sabato 30 marzo 2019

Una lettera di Pablo Neruda tradotta in Bordighera

Bordighera (IM): Villa Ortensia al giorno d'oggi
 
Era, forse, inevitabile che diventassimo amici, ma l’intuizione venne a Stefano Verdino che mi presentò il pittore [Enzo Maiolino] nel 2011 a Sanremo con la “scusa” che io, giovane studente, avessi pubblicato un pezzo su Le case vicino al torrente di Luciano De Giovanni, poeta a cui Enzo Maiolino fu legato fraternamente. E qui vorrei aggiungere un altro aneddoto, datato fine estate 2014: «Aspetta Alessandro» ripeté il pittore due o tre volte prima di estrarre, fra le cartelle colorate che riempivano un ripiano, una lettera inedita di Pablo Neruda a proposito di Viaggio che non finisce di De Giovanni. Ho già raccontato l’episodio e tradotto l’epistola sui «Cuadernos de Filología Italiana» (5). Una battuta di Enzo mi rimase impressa: dopo che mi spiegò come fossero andate precisamente le cose nel 1959 (!), e mentre mi consegnava il foglio rosa scritto a penna verde dal poeta cileno, soddisfatto sottolineò «serve a poco ricordare una vicenda se non la racconti, a che serve conservare un documento se non lo fai conoscere?» (6). Forse sì, era proprio inevitabile diventassimo amici, di sicuro noi che gli abbiamo voluto bene, che lo abbiamo stimato - e scrivo noi in una sede non certo casuale - dobbiamo ora cercare di proteggere la memoria di Enzo Maiolino, con la stessa gelosia e la stessa generosità che ci ha messo lui.

(5) Alessandro Ferraro, Le mille forme dell’amicizia. Un piccolo aneddoto di Enzo Maiolino, una lettera inedita di Pablo Neruda e qualche poesia di Luciano De Giovanni, in «Cuadernos de Filología Italiana», 2014, vol. 21, pp. 325-332
(6) Era l’inizio del 1959, su una nave in mare aperto, durante uno dei suoi numerosi viaggi, Neruda venne fermato da Pino Marasini, medico di bordo nonché amico di De Giovanni.
Gli diede una copia di Viaggio che non finisce e il poeta cileno la lesse con estremo piacere e sincero coinvolgimento se sentì il bisogno di riconsegnare il libro con una lettera e la sua plaquette intitolata Dos odas elementales. Dovette sorprendersi lo schivo De Giovanni quando l’amico medico gli consegnò la plaquette e soprattutto la lettera, una pagina che presenta il logo della Società di Navigazione Italia, attraverso la quale veniva a conoscenza della stima e dell’affetto che il grande poeta aveva voluto tributargli. Una delle prime persone a cui De Giovanni mostrò la lettera fu Maiolino, che subito coinvolse la governante spagnola di un amico musicista nell’operazione delicata, e immagino emozionante, di decifrare nei minimi dettagli le parole di Neruda scritte con l’inchiostro verde sul foglio rosa, datate «Mare, 17 gennaio ’59»: «Dr. e amico, a proposito del libro di Luciano De Giovanni che Lei gentilmente mi ha prestato devo dirle molte cose per cui non basta il foglio né il tempo. Vorrei da lui che avesse il coraggio di penetrare dall’intimità ai grandi spazi, che realizzasse questa aspirazione alla natura che contiene la sua bella poesia. Si tratta di un poeta sincero, cosa rara, pietra rara, e appena si tocca la sua poesia si tocca la verità. Ogni sua riga è una goccia d’acqua pura, della profondità. Grazie molte e la prego di salutare il poeta a nome del suo amico Pablo Neruda»
 
Alessandro Ferraro, La memoria di Enzo Maiolino, «La Riviera Ligure», XXVIII, 83, maggio/settembre 2017
 
 
[   L'amico musicista dell'artista Maiolino, qui citato, è Raffaello Monti (Milano, 23 dicembre 1893; Bordighera, 15 maggio 1975)  ]
 
