martedì 26 febbraio 2019

Cominciò quasi per scherzo (2)


DAL DIARIO DI UN GIOVANE SBANDATO

(seconda puntata)
COMINCIÒ QUASI PER SCHERZO

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A quel punto pure noi eravamo eccitati; probabilmente aveva a che fare col fatto che il fiasco di vino era quasi vuoto. Comunque uno di noi e, onestamente, non mi ricordo chi, forse io, forse Franco, venne fuori con un'idea balzana.
- Ehi Giuliano, perché non ci cerchi un lavoro a bordo; veniamo anche noi. Facciamo qualsiasi cosa: lavare i piatti, pulire i tavolini, vuotare i portacenere o cos'altro c'è da fare; qualsiasi cosa. -
- Ne parlo a Mario; vedremo cosa dice. - rispose Giuliano e, dopo i saluti, se ne andò.
Ben presto il pensiero dell'America svanì nel tran tran della mia vita quotidiana; non vedevo l'ora che finisse quel deprimente tempo grigio ed arrivasse la bella stagione.
Eventualmente occupai il mio tempo libero nella progettazione e realizzazione del carro della Battaglia di Fiori del gruppo "Rascassa Club" del quale facevo parte.
Per alcuni mesi, sia io che i miei compagni carristi, sgobbammo, sovente fino a tarda notte, per portare a termine il nostro capolavoro fiorito. Era un lavoro collettivo, cameratesco, anche se faticoso e solo chi è stato un "carrista" può comprenderne l'emozione; comunque la Battaglia fu un successo, infatti il nostro carro vinse il primo premio nella sua categoria.
Pochi giorni dopo la Battaglia, eravamo ai primi di Giugno del 1967, Franco entrò tutto eccitato nel mio piccolo ufficio, sventolando una lettera.
- Roberto, cos'è questa lettera che mi è arrivata? È in inglese e non capisco niente. -
Presi la busta e, dopo aver visto che il mittente era una compagnia di crociera, in fretta cercai di leggerne il contenuto, provando una strana sensazione, quasi di incredulità. Il mio inglese lasciava un po' a desiderare ma riuscii a capire, traducendo ad alta voce, che era un contratto di lavoro intestato a Franco, accompagnato da una richiesta al consolato americano di facilitare il rilascio dei visti necessari per entrare negli Stati Uniti e raggiungere la nave crociera a Miami.
Quando ritornai alla realtà, mi rivolsi a Franco che era rimasto a bocca aperta: - Vuoi vedere che Giuliano ci aveva preso sul serio? Non può essere altro. -
- E adesso cosa facciamo? -
- Che cavolo; andiamo! Ci offrono un lavoro su una nave crociera in America e tu vuoi rifiutare? -
Non vedevo l'ora di andare a casa a leggere la mia lettera. Non stavo più nella pelle. Ma non c'era nessuna lettera. Cercai di convincermi che probabilmente sarebbe arrivata il giorno dopo; dopotutto le poste italiane non erano troppo affidabili.
Ma i giorni passarono e nulla. Ero sconvolto, irritato e persino geloso; l'euforia iniziale era stata rimpiazzata dalla disperazione. Niente America per me; L'unica speranza era che Franco, una volta a bordo, intercedesse a nome mio.
(continua)

(nella foto: Battaglia 1967; "Attento Pedrito" del gruppo Rascassa Club. Io sono sulla sinistra, di spalle, col cappellino)

di Roberto Rovelli



lunedì 25 febbraio 2019

Scignua, sta chi a l'è pe u figgiò!


Naturalmente il contesto in cui avevo aperto [nel 1935, a Ventimiglia (IM)] gli occhi non poteva certo interessarmi. Anche se era la mia città, a me importava solo la poppata e che qualcuno mi cullasse nei momenti giusti.

Il problema era che, dopo un breve periodo di svezzamento, mia madre, che dall'età di quattordici anni lavorava come operaia al Pastificio Ligure e che, considerata la precarietà occupazionale di mio padre, era l'unico sostegno economico della famiglia, dovette tornare in azienda.

