risultando ormai ben difficile l'eliminazione totale dei garibaldini della I^ Zona Liguria.
Perciò il grande schieramento di forze è rivolto ad ottenere il controllo di alcune vie di comunicazione.
I tedeschi, dopo aver operato le marce di spostamento ed essersi assicurati il controllo della Statale n. 28 per il tratto che va dal litorale al Colle San Bartolomeo, iniziano il giorno 9 o il 10 (a seconda della provenienza delle diverse colonne) le operazioni di rastrellamento.
L'epicentro dell'azione è Caprauna (CN), paesello ubicato nel cuore del territorio da accerchiare su cui convergono da ogni direzione, a raggiera, numerose vie di comunicazione; ma il primo obbiettivo nazista è l'occupazione di Pieve di Teco (IM).

Su questa località si dirigono le tre principali colonne accerchianti.
La prima parte da Ormea (CN), dove era giunta per mezzo di un treno che era stato attaccato dai partigiani appostati sulla riva destra del Tanaro (nel corso dell'operazione erano state divelte in parte le rotaie della strada ferrata, ma le carrozze non si erano rovesciate); da Ormea si avvia per la statale a Case di Nava e scende a Pieve di Teco (IM).
La seconda proviene da Albenga (SV), percorre la carrozzabile, ed a sua volta si ramifica in due colonne: una raggiunge Nasino (CN), Alto (CN) e punta su Caprauna (CN); l'altra prosegue lungo la strada per Borghetto di Arroscia (IM) e si inoltra a Pieve di Teco.
La terza infine, proveniente dal litorale, parte da colle San Bartolomeo e procede lentamente e in maniera molta guardinga per il timore di imboscate lungo la Statale n. 28 fino a Pieve di Teco e, verso mezzogiorno, entra nel paese, malgrado la resistenza opposta dal distaccamento di “Orano” presso villa Baraucola. Durante il percorso il grosso della truppa è preceduto da pattuglia di avanguardia che, passando, provocano vasti incendi che sprigionano alte colonne di fumo. Il comando tedesco ha ormai racchiuso il territorio della I Brigata in una grande sacca e si appresta a sferrare l'attacco decisivo per eliminare i partigiani circondati.

Il comando garibaldino, però, essendo già stato informato dal giorno 5 del prospettato rastrellamento nazista, pur senza conoscerne la data esatta, aveva provveduto ad avvertire le formazioni dipendenti del pericolo, prendendo misure di immediata difesa, sicché era venuto a mancare ai tedeschi il vantaggio del fattore sorpresa. La sede del comando della I^ Brigata, con perfetta scelta di tempo, dopo l'occultamento del materiale e dei documenti delle formazione, si era trasferita da Pieve di Teco a Moano (Frazione di Pieve di Teco in Valle dei Fanchi). Anche l'ospedale civile era stato evacuato, con la messa in salvo dei partigiani malati. La “Matteotti”, che da Lovegno seguiva i movimenti dei Tedeschi, invia staffette per avvisare le altri formazioni del pericolo imminente.

Nella notte tra il 9 e il 10 di agosto Silvio Bonfante (Cion) attacca i tedeschi a Pieve di Teco; poi si sposta verso Madonna della Neve dove poco tempo prima si era portato “Pantera” [Luigi Massabò, in seguito vice comandante della VI^ Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] con i suoi uomini e, sulla dominante vetta del Frascianello, aveva trovato la Matteotti. “Pantera” prima dell'arrivo di “Cion”, aveva rivelato alla “Matteotti” i suoi propositi di forzare l'accerchiamento nemico per cercare la salvezza nel bosco di Rezzo, ed a tal proposito aveva chiesto l'autorizzazione del Comando, ma gli era giunto l'ordine di non muoversi, di restare a presidio del luogo e di mandare pattuglie di sorveglianza alla carrozzabile Pieve di Teco-Moano [Frazione di Pieve di Teco (IM)]. Non si sa se l'ordine fosse impartito senza un'esatta cognizione della vastità del rastrellamento o se si intendesse effettuare l'attacco in un unico punto dell'accerchiamento nemico, dal quale passare tutti insieme dopo aver evitato dispersione di forze, maggiori rischi e perdite di vite umane. Successivamente per mezzo di staffette “Cion” ordina a tutti i distaccamenti di portarsi immediatamente verso Case di Nava.