"Monti fu musicista di professione, specializzato nel violoncello, e compositore. Ebbe modo di studiare musica e perfezionare la sua arte in più Istituti e Città (Torino, Tolosa, Nizza) raggiungendo notevoli traguardi e incarichi di prestigio, tra cui quello di primo violoncellista al Teatro Regio di Torino e solista all’EIAR. La sua carriera precoce, iniziata ad appena 16 anni, continuò fino all’anno della sua morte nel 1975 con la composizione e orchestrazione di molte opere". Valentina Donati

[  E Raffaello Monti negli ultimi anni di vita dimorò in Bordighera (IM) a Villa Ortensia. Fu promotore, soprattutto in qualità di Presidente della locale Unione Culturale Democratica, di diverse iniziative culturali e sociali, quali la Conferenza su Mussorgosky nel 1961, la relazione, con Aldo Capitini (1), al Convegno sull'Obiezione di Coscienza nel 1962, per il quale pervenne una lettera di adesione di Bertrand Russel, la relazione alla Conferenza La contaminazione atomica a Ventimiglia (IM) nel 1964, la relazione alla Conferenza La questione d'Israele nel 1967 ]
 
(1) L’epigrafe sulla tomba di Capitini, scritta da Binni: «Libero religioso e rivoluzionario nonviolento / pensò e attivamente promosse l’avvento / di una società senza oppressi / e l’apertura di una realtà liberata e fraterna». Lanfranco Binni, La protesta di Walter Binni. Una biografia, Il Ponte Editore, Firenze 2013  


in


Fonte: Archivio Balbo

Nella foto d'epoca, da sinistra, Enzo Maiolino e Luciano  De Giovanni.


mercoledì 20 marzo 2019

Tre racconti


Tre racconti di Enrico Berio. Sulla vita del Comandante Oceanico Capitano di lungo corso Giovanni Ansaldi da Porto Maurizio e sulle ansie e sofferenze di Laurettina sua moglie e delle sue tre figlie, tutti sempre condizionati dall’incombere immane della presenza del loro grande Amico - Nemico il Mare.

Enrico Berio, nato a Imperia nel 1922, si trasferisce giovanissimo con la famiglia a Cuneo, che considera la sua seconda patria, dove compie il corso degli studi sino al liceo e intraprende le prime esperienze giornalistiche e letterarie. Laureatosi in giurisprudenza a Torino, ritorna in Riviera nel 1949 come dirigente dell’Archivio di Stato di Imperia. Oltre al costante e fedele impegno nel Movimento Federalista Europeo che lo porta, negli anni ’70 a pubblicare il periodico bilingue «Alpazur», in tutti questi anni ha dato alle stampe diversi romanzi, libri per ragazzi e testi divulgativi (Grano nel deserto, 1958 - Nella gabbia del Vanone, 1963 - I marziani a Borgo Prino, 1969 - Le barche nel cielo, 1976 - Piccola storia di Arturino Bergerello, 1978 - La cornucopia della Dea Matuta, 1985).  
Si è pure dedicato al teatro dialettale scrivendo vari testi: in piemontese, in sanremasco e in genovese. Nel campo storico-archivistico sono infine da ricordare Cronache di Portoneglia, pubblicato dalla Sagep di Genova nel 1983 a cura del Comune per il 60° anniversario della nascita di Imperia; Siamo tutti ciantafurche sulle rivalità tra i rioni imperiesi, ed. Cav. Dominici, Imperia, 1987. 
Nel frattempo ha continuato e continua ancora il suo impegno per accomunare Costa Azzurra, Riviera dei Fiori e Valli Cuneesi.

da Edizioni Zem


sabato 16 marzo 2019

Su Francesco Biamonti




dalla prefazione di Vittorio Coletti in Matteo Grassano, Il territorio dell'esistenza. Francesco Biamonti (1928-2001), Franco Angeli Edizioni, 2019