Fui allora affidato a tre magnifiche ragazze (oggi si chiamano baby sitter), ma, poiché a quel tempo del fascismo erano proibite le parole straniere, le chiameremo “garçunete”. Credo che il ventimigliese fosse, invece, ammesso in quell'epoca. E ragazzine lo erano davvero, in quanto la più anziana, Mimma Degoli, simpatica zia di Wilma Taroni, non doveva avere più di 13 anni. Le altre, veri angeli custodi, pazienti ed affettuosi, erano Lina, che ho sempre chiamato Pupa di Calvo: con lei ho contatti ancora oggi. E una ragazza che veniva da Isolabona, di cui ricordo solo il cognome, Littardi, zia del Littardi orefice in via Hanbury. .

Passarono così i primi anni nella mia più beata incoscienza di quanto mi accadeva intorno.

Mio padre che si era buscato una polmonite che lo costrinse a letto per un lungo periodo: allora non c'erano gli antibiotici e una semplice malattia si prolungava quanto una pratica burocratica oggi.

Le sanzioni.

La città che viveva intensamente quel periodo di sviluppo.

Le difficoltà dei miei genitori per portare a casa la pagnotta e per comprare quel che necessitava per il mio sviluppo, che era in verità molto limitato). Prima di tutto il latte per il biberon, oggetto che era per me come la coperta di Linus: non me ne staccai mai fino all'età di quattro anni. E poi le pappine (non c'erano gli omogeneizzati e le pappine dovevano essere rigorosamente preparate in casa). Infine i famosi prodotti Mellin, che furono le specialità gastronomiche della mia infanzia ,come lo furono di tutti quelli della mia e di molte altre generazioni. a venire.

Cominciai a lallare, poi a parlare. Non mi è stato riferito quale fosse la prima parola che ho pronunciato: spero non sia stata una parolaccia. Iniziai a fare i primi passi.

Tutto andava a gonfie vele (si fa per dire) fino al giorno in cui cominciai a frignare intensamente (normalmente ero un bimbo tranquillo).

Notte e giorno a rifiutare il cibo, ad avere la febbre. Fu necessario chiamare il medico (allora non si ricorreva al pediatra: c'era il medico di famiglia che curava dal nonno al nipotino in fasce). Il medico, che era il dottor Trucchi, si mostrò preoccupato e sentenziò che si doveva trattare di infiammazione intestinale. Sarebbe stato opportuno, dopo alcuni tentativi di cura a base di palliativi, chiamare uno specialista.

Venne interpellato il dottor Pamparato, che, come mi vide e mi auscultò (allora non si facevano raggi o TAC; tutto era diagnosticato a vista e ad esperienza), scosse la testa e disse a mia madre “Stù figliò u l'à i bieli cume ina cartavelina… se u se sarva l'è in miraculu” [Questo bambino ha le budella di cartavelina... se si salva é un miracolo!].

Ed il miracolo, grazie alle cure del dottor Pamparato (che non era un ventimigliese, ma parlava il nostro dialetto), si verificò. Dopo il trattamento prescrittomi rinacqui a nuova vita, anche se delicato di costituzione e, come diremmo noi, “schifignusu”, cioè molto esigente nel cibo.

Quell'anima santa di mia madre si privò del companatico per comprarmi la cervella, che Baciccia il macellaio metteva da parte per me. ”Scignua, sta chi a l'è pe u figgiò” [Signora, questa é per il piccolo!] diceva mentre la impacchettava nella carta gialla. Che sarebbe poi servita in caso di costipazioni unta cu a sungia (grasso) de gaiglina (gallina) riscaldata e messa sullo stomaco: rimedio assicurato. Il macellaio, poi, da buon genovese (non è vero che i genovesi sono pignesecche: si chiamava Canepa ed era il nonno di Anna Canepa, attuale magistrato) faceva un sconto notevole, perché conosceva le nostre condizioni. Era un commerciante come erano i commercianti di una volta, umano e comprensivo. Quanta cervella ho mangiato! Chissà se mi avrà giovato nel corso degli anni per sviluppare la mia materia grigia? Giudicatelo voi. Di “belinate” ne ho fatto tante ma qualche ragionamento ogni tanto scaturisce: quindi, penso che qualche... giovamento ci sia stato.

A questo punto credo che ognuno di voi abbia sulla punta della lingua una frase “Ma allora eri proprio uno sfigato?”. Sì, lo ero, ma non fui il solo, poiché le malattie infantili in quel tempo erano molto frequenti e non sempre avvenivano i miracoli come per me. La mortalità aveva una alta percentuale, ma chi si salvava diventava forte come una roccia.