Oltre al Comando della I^ Brigata ed ai distaccamenti “Volantina” e “Matteotti”, si trovano nella zona le formazioni comandate da “Pantera” [Luigi Massabò, in seguito vice comandante della VI^ Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"], “Orano”, “Renzo”, “Vittorio”, “Battaglia” e “Domatore”.

All'alba del 10 di agosto 1944 i tedeschi chiudono la sacca addentrandosi nel centro del territorio.

La colonna nazista dell'Alta Val Tanaro scende in direzione quasi parallela alla statale; altre due, partite da un unico punto dalla medesima strada equidistante da Ormea e da Case di Nava, si inoltrano anch'esse verso sud, nel cuore del territorio della I^ Brigata; una colonna da Armo (IM) punta a nord; una da Ranzo (IM) tende a Gavenola [Frazione di Borghetto d'Arroscia (IM)]; un'altra ancora da Pieve di Teco oltrepassa Lovegno [Frazione di Pieve di Teco (IM)]; ed infine una da Vessalico (IM) punta su Lenzari [Vessalico (IM)] e si avvia a Madonna della Neve. Nel pomeriggio del 10 vi fu tutto un dilagare di Tedeschi, in ogni direzione, in ogni paese e frazione e anche presso case sparse e sulle mulattiere.
I luoghi, che poche ore prima erano stati le sedi dei garibaldini, ora sono investiti dall'ondata nemica.
I partigiani per vie dirupate e sentieri da capre, attraverso boschi e crinali, devono operare complicate deviazioni per sganciarsi dal nemico. “Cion” da Madonna della Neve giunse a Case di Nava [Pornassio (IM)] con altri distaccamenti, attaccò decisamente i Tedeschi di presidio (circa una trentina), li disperse e riuscì in tal modo ad aprire un varco nell'accerchiamento.
La “Matteotti”, invece, dopo una lunga marcia, riuscirà ad oltrepassare il Tanaro presso Eca Nasagò.

Ma non tutte le formazioni fanno in tempo a sganciarsi: quella di “Battaglia” resta ferma, o quasi, tra Gavenola e Leverone [Frazione di Borghetto d'Arroscia (IM)], mentre quella di “Renzo” si occulta nei boschi dell'alta Val Pennavaira.
Il giorno seguente, 11 agosto, prosegue ancora il rastrellamento, ma poi verso sera si estingue. Le perdite garibaldine non sono lievi: alcuni partigiani sono stati catturati ed uccisi, tra cui il comandante Giuseppe Arrigo (Orano).
I tedeschi non hanno conseguito risultati di grande rilievo. Hanno commesso gravi errori nel corso dell'operazione. Primo fra tutti, l'aver rinforzato eccessivamente le colonne rastrellanti a scapito di quelle d'accerchiamento. Altri gravi errori sono stati lo sgombero notturno di paesi e passi e l'aver presidiato tutti i ponti sul Tanaro il giorno 11, anziché il 10. La disposizione del presidio di Case di Nava ed il passaggio della “Matteotti” attraverso il ponte sul Tanaro rivelano infatti l'imperfetta riuscita dell'accerchiamento e la precarietà della sorveglianza notturna.

Il vantaggio ottenuto è il controllo della Statale n. 28, d'altronde quasi impraticabile per i ponti distrutti dai partigiani. Questi, infatti, per la ragione opposta che ha spinto i tedeschi alle azioni militari per il controllo delle vie di comunicazione, proseguono la battaglia dei ponti per impedire il libero transito ai nazifascisti. L'opera di ricostruzione o riparazione, lunga e non agevole, sarà continuamente ostacolata e ritardata dal sabotaggio dei partigiani. Dal resto, ormai la Resistenza è diventata esperta nella guerriglia e sa parare ogni colpo, affrontare ogni mezzo nemico, sfuggire un attimo prima, passare un attimo dopo il passaggio del nemico. I distaccamenti possono frazionarsi in squadre e nuclei ed in singoli uomini e, in seguito, ricostituirsi in breve tempo, come per magia.