San Biagio della Cima (IM), il paese di Francesco Biamonti

Francesco Biamonti [...] là, nell’entroterra di Vallecrosia, ha vissuto quasi sempre, in una casa che in passato era stata un fienile, e che egli ha trasformato nel corso degli anni in una vera e propria “officina”, dove ha svolto il suo “mestiere di scrittore” senza orari e ritmi di lavoro prestabiliti, ma con passione non comune e straordinaria efficacia creativa, sottraendosi agli sguardi indiscreti della gente e concedendosi solo a pochi e fidati amici [...] Si è parlato, infatti, di lui come di un poeta contadino, scomodando, a tal proposito, Pascoli e addirittura Virgilio; Biamonti, invece, pur avendo una conoscenza minuta, approfondita e appassionata di ogni pianta, di ogni fiore e di ogni foglia, più da botanico che da contadino, non amava le mimose o almeno non le amava più da tempo: “Il loro giallo è fatuo, ignaro delle tenebre del mistero, la cifra dei fiori europei” disse una volta, sottolineando, in questo modo, la loro effimera esistenza e, comunque, elegante e raffinato qual era, non disdegnava i ritmi e i richiami della città, dove trascorreva tutte le notti. Frequentava, infatti, i caffè e i locali della Riviera meno affollati, dove raccoglieva storie di varia umanità, contrassegnate dalla paura, dall’indolenza, da un'indefinibile angoscia: brandelli di vita vissuta che poi ricuciva nei suoi romanzi attraverso impasti cromatici e bagni di luce che rivelano in lui una non comune conoscenza pittorica, corroborata dall’amicizia e dalla frequentazione di Ennio Morlotti e di altri artisti non meno qualificati. Il suo amore giovanile per la pittura, la sua non comune sensibilità, la conoscenza approfondita delle cose dell'arte, e soprattutto l'attenzione meticolosa per il paesaggio e il trascolorare della luce in uno scenario prevalentemente roccioso, impervio, sospeso tra l'orizzontalità del mare e l'immensità del cielo, costituiscono il viatico e le coordinate del suo itinerario umano ed artistico. Scarse, frammentarie e comunque poco significative sono le notizie concernenti la sua vita. Dai suoi romanzi non si possono trarre indicazioni sui rapporti scrittore-vita e lo stesso Biamonti è sempre stato reticente a parlare di sé; in un’intervista rilasciata a Paola Mallone ha detto testualmente: “Mi piace non dire niente; io sono da cancellare; la mia vita non conta nulla; i miei natali non hanno importanza; il mio paese è insignificante” Sappiamo, tuttavia, che amava la musica sinfonica, le arti figurative ed il cinema francese (Bresson; Becquer; Melville e Truffaut), amori che hanno riempito le sue giornate e nutrito il suo spirito, desideroso di effusione. Dopo essersi diplomato in ragioneria e dopo aver vagabondato per un certo periodo in Spagna e soprattutto in Francia, negli anni cinquanta ha scritto, sotto l’influenza di Sartre e della psicanalisi, un romanzo, intitolato Colpo di grazia, che non ha mai visto la luce, se non parzialmente in forma di estratto [...] Schivo e silenzioso, ma sempre gentile e disponibile, recava sul viso, solcato appena da qualche ruga ed illuminato da due occhi azzurri, profondi come il mare, i segni di un’intensa, sofferta vita interiore. Si muoveva lentamente, misurando i passi, con circospezione più che con diffidenza. Ha scritto diversi saggi di pittura (“Morlotti pastelli e disegni 1954-1978”; “G. Cazzaniga: antologia critica”; “Lavagnino. I cieli ed altre stesure”; “I muretti di Gagliolo” etc.). Dopo alcuni racconti alquanto eterogenei, nel 1983, ha esordito, nell’ambito della narrativa, con il romanzo L’angelo di Avrigue, pubblicato da Einaudi ed impreziosito da una splendida e lusinghiera presentazione di Italo Calvino [...]
Zam
 

giovedì 14 marzo 2019

Reginetta



Tutte le vecchie ragazze del luogo (1) conoscevano questo fiore (l'anemone pavonina, ma in paese denominato, per l'appunto, Reginetta), che a fine marzo macchiava le fasce e le scarpate sotto gli ulivi.
Il rosso era abbagliante e le macchiette circolari sui petali ricordavano una corona dorata.
Appunto quella delle regine.
Bastava la fantasia a creare un sogno.