Accennando al macellaio Baciccia mi è d'uopo spezzare una lancia per i commercianti di allora, “i bitegai”, i quali, dovendo operare in quel periodo di precarietà, avevano istituito il classico “libretto”, un quaderno sul quale venivano segnate le spese giornaliere delle famiglie disagiate che al momento della paga provvedevano a saldare, il più delle volte rimanendo con pochi spiccioli in tasca per arrivare alla fine del mese). Raramente però accadeva che il debitore non ottemperasse ai suoi doveri: l'onestà era un valore; se si perdeva, si perdeva anche la dignità. Il bottegaio di generi alimentari, che di solito forniva la maggior parte del necessario, dal pane alla verdura, era insomma la nostra piccola banca (nelle banche vere accedevano solo benstaghenti e sciù) in un'economia che si reggeva nel suo piccolo molto meglio di oggi.
Il nostro banchiere era Luca Spano, che aveva l'esercizio dove oggi si trova un negozio di abbigliamento proprio sotto casa mia [davanti ai Giardini Pubblici di Ventimiglia], un sardo buono e simpatico col sorriso sempre stampato sulle labbra e il cuore aperto per ogni evenienza.

Questa dunque la mia fanciullezza, ma di crescere non se ne parlava …

di Gianfranco Raimondo di Ventimiglia (IM)



domenica 24 febbraio 2019

Le nostre pietre

Pietrabruna (IM): Monte Follia - Foto di Bruno Calatroni di Vallecrosia (IM)

Le nostre pietre mi portano sempre a storie di una fatica inutile e mai premiata, di un popolo che come formiche silenziose ha lavorato non per costruire cattedrali ma muri.

Ponte antico sul rio Carne a Pigna (IM) - Foto di Bruno Calatroni di Vallecrosia (IM)
 
Inutile perché non rimarranno a testimoniare la loro abilità, perché poveri manufatti, che le generazioni successive hanno abbandonato per tristi condomini. 

Mulino antico sul rio Carne a Pigna (IM) - Foto di Bruno Calatroni di Vallecrosia (IM
 
Muri per sorreggere fasce di ulivi, muri per proteggersi dal freddo, archi per oltrepassare fiumi, canali sopraelevati per condurre acqua, recinti per animali domestici, e in montagna dove non molto tempo fa ancora giravano gli orsi, muri come fortificazioni difensive per proteggere gli alveari.
Scale di pietra consumate dai passi, cappelle votive dedicate a chi mai si è occupato di loro, ma unica speranza per migliorare una vita così grama.
Tutti i popoli hanno celebrato e fatto risaltare al resto del mondo le loro radici e bellezze.
Noi figli di questa terra matrigna, che abbiamo, come nessuno ha, colline fasciate da muri come piramidi invisibili, erette non ad una divinità, ma alle necessità dell’uomo, le lasciamo crollare nella più assoluta indifferenza.
 
Vicino al Monte Faudo (IM) - Foto di Bruno Calatroni di Vallecrosia (IM)
 
Questa fatica nascosta ormai dalla vegetazione, che si riappropria di ciò che le è stato rubato, è come un grido soffocato di dolore, che a stento emerge per farsi sentire con un flebile lamento.  
 
Vicino al Monte Faudo (IM) - Foto di Bruno Calatroni di Vallecrosia (IM)
 
Non tutti lo sentono.
A me commuove e mette una tristezza infinita.
Mi dice dell’inutile presenza umana sulla terra.
Vorrei arrivasse a tutti questo grido di aiuto.

I nostri condomini non regaleranno in futuro nessuna emozione.
Ma spesso disgusto.

sabato 23 febbraio 2019

Cominciò quasi per scherzo


Recentemente rovistando in un cassetto ho trovato dei fogli che avevo scritto parecchi anni fa. Si tratta di appunti che annotavano gli eventi che avevano cambiato così drasticamente la mia vita. Ho pensato di condividerli nel caso qualcuno, non avendo altro da fare, volesse leggerli.