Il partigiano, ora, sa occultare il materiale, salvandolo dalla furia dei nazifascisti, prevedere l'immediato futuro, dosarsi le forze per tutte le stragrandi difficoltà dei momenti peggiori. Egli sa tendere ad un luogo di salvezza valutando gli eventuali pericoli che potrà incontrare lungo la via, sa vegliare tutta la notte, digiunare a lungo e camminare senza posa, riposarsi due ore per riprendere il cammino; conosce la necessità del sangue freddo nelle occasioni più difficili e pericolose, sceglie il momento adatto per rispondere al fuoco dalla posizione migliore; è più veloce, agile e spedito dei tedeschi incolonnati e timorosi dell'agguato, carichi d'armamento pesante, guidati dalle carte, ma ignari dei sentieri, delle curve, della presenza partigiana. I patrioti procedono per luoghi impervi, informati dalla gente della presenza o vicinanza nemica o del viottolo che offre salvezza.
Immancabilmente, poco tempo dopo ogni grande battaglia o rastrellamento, le formazioni garibaldine ritornano nella zona occasionalmente abbandonata.

Gino Glorio (Magnesia) [già amministratore della Divisione d'assalto Garibaldi "Silvio Bonfante], Alpi Marittime 1943/45. Diario di un partigiano, Genova, Nuova Editrice Genovese, 1979-1980



giovedì 8 agosto 2019

Una nevicata di Philadelphus


Se non si ha fretta a volte i sogni si avverano.

La neve, per noi bambine della prima metà del secolo scorso, era l'annuncio di una catastrofe.
La gelata del 1956, che infierì con crudele spietatezza (1), rimanendo per molti giorni sulle coltivazioni, lasció nella mente dei vecchi un segno indelebile.
La perdita di numerose piante di agrumi e danni alle coltivazioni orticole fu pesante.

Pertanto la calamità, di cui temere anche al minimo accenno di innocui fiocchi di neve, faceva sentire noi colpevoli della gioia, che ci dava quella insolita coltre bianca in cui giocare.
Una sensazione che non ci avrebbe mai abbandonato.
Adulte avremmo detestato quel pericoloso nemico.

La neve si rifece viva nel 1985 in maniera ancora una volta recando i temuti danni.


L'ultima nevicata del 2018 ci avrebbe visto come forsennate scrollare i disgraziati vegetali dei nostri giardini sommersi da quel pesante flagello. 

Irriconoscibile, ma come non apprezzare sui rami la magia dei fiocchi caduti con abbondanza.
Non casualmente in letteratura si scrive del Mago Gelo.
Un giardino domestico trasformato in un bosco sconosciuto.
Ci fu qualche morto, ma non fu una ecatombe: era bastato vietare l’ingresso alle piante esotiche provenienti da paesi dove la neve non cade mai.

Vecchia ormai, in primavera posso finalmente godere con gioia la nevicata del Philadelphus coronarius, che lascia cadere i suoi petali dai quattro metri della sua altezza sul sentiero sotto casa.
La meraviglia si ripete ogni anno con puntualità senza danno alcuno.

 
(1) Gris de lin si riferisce al ponente ligure

giovedì 1 agosto 2019

Sull'immagine di Sanremo (IM) tra Otto e Novecento

Pescatori in Arziglia di Bordighera (IM) - Foto di J. Kleudgen in Archivio Catania-Ronco di Bordighera (IM)
 
... rivoluzione avvenuta tra Capo Nero e Capo Verde nel 1872, quando Sanremo (IM) riacquistò, in pieno, un agevole contatto con il resto del Mondo.
Quello parziale era già arrivato poco prima del 1830 con il completamento della Genova Nizza accompagnato dal traballio delle prime diligenze.
Il porto di Sanremo nel 1890 - Archivio Moreschi
 