Era sufficiente raccoglierne un mazzetto e ci si portava a casa un'intera casa regnante.

Gris de lin

(1) Camporosso (IM)

giovedì 7 marzo 2019

Quando sono nato io

Latte, Frazione di Ventimiglia (IM), e la zona Ville: sul limite delle due località sorge la casa di cui si parla nel presente articolo

In casa c'erano uno stoccafisso intero, un pezzo di baccalà, aringhe affumicate, gallette secche del tipo militare, bieleti secchi, gorgonzola, parmigiano con la crosta nera, fagioli secchi, uova, farina, fiammiferi, cerini, sale grosso e fino nei vasi sulla cappa, caffè in chicchi da macinare.
L'acqua era di fontana e la tenevamo in un secchio metallico con sopra appeso un mestolo per bere o travasare.

Un articolo di giornale locale (1957) che parla della casa - che era anche una trattoria - in cui è nato e cresciuto l'autore. Fonte: Arturo Viale

Olio nella giara e vino in damigiana: roba nostra fatta in casa. Il latte della nostra capra.
Conigli e galline stavano sotto casa e bisognava saperli ammazzare se si voleva la carne.

Con queste cose, vivevamo.
Sono nato nella seconda metà del novecento, sapete.

  Arturo Viale 
 
[ n.d.r.: scritti di Arturo Viale: Oltrepassare. Storie di passaggi tra Ponente Ligure e Provenza, Edizioni Zem, 2019; L'ombra di mio padre, 2017; Quaranta e mezzo; ViteParallele, ed. in pr., 2009; Viaggi; Mezz'agosto; Storie&fandonie ]  
 

martedì 5 marzo 2019

Una padella con le toppe


Ogni anno alle prime avvisaglie della fioritura dei mandorli, la nonna soleva ripeterci la solita storia.
Ci raccontava di un marito che diceva alla moglie: "Allarga la man Marí che il mandurl l’è fiurí", illudendosi che l’inverno fosse alle spalle.
Il gelo, infido, spesso tornava e con lui la fame, dopo aver terminato tutte le scorte.
Economizzare e temere gli imprevisti era la morale su cui riflettere e ricordare per il futuro.

In casa nostra funzionava così.
Per noi bambine, nate già nel benessere, era tutto incomprensibile.
Avevamo una vigna.
Ereditata dai bisnonni.
Le damigiane di vino lasciate indisturbate in cantina, producevano dell’ottima madre, utile per fare aceto.
Ne avevamo scorte per tutto il paese.
Il buon vino rimaneva al fresco per finire tra le braccia della madre (dell’aceto), perché noi a tavola avevamo un mediocre vinello.
Solo il ricordo mi fa stringere i denti.
Acqua rosata trasparente e acidula.
Il rito del fiasco era sempre quello.
Una scrollata decisa nel lavandino per espellere il «fiore».
Una schiuma bianca che si formava in superficie (Fioretta, lieviti che si formano quando il tasso alcolico è basso).
Vino annacquato, che si diceva poteva essere bevuto in quantità, per dissetarsi nei lavori in campagna.
Avevamo anche l'uliveto.
Con l'olio, l’epilogo era più o meno uguale; succedeva che si usava sempre quello vecchio che bruciava in gola e si faceva invecchiare quello nuovo che invece aveva mille aromi.
In agguato c’era sempre una calamità in arrivo per l'anno seguente. Si poteva restare senza.

Non solo! In cucina per le fritture si tenevano due tazze.
Una conteneva l’olio per friggere le verdure e l'altra esclusivamente per il pesce.
Non ricordo per quante volte si usava riutilizzarlo, prima di metterlo nel "mangiare dei cani".
Non si buttava niente.

Nelle credenze nel magazzino, c’erano invece scorte per una eventuale entrata in guerra o carestia.
Albanelle di zucchero, di cui avevano sofferto la mancanza, che diventava duro come il cemento e non era più utilizzabile.
Ci si ricordava della loro esistenza seguendo una colonna di formiche argentine che lo avevano individuato.
Vasi di acciughe sotto sale che con il trascorrere del tempo, perché prodotte in eccesso, emanavano odore di decomposizione.