DAL DIARIO DI UN GIOVANE SBANDATO

(prima puntata)
COMINCIÒ QUASI PER SCHERZO

A quei tempi facevo il benzinaio. Dopo il ritorno dal servizio militare eventualmente avevo trovato lavoro presso un distributore di benzina. Era una piccola stazione Fina accanto all'Hotel Eden di La Mortola [Frazione di Ventimiglia (IM)], per me molto conveniente perché era quasi sotto casa.
D'inverno ero l'unico impiegato fisso dato che, normalmente, non c'era molto traffico e quindi pochi clienti. La paga non era granché ma, tra mance ed altri piccoli servizi che offrivo agli automobilisti, non mi potevo lamentare; in più l'Hotel Eden mi provvedeva i pasti.
Durante il giorno mangiavo nel mio piccolo ufficio ma, alla sera, di solito, andavo a cenare alla mensa dell'hotel; uno degli aiutanti di cucina mi veniva a dare il cambio.
- Madonna pergamena, vé a mangé -, m'apostrofò Vito, un ragazzo pugliese, scuotendosi il giubbotto bagnato quando entrò nell'ufficio. Era una sera di Febbraio, buia, fredda, piovosa; non c'era un'anima in giro e le poche macchine di passaggio lasciavano riflessi colorati sull'asfalto bagnato.
La mensa era deserta; era tardi e gli altri impiegati dell'hotel avevano già mangiato. Mi ero appena seduto quando Franco, il giovane cuoco, entrò con un'insalatiera piena di verdure fresche: - Stasera 'bagna cauda' -, esclamò sedendosi. Solo allora notai la pentola sul tavolo con la gustosissima salsa per intingoli; c'era anche un fiasco di vino, ma quello era normale.
Mangiammo con gusto, chiaccherando e, naturalmente, bevendo; l'hotel aveva pochi clienti e tutti avevano già cenato, quindi era improbabile che Franco venisse chiamato in cucina. Stavo per alzarmi e ritornare al mio posto di lavoro, quando entrò un giovane del paese, nostro amico.
- Mi hanno detto che eravate imboscati qua! - esclamò ridendo.
- Ciao Giuliano, cosa fai in giro con questo miserabile tempo? - gli chiese Franco.
- Sono venuto a salutarvi; domani mattina parto. -
Giuliano faceva il cameriere e, come altri del mestiere, a volte andava a fare 'stagioni' in diverse località turistiche sia italiane che estere.
- Dove te ne vai questa volta, a Cortina, a Chamonix? - gli chiesi.
- Vado in America! -
- Belin! In America? - replicammo sorpresi quasi all'unisono.
- Si; vado a lavorare su una nave che da Miami fa crociere nei Caraibi. -
- Porca l'oca! - esclamai eccitato, - E come hai fatto a trovare 'sto posto? -
- Mario; è di Badalucco, lo conoscete; tempo fa aveva lavorato anche qui all'Hotel Eden. Fa il Maitre D' a bordo e gli servono camerieri, così mi ha scritto chiedendomi se mi interessasse andare per almeno sei mesi. Mi ha assicurato che si possono guadagnare dei bei soldi e poi ci sono anche altri camerieri che conosco e che avevano lavorato qui a Mortola, sia all'Hotel che al Ristorante. E allora perché no? Potrebbe essere un'esperienza interessante; una nave crociera! -
(continua)

(nella foto: dove una volta c'era il piccolo distributore Fina)

di Roberto Rovelli


venerdì 22 febbraio 2019

Purtevu ben, bela frema!

Mentone

Antò e Terè sono due vicini che tutti i giorni litigano. Terè con tanto di testimoni porta in tribunale Antò perché le ha dato della "soma" che in mentonasco ma anche in ventemigliusu [dialetto di Ventimiglia (IM)] vuol dire somara ma soprattutto poco di buono.
All’udienza parlano Antò, Terè, i testimoni e anche due buoni avvocati e fatto sta che il giudice condanna Antò ad una ammenda di quaranta soldi. Allora Antò ingoia amaro ma poi ha un colpo di genio e chiede spiegazioni - Signor giudice io sono stato condannato perché ho dato della soma a una signora - e aggiunge - non mi condannereste mica se chiamassi signora una soma?
Il giudice naturalmente conferma. Allora Antò si gira verso tanta Terè e rispettosamente, come se salutasse il Santissimo, le grida - Stia bene bella signora. (Alura, Antò Pessügh’ se revira verse tanta Terè a Tignuara, e respetuse, cuma se salütessa u Santissimu, y cria: - Purtevu ben, bela frema!).
 