Sino ad allora, l’isolamento era stato solamente attenuato dalle feluche e dagli schooner, ad uno o due alberi, adibiti al trasporto di merci e persone a filo di costa; Infatti, l’antica bigostrada Julia Augusta era franata assieme all’impero Romano. 
Per 1500 anni circa, fu percorribile solo a 2 piedi, o 4 zampe esperte, dai transitanti di allora: in genere, pellegrini per Roma, commercianti o dalle prime schiere dei granturiani. 
Nel porto di Sanremo trovavano precario riparo un’ottantina di piccoli velieri, una flotta che può apparire sopravvalutata, rispetto ad una popolazione che superava di poco i diecimila abitanti, almeno sino al 1798, quando, uno dei più attivi fabbricanti di morti dell’epoca non la requisì interamente per una “spedizione d’Egitto”, dalla quale tornarono pochi legni (4 per la precisione) ed alcuni marinai.
L’elevato numero di imbarcazioni, in gran parte costruito sul posto da maestri d’ascia locali, era assorbito dal trasporto della qualificata produzione di agrumi che aveva promosso Sanremo come uno dei centri di eccellenza del settore.
Furono gli ampi sbuffi aerei del primo locomotore a consentire alla città di competere alla pari con altri centri italiani, e non, nella conquista della crescente massa di viaggiatori che si stava muovendo alla ricerca di un piacevole soggiorno verso il solare meridione. 
Per la verità, nei decenni precedenti, qualcosa aveva cominciato a muoversi da queste parti con l’arrivo degli inglesi,  autori di una solida testa di ponte di residenti invernali nel Nizzardo, in rapido allargamento anche alla nostra zona. Ma il destino, o meglio la Storia, riuscirono a pregiudicare la favorevole occasione con lo spostamento del confine dal Var a Ponte San Luigi.  Il motivo era lo stesso che vide soccombenti i nostri floridi agrumeti ponentini alla concorrenza siciliana: l’Unità della Nazione! 
Era vitale, perciò, salire sul primo treno in transito…
Riemergono [oggi] album, ritagli significativi dei bisnonni degli attuali media, icone dimenticate, alcune addirittura ritrovate in una discarica come l’immagine di Bastianello, un Carneade a pedali, idolo del Velodromo della Foce e partecipe del gruppo ideatore della Milano-Sanremo.
Molti e significativi frammenti li restituisce a caro prezzo la Rete delle Reti, portati un secolo fa al di là dell’Oceano da sconosciuti ospiti dell’ancora spezzato  toponimo San Remo, dalle insegne polilingue e dalle sette Chiese a rito ineguale.
Ne sono esempio probante la Zarina Maria Alexandrova ed il non ancora Kaiser Federico Guglielmo III, venuti da queste parti a trovare sollievo climatico alla loro cagionevole salute.
Il soggiorno di quest’ultimo Grande della terra d’allora, delle due figlie e della moglie, figlia della Regina Vittoria d’Inghilterra, ebbe un riscontro massiccio sulle prestigiose riviste quindicinali. Doverose, ma poco esaltanti erano le notizie e le xilografie sul soggiorno dell’illustre malato: le pagine, quindi, si mostrano zeppe di più digeribili aspetti di vita locale, allietate da splendide stampe sul folklore ed il lavoro degli indigeni.
L’ampia raccolta di queste riviste si è rivelata essere, nei fatti, un lungo battage pubblicitario, mai più replicato nella storia di Sanremo come intensità e, soprattutto, come mira del target. Soprattutto se si considera quali fossero i ricchi destinatari, affetti dal cosiddetto mal sottile, di queste pubblicazioni diffuse, ma assai esclusive.
Molte immagini le hanno prodotte i proto-fotografi ottocenteschi locali, i cartolinisti ed i professionisti italiani e stranieri impegnati nell’illustrazione;  anch’essi erano giunti da noi al seguito dei flussi crescenti di residenti invernali.  Benché non si trattasse ancora di reportage, inteso nelle forme attuali, ne di fotografia di indagine sociale, esse documentano con precisione costumi, ambienti, attività della Liguria di allora.
La cospicua  ed elegante produzione del nizzardo Jean Giletta, le vedute del sanremese Domenico Mansuino o quelle esposte negli atelier di Scotto padre e figlio, dei nascenti archivi nazionali di  Alinari o Brogi, rispondono alla richiesta crescente di icone-ricordo, a volte rilegate in pesanti album, che gli stranieri intendevano portare a casa per prolungare la memoria del soggiorno.