Altra peculiaritá erano i bicchieri per offrire agli ospiti un liquore. Grandi come ditali.
La frase rivolta era “nun ne vurei miga?” (non ne volete mica?) e anche mica vuol dire non... quindi un no rafforzativo.
Nell'offerta era già la risposta suggerita e desiderata.
"No, grazie!"
Erano generazioni che avevano visto due guerre e non potevano aver fiducia nel futuro.
La terra del ponente è sempre stata una cattiva matrigna e aspettavano ancora nuove percosse.
Per noi è stato un passaggio breve, per loro tutta una vita.

In soffitta tutto ciò che ho trovato erano oggetti rotti.
Potevano ancora venir utili.
Piatti sbreccati, damigiane senza paglia, sedie senza una gamba, tazze senza manico e una padella con fori artigianali per cuocere le castagne che aveva una toppa di ferro per coprire un buco.

Ho pensato che niente era più esplicativo per presentare a chi non li aveva conosciuti i miei antenati.
La conservo con affetto perché mi racconta molto di più della loro foto con gli abiti della festa nello studio fotografico.

 Gris de lin

[ndr: il racconto è ambientato in Camporosso (IM)]

venerdì 1 marzo 2019

Qualche cenno su fiori e piante della pista ciclopedonale Ospedaletti (IM) - San Lorenzo al Mare



L’Helianthus tuberosus, noto ai cuochi col nome di Topinambur, evaso dagli orti, si è naturalizzato nel greto di ogni corso d’acqua. Affacciandosi dai ponti della ciclabile è possibile assistere alle sue fioriture autunnali.




I fiori multicolorati della Mirabilis jalapa, la Bella di notte, si spalancano solo quando fa buio, ma di giorno restano ben sigillati e si possono solo ammirare nelle condizioni documentate dalle foto.
La sua comparsa data dall’anno 1596, epoca in cui fu scoperta sulle montagne peruviane. Gli entomologi l’hanno utilizzata per lo studio delle leggi genetiche, sfruttandola come esca per attirare nelle trappole le farfalle a vita notturna, adescate dal suo penetrante profumo.


Un curioso esempio di naturalizzazione è quello di una Solanacea denominata Nicotiana glauca; l’alberetto raggiunge in Italia i tre metri di altezza massima e fiorisce tra febbraio e luglio esibendo pannocchie semipendule di fiori tubulosi stretti ed allungati, color giallo zolfino, come si vede dalla foto. Importata nel 1827 dall’Argentina a scopi ornamentali, si è ambientata in tutte le zone temperate dell’Europa. Il nome del Genere deriva dal cognome del francese Jean Nicot, ambasciatore in Portogallo, famoso per aver portato a Parigi i semi del Tabacco (Nicotiana tabacum), aquistati da un mercante fiammingo che li aveva importati dalla Florida. La prima pianta di Tabacco nata in Francia fu mostrata a Caterina de Medici e, da allora, è rimasta battezzata Erba della regina.
Anche la Nicotiana glauca contiene una rilevante quantità di nicotina, assieme ad altri princìpi che la rendono pericolosa se ingerita per caso.
 

I nativi delle terre d’origine ne fumavano le foglie per guarire gonfiori, ematomi, reumatismi e mal di gola. E’ ormai nota in tutta la Regione, soprattutto lungo le zone toccate dalla ferrovia, perchè l’aria smossa dai mezzi in transito disperde i numerosissimi, minuscoli semi. Lasciata ora in dote alla neonata pista ciclabile, possiede un tronco dalla corteccia scura che contrasta molto gradevolmente con il resto della pianta, tutta azzurro glauco, comprese le foglie coriacee e lanceolate.