Così, soddisfatto di aver dato della signora ad una somara, si avvia verso casa. 

Questa storia scritta da Marcel Firpo, che ho tradotto all’ingrosso dal dialetto mentonasco, me la raccontava assieme ad altre storie mia nonna che l'aveva letta sulla mitica Barma Grande, il periodico dialettale degli anni Trenta che - adesso ho scoperto - era anche uno strumento di propaganda dell'irredentismo Ligure di ponente. Che il fascismo abbia finanziato le pubblicazioni in dialetto mentonasco oggi è una cosa abbastanza certa.

Questo Marcel Firpo, che naturalmente in Francia chiamavano Firpò, era molto conosciuto dai due lati della frontiera. Del resto, la famiglia Firpo era originaria di Arenzano.
Ma l’attività culturale, l’amore per le tradizioni, per la lingua e per la letteratura mentonasche di Marcello Firpo, si potevano anche considerare da parte francese, e forse lo erano, connivenza col nemico, collaborazionismo, lotta per l’autonomia e propaganda fascista. Per questo finita la guerra fu condannato dai francesi a 7 anni di reclusione, alla degradazione nazionale e alla confisca dei beni oltre alla sanzione di 400.000 vecchi franchi. 

Dopo la liberazione in Francia fu istituito infatti il reato retroattivo di indegnità nazionale che comportava divieto di residenza, perdita dei diritti civili, confisca dei beni; pene molto dure a cui si pose rimedio con un’amnistia nel 1951. Un giorno mentre stavo raccogliendo informazioni e materiale per scrivere questa storia vado a Mentone ed entro in uno sgabuzzino che conosco, situato all’inizio della via Lunga dalla porta di Sant’Antonio, dove anziane volontarie, due volte alla settimana, vendono pubblicazioni vecchie e nuove su Mentone e dintorni. 

Mi rifornisco e comincio a leggere.

In un libretto pubblicato pochi anni fa dalla società d’arte e storia del Mentonese, l'affare Firpo viene così presentato: “alla liberazione i mentonaschi rimproverarono a Firpo di aver fraternizzato con l’occupante italiano e nel 1945 deve lasciare Mentone (…) La Francia lo perdonerà solo dopo sette anni di esilio.”

Arturo Viale di Ventimiglia (IM)

[ n.d.r.: Arturo Viale, L'ombra di mio padre, 2017; Arturo Viale, ViteParallele, 2009; Arturo Viale, Quaranta e mezzo; Arturo Viale, Viaggi; Arturo Viale, Mezz'agosto; Arturo Viale, Storie&fandonie; Arturo Viale, Ho radici e ali  ]

Un tempo a Vallecrosia (IM), fiori e...