A questi nomi vanno aggiunti quelli altri autori, solo per sottolineare il loro maggiore impegno e maturità nella descrizione delle popolazioni e delle situazioni locali.  Sono Alfred Noack, autore di serie dedicate ai pescatori di Arziglia a Bordighera, oppure Pietro Guidi che ricostruisce nel suo studio aspetti ed attività di popolani e dà vita, in collaborazione con il Dottor Francesco Panizzi, al primo erbario fotografico della storia, dedicato alle “piante più peregrine del luogo”.
Il periodo della formazione del nome di Sanremo e della nascita del turismo coincide, inoltre, con gli anni in cui la macchina fotografica, resa tecnicamente accessibile a tutti, si sostituiva ai pennelli o alle matite colorate, al blocchetto di fogli da disegno nel ritrarre i luoghi della vacanza da ricordare.  Il tutto insaporito dalle pagine di cronache scritte da ardimentosi viaggiatori come Tobias Smollett, le vicende e le tardive riconsiderazioni, “obtorto pollo”, narrate da Giovanni Ruffini, i testi medici e comportamentali di Onetti, Panizzi ed Hassal, il saggio sociologico-naturalistico di Comeford Casey, intitolato Riviera Nature Notes (Agrestia ligustica); tutte pubblicazioni di rilievo utili per inquadrare il fenomeno sotto gli aspetti climatici e di rigenerante occupazione del tempo libero dei soggiornanti.
Si aggiunga, ma si faccia anche precedere, la marea di guide in diverse lingue a far da specchio ai cambiamenti ambientali ed economici della zona in pieno e rapido risveglio; che si apre totalmente rispetto ad un mondo che aveva  cominciato a viaggiare in massa e non solo per spirito d’avventura o di commercio.
Sanremo, scattata in grande ritardo rispetto all’ex Italia sabauda commutata dai trattati in Francia meridionale, limitatamente al periodo iniziale che esamina la Mostra, compì uno straordinario balzo in avanti per inserirsi nel gruppo di testa delle località al passo coi tempi nella nuova filiera del turismo residenziale, rompendo il plurisecolare isolamento.
Le immagini fotografiche segnano molti di questi momenti ed il loro insieme, sottolineato dalla muta colonna sonora dei documenti esposti, intende proiettare il film girato in quegli anni da queste parti; interpretato da masse di uomini semplici e da persone illustri ed industriose. Questi fotogrammi, sia le icone originali che quelle recuperate ed ottimizzate elettronicamente, offrono il loro importante contributo per descrivere lo svolgersi di quel periodo fecondo e lo fanno proprio nel momento in cui la fotografia perde valore, importanza, considerazione, soffocata dal parossismo che la sta dilagando; l’uomo non è mai stato così illustrato e connesso, ma incapace di veder se stesso e di connettere.
La presenza in una ex prigione di tante immagini, provenienti da una lontana serie di ieri, vuole proporre il simbolico invito a conservare, fra spesse mura,  il prodotto della più democratica delle invenzioni:  quella scoperta del 1839, battezzata Fotografia.
Una forma di comunicazione per la quale non è necessario possedere il cosiddetto “dono naturale” che permette solo ad alcuni di scolpire, dipingere, musicare e poetare con maggior agilità; ma abilita, chiunque abbia la voglia di farlo, di osservare con il “terzo occhio” e  realizzare la propria visione di “qualcosa”.
Ed è assai  significativo, a questo titolo, che sia stato proprio un Granturiano a tutto tondo, Henry Fox Talbot, l’inventore riconosciuto fra i tanti, del nuovo mezzo di comunicazione, a buttare nelle acque del Lago di Como la tavolozza ed i  pennelli disobbedienti che non gli permettevano di ritrarre adeguatamente il magnifico spettacolo. 
Da allora, era appena iniziato il 1800, per una ventina d’anni, lo scienziato inglese si dedicò impulsivamente a progettare strumenti e tecniche tali da permettere l’immediata captazione, la riproduzione e la conservazione di quanto l’occhio, la prima fotocamera stereo progettata dall’evoluzione in ognuno di noi,  permette di ammirare. 
Battuto sul filo di lana nel gennaio del 1839 da Daguerre e Niepce, Talbot è considerato il vero padre del procedimento negativo-positivo; da allora, il Mondo, l’uomo e la sua percezione iconica, non sono stati più gli stessi.

 Alfredo Moreschi in