lunedì 25 febbraio 2019

Scignua, sta chi a l'è pe u figgiò!


Naturalmente il contesto in cui avevo aperto [nel 1935, a Ventimiglia (IM)] gli occhi non poteva certo interessarmi. Anche se era la mia città, a me importava solo la poppata e che qualcuno mi cullasse nei momenti giusti.

Il problema era che, dopo un breve periodo di svezzamento, mia madre, che dall'età di quattordici anni lavorava come operaia al Pastificio Ligure e che, considerata la precarietà occupazionale di mio padre, era l'unico sostegno economico della famiglia, dovette tornare in azienda.

Fui allora affidato a tre magnifiche ragazze (oggi si chiamano baby sitter), ma, poiché a quel tempo del fascismo erano proibite le parole straniere, le chiameremo “garçunete”. Credo che il ventimigliese fosse, invece, ammesso in quell'epoca. E ragazzine lo erano davvero, in quanto la più anziana, Mimma Degoli, simpatica zia di Wilma Taroni, non doveva avere più di 13 anni. Le altre, veri angeli custodi, pazienti ed affettuosi, erano Lina, che ho sempre chiamato Pupa di Calvo: con lei ho contatti ancora oggi. E una ragazza che veniva da Isolabona, di cui ricordo solo il cognome, Littardi, zia del Littardi orefice in via Hanbury. .

Passarono così i primi anni nella mia più beata incoscienza di quanto mi accadeva intorno.

Mio padre che si era buscato una polmonite che lo costrinse a letto per un lungo periodo: allora non c'erano gli antibiotici e una semplice malattia si prolungava quanto una pratica burocratica oggi.

Le sanzioni.

La città che viveva intensamente quel periodo di sviluppo.

Le difficoltà dei miei genitori per portare a casa la pagnotta e per comprare quel che necessitava per il mio sviluppo, che era in verità molto limitato). Prima di tutto il latte per il biberon, oggetto che era per me come la coperta di Linus: non me ne staccai mai fino all'età di quattro anni. E poi le pappine (non c'erano gli omogeneizzati e le pappine dovevano essere rigorosamente preparate in casa). Infine i famosi prodotti Mellin, che furono le specialità gastronomiche della mia infanzia ,come lo furono di tutti quelli della mia e di molte altre generazioni. a venire.

Cominciai a lallare, poi a parlare. Non mi è stato riferito quale fosse la prima parola che ho pronunciato: spero non sia stata una parolaccia. Iniziai a fare i primi passi.

Tutto andava a gonfie vele (si fa per dire) fino al giorno in cui cominciai a frignare intensamente (normalmente ero un bimbo tranquillo).

Notte e giorno a rifiutare il cibo, ad avere la febbre. Fu necessario chiamare il medico (allora non si ricorreva al pediatra: c'era il medico di famiglia che curava dal nonno al nipotino in fasce). Il medico, che era il dottor Trucchi, si mostrò preoccupato e sentenziò che si doveva trattare di infiammazione intestinale. Sarebbe stato opportuno, dopo alcuni tentativi di cura a base di palliativi, chiamare uno specialista.

Venne interpellato il dottor Pamparato, che, come mi vide e mi auscultò (allora non si facevano raggi o TAC; tutto era diagnosticato a vista e ad esperienza), scosse la testa e disse a mia madre “Stù figliò u l'à i bieli cume ina cartavelina… se u se sarva l'è in miraculu” [Questo bambino ha le budella di cartavelina... se si salva é un miracolo!].

Ed il miracolo, grazie alle cure del dottor Pamparato (che non era un ventimigliese, ma parlava il nostro dialetto), si verificò. Dopo il trattamento prescrittomi rinacqui a nuova vita, anche se delicato di costituzione e, come diremmo noi, “schifignusu”, cioè molto esigente nel cibo.

Quell'anima santa di mia madre si privò del companatico per comprarmi la cervella, che Baciccia il macellaio metteva da parte per me. ”Scignua, sta chi a l'è pe u figgiò” [Signora, questa é per il piccolo!] diceva mentre la impacchettava nella carta gialla. Che sarebbe poi servita in caso di costipazioni unta cu a sungia (grasso) de gaiglina (gallina) riscaldata e messa sullo stomaco: rimedio assicurato. Il macellaio, poi, da buon genovese (non è vero che i genovesi sono pignesecche: si chiamava Canepa ed era il nonno di Anna Canepa, attuale magistrato) faceva un sconto notevole, perché conosceva le nostre condizioni. Era un commerciante come erano i commercianti di una volta, umano e comprensivo. Quanta cervella ho mangiato! Chissà se mi avrà giovato nel corso degli anni per sviluppare la mia materia grigia? Giudicatelo voi. Di “belinate” ne ho fatto tante ma qualche ragionamento ogni tanto scaturisce: quindi, penso che qualche... giovamento ci sia stato.

A questo punto credo che ognuno di voi abbia sulla punta della lingua una frase “Ma allora eri proprio uno sfigato?”. Sì, lo ero, ma non fui il solo, poiché le malattie infantili in quel tempo erano molto frequenti e non sempre avvenivano i miracoli come per me. La mortalità aveva una alta percentuale, ma chi si salvava diventava forte come una roccia.

Accennando al macellaio Baciccia mi è d'uopo spezzare una lancia per i commercianti di allora, “i bitegai”, i quali, dovendo operare in quel periodo di precarietà, avevano istituito il classico “libretto”, un quaderno sul quale venivano segnate le spese giornaliere delle famiglie disagiate che al momento della paga provvedevano a saldare, il più delle volte rimanendo con pochi spiccioli in tasca per arrivare alla fine del mese). Raramente però accadeva che il debitore non ottemperasse ai suoi doveri: l'onestà era un valore; se si perdeva, si perdeva anche la dignità. Il bottegaio di generi alimentari, che di solito forniva la maggior parte del necessario, dal pane alla verdura, era insomma la nostra piccola banca (nelle banche vere accedevano solo benstaghenti e sciù) in un'economia che si reggeva nel suo piccolo molto meglio di oggi.
Il nostro banchiere era Luca Spano, che aveva l'esercizio dove oggi si trova un negozio di abbigliamento proprio sotto casa mia [davanti ai Giardini Pubblici di Ventimiglia], un sardo buono e simpatico col sorriso sempre stampato sulle labbra e il cuore aperto per ogni evenienza.

Questa dunque la mia fanciullezza, ma di crescere non se ne parlava …

di Gianfranco Raimondo di Ventimiglia (IM)