Nicola Orengo in una operetta ormai introvabile (Guida dell’estrema Liguria Occidentale), scrisse ormai più di 50 anni fa: "Il piano Vallecrosino è una specie di Valle di Tanipe, ricco di selve, di ulivi, e di deliziosi boschetti di aranci e di arbusti di tutte le varieta; un vero Eldorado, un Eden di Sori d’ogni maniera: rose, violette, garofani e narcisi che profumano l’aere di mille soavi fragranze" (p. 128).
A prescindere dai toni romantici, l’Orengo diede una notazione esatta: nei primi decenni del 1900 a Vallecrosia (IM), e contestualmente, seppur in modo meno clamoroso, nei borghi viciniori, l’attività floricola costituì un rilevante caso economico cui finirono per fare da corrispettivo i mercati dei fiori di Ventimiglia e della stessa Vallecrosia.
Uno dei patriarchi dell’attività nuova in quest’ultimo borgo fu Antonio Diana che fece curare a fiori (per lo più garofani) le sue proprietà nell’area di San Rocco e ad oriente del Verbone.
Per la floricoltura nella valle del Verbone ebbe un ruolo positivo proprio un originario di Vallecrosia, Mario Aprosio, nato a Genova il 17 febbraio 1880 da una famiglia là trasferitasi.
La nostalgia riportò il padre, distintosi nella seconda guerra di indipendenza, a Vallecrosia; nostalgia e pragmatismo riportarono in Liguria occidentale anche quel Mario Aprosio che intensificò i suoi impegni nel settore floricolo. Rivestì un’infinità di cariche e fu onorato con una tante titolature pubbliche, ma si rivelò utile, per l’economia del Ponente ligustico, quale presidente (per 15 anni) della Società esportatori di fiori e particolarmente quale “membro della Commissione Nazionale per lo sviluppo della Floricoltura e dell’Industria dei Profumi” (ORENGO cit., p. 132).
La sua attività ebbero una precisa finalità pubblica e pare fuor di dubbio che l’esplosione della coltura di fiori commerciabili in tutto il “ventimigliese” sia da collegare col suo intelligente dinamismo.
Vallecrosia, San Biagio della Cima e Soldano si trovarono ancora una volta incastrate su un identico vettore socio-economico, anzi, contestualmente a quella dei fiori, i tre borghi attuarono anche la scelta dei PROFUMI .
Il terminale della coltura di piante da profumo fu in verità locato nella zona logisticamente più comoda della vallata intiera: i Piani di Vallecrosia.
Nei primi decenni di questo secolo lo Stabilimento Italo-Francese - Profumi e Prodotti Chimici diretto dal Prof. Guido Rovesti e dal Chimico Dott. Paolo Rovesti, si presentava, stante la documentazione dell’ Orengo (p. 128), quale un’efficiente struttura destinata ad un brillante futuro purtroppo poi distrutto da mutate scelte economiche.
Nelle sale di distillazione si provvedeva a lavorazioni intensive ed i prodotti risultarono costantemente di buon livello e universalmente riconosciuti: le piante più frequentemente lavorate, e in abbondanza provenienti dai borghi lambiti dal Verbone, appartenevano in genere alla flora locale ed avevano alle loro spalle un’archeologia fatta delle diverse manipolazioni (V. GUIDO DONTE - G. GARIBBO - P. STACCHINI, La provincia di Imperia, Imperia, 1934, pp. 42-5).
I fiori d’arancio amaro, le rose, il gelsomino, le violette e la lavanda erano in particolare le qualità botaniche del programma industriale di distillazione: e ciò per tanti aspetti non fu casuale, in particolare la lavanda, pianta simbolo della ligusticità, rientrò per secoli, attraverso i suoi poliedrici usi nella cultura domestica e nella spiritualità delle genti della Val Verbone (come anche di tutta la Liguria pur attraverso diverse fruizioni).

Qualcuno potrebbe dire che l’industria dei profumi è anche espressione di rottura coi termini della “vita rustica”, uno iato tra presente e passato; ma ciò non è vero, nella sua espressione macroscopica e scientifica essa fu il risultato estremo di antiche intuizioni contadine che fecero di un’empirica conoscenza del mondo vegetale uno strumento interventista contro i mali dell’esistenza: l’attività legata ai profumi e quindi a un certo anche rozzo edonismo, la distillazione, la fitoterapia furono un patrimonio ligustico vetustissimo (D. MANTA - D. SEMOLLI, Le erbe nostre amiche, Ginevra, 1976, I-III).




giovedì 21 febbraio 2019

Il Vincetoxicum

Vincetoxicum hirundinaria
Affini ad Oleandro e Pervinche sono le Asclepiadi: talmente correlate da esser state talvolta incluse nella stessa famiglia. Anche in questi casi nuovamente troviamo proprietà pericolose. In molte di queste specie scorre un succo latteo come nelle Euforbie, ed in alcune Composite come la Lattuga.

Questo si nota molto bene nel Physianthus o Arauja sericofera, un rampicante molto diffuso nei giardini di Nizza. Anche il Gomphocarpus fruticosus possiede lo stesso lattice bianco; è una pianta che ho trovato talvolta inselvatichita lungo la strada di Monaco. A questo ordine delle Apocynacee appartiene anche la "Carrion plant", la pianta che puzza di carogna (Stapelia grandiflora): l'ho coltivata in un angolo ben riparato.

Nel giardino della Mortola sono esposte una dozzina di specie e fra queste una proveniente dalla Sicilia, diventata adulta in pien'aria.