Gli esemplari di Opuntia ficus indica che si ergono ai lati del tracciato
costituiscono ormai un familiare incontro in gran parte d’Italia e del
Ponente ligure in particolare. La sua presenza non è casuale perchè fornisce
frutti commestibili e le sue foglie aculeate venivano usate per costruire
siepi di riparo per orti ed allevamenti di bestiame, quando il filo spinato
non esisteva ancora. Il Fico d’India è uno dei regali all’Europa di cui è


responsabile Cristoforo Colombo; proviene dal Centro America dove era
coltivavato dagli Aztechi per i quali era pianta sacra. Lo testimonia uno
dei pochi documenti rimasti, il Codice Mendoza, dove sono illustrati
esemplari di Opuntia. Spuntano anche nei giardini pubblici e privati che
costeggiano la pista con forme e fiori molto decorativi come quelli scarlatti
prodotti dall’Opuntia bergeriana, una delle più note specie ornamentali.
Il Genere trae il nome dalla città greca Opus dove era stata anticamente
descritta una pianta spinosa molto simile, rimasta però sconosciuta.


Su un altro muro di un’altra passeggiata che fiancheggia la pista è spuntata
una Felce proveniente anch’essa dalle fascia tropicale; si tratta della Pteris
vittata, rigogliosa ed abbondante tra le crepe dei muri, dove mostra una
singolare facoltà di riprodursi e di resistere nel nuovo ambiente, facendo
germogliare gran parte delle migliaia di spore prodotte.

di Alfredo Moreschi in Parco Costiero della Riviera dei Fiori. Fiori & Piante della PISTA CICLOPEDONALE  (2019, Edizioni Zem)


La "Pula"


Papà ogni volta che parlava della “Pula” gli si inumidivano gli occhi. L'aveva comprata insieme a Dino (suo coetaneo) nel 1948. Avevano 19 anni, la comprarono alla fiera del 25 marzo. La Pula era possente, come molti dei muli presenti qui nella nostra terra. La bestia da soma fu il vero motore della nostra economia e contribuì alla trasformazione del nostro territorio montano.

In precedenza, dalla seconda metà degli anni 30, avevano posseduto un’asina. Papà era un ragazzino, mia nonna era una donna minuta e mio nonno negli anni 30 divenne cieco completo: lo legavano all’asina quando andavano in campagna.

Poi il 10 giugno del 1940 con la dichiarazione di guerra alla Francia, i pignaschi furono sfollati nell’Alessandrino. Le bestie da soma, i buoi, le mucche e gli ovini furono ammassati tutti a Camporosso: in buona parte furono macellati per alimentare le migliaia di soldati presenti.

Papà amava raccontare: "Quando rientrammo al paese - avevo 11 anni - discesi a Camporosso a cercare l'asina. Avevo poche speranze di ritrovarla in vita, ma la vidi seminascosta tra le altre bestie, era magra come una cartolina e lei, quando mi avvicinai, mi venne incontro, era contenta di rivedermi ed io piansi: l'avevo ritrovata e ci incamminammo lentamente per rientrare al paese"

Ma la povera asina aveva sofferto la fame e l'abbandono e visse pochi anni ancora. 

L'esigenza di avere una bestia da soma era una necessità prioritaria. Solo nel 1948 decise di comprare un mulo insieme al suo coetaneo Dino, il quale poi nei primi anni 50 emigrò a Londra. L'incombenza restò sulle spalle di papà.
Non era facile, amava ripetere, 50 quintali di fieno annui non erano una passeggiata, ma con l'aiuto dello zio Pietro riuscì a cavarsela.

Gli anni 50 e 60 sancirono la fine di quel mondo contadino e l'olivicoltura e l'agricoltura della media montagna furono le prime a soccombere. Fu così che nel 1966 decise di venderla alla fiera di San Michele del 29 settembre. Allora avevo 9 anni e ricordo il suo dolore, la sua sofferenza, tant'è che si chiuse in casa e pianse: il mulo, la Pula, fu portata al campo e venduta dal suo compagno d'infanzia Jeannot.

Un altro mondo aveva inizio, ma era un mondo che doveva fare a meno dei muli, dei buoi, degli asini e dei suoi attori principali, il mondo dei vinti…

di Roberto Trutalli di Pigna (IM)