Tutto quanto è stato detto, sebbene sia abbastanza noto, si riferisce alle specie coltivate nel giardino: ma esiste un genere, ed è l'unico europeo, che appartiene alla famiglia delle Asclepiadacee, vale a dire il Vincetoxicum, che disputa ogni palmo di terreno sulle colline al Buxus ed alla Satureia. Il Vincetoxicum hirundinaria abbonda sul Monte Chauve, ma non c'è bisogno di camminare a lungo per incontrarlo poichè cresce frequentemente vicino alla costa come all'ingresso del Vallon de Fleurs, alla periferia di Nizza.

Molte di queste Asclepiadee, se non precisamente velenose, suscitano qualche sospetto su di loro nuocendo agli insetti che trasportano i loro grani di polline. Se si guarda dentro al loro fiore, non si scorgono ne stami né stigma che restano celati, ma si nota una fenditura a forma di cuneo in cui il piede di una farfalla o la proboscide di un ape possono impigliarsi. Se l'insetto avrà avuto abbastanza forza per liberarsi tutto va bene; le sue parti avranno soltanto ricevuto come decorazione un paio di piccole tacche: all'incirca come i corni che un'Orchidea stampa sulla testa di un ape. Una farfalla può avere non meno di una dozzina di questi piccole marchiature incollate al suo piede. Ma un insetto debole, una formica per esempio, non riuscirà a liberarsi nuovamente se il suo arto resta impigliato in una di queste trappole; rimane prigioniera o vi lascia un suo pezzo per sempre. Ho osservato una mosca casalinga  lottare vanamente per tentare la fuga.

Quando il baccello di un Vincetoxicum o di un Gomphocarpus si fendono lateralmente, mostrano i semi con lunghi capelli di seta bianca: gli stessi che nell'Oleandro sono color marrone. Ho visto questi fili sericei del frutto del Physianthus utilizzati dalle modiste come ornamento per un cappello da signora. Per chi lo porti deve essere molto difficile fornire una spiegazione sull'origine di questa lanuginosa decorazione: certamente, un botanico resta perplesso davanti ad una simile curiosità.

Questi filamenti di seta assomiglino molto a quelli dei frutti di Salice, ma in quest'ultimo caso spuntano dalla base del seme.

L'Oleandro alimenta il bruco di una bella falena, una di quelle che volano immediatamente prima del tramonto, la Deilephila nerii. Il suo colore è quello della malachite, ed il modello di volo non è facile di descrivere.

Un naturalista di lungo corso Bruyat mi diceva di aver spesso trovato le larve sui cespugli di Oleandro in città, ma io non sono mai stato così fortunato. Dal canto suo, il Sig. Bicknell afferma che si possono raccogliere nella val Nervia in grande quantità queste larve, rese immuni dal veleno dell'Oleandro come gli antidoti del famoso Mitridate Re del Ponto.

Una splendida farfalla del genere Danais è collegata alle Asclepias, piante molto diffuse nei giardini del luogo; un fatto che potrebbe facilitare la naturalizzazione dell'insetto anche in Riviera. I raccoglitori sarebbero in grado di constatarlo nel giro di alcuni anni.

Leggo da qualche parte che la Danais si sarebbe davvero stabilita dalle parti di Napoli, salvo poi scomparire a causa di un inverno severo non molto tempo fa. È curioso il caso delle Danaidee, le cui larve si nutrono di piante così velenose, con profumi così acri e sgradevoli che (secondo Drummond) nessuna delle creature predatrici di farfalle le vuole toccare. Si descrivono anche di gusto  niente male (nei due sensi del termine) basandosi sui fastosi disegni e la brillantezza dei colori. È ovvio che più evidentemente spicca la loro livrea, tanto più sicuri esse saranno. Un predatore che abbia assaggiato uno di questi insetti, si suppone che in futuro voglia evitare di ripetere la disgustoso esperienza.

L'oleandro ha una spira di tre foglie in molti dei suoi nodi o giunture: una sezione obliqua del gambo al di sotto del nodo, differentemente maculato, offre oggetto di interessanti osservazioni al microscopio. Uno strano errore in cui si può incorrere a prima vista è la sensazione che la foglia dell'Oleandro non possegga venature.

George Edward Comerford, Riviera Nature Notes (seconda edizione, Londra, 1903) - traduzione di Alfredo Moreschi