"L’entrata in guerra" porta il titolo del primo dei tre racconti di cui è composta. "Gli avanguardisti a Mentone" e "Le notti dell’UNPA" sono gli altri due. Ci soffermeremo brevemente sulla storia editoriale di questo trittico e sull’esame del racconto che dà il nome.
Tutti questi testi vennero scritti tra il ’52 e il ’53 <130 e l’edizione del 1954 li riuniva in un unico libro della collana Einaudi «I Gettoni», curata da Vittorini; ma due di essi erano già stati pubblicati in rivista: "Gli avanguardisti a Mentone" su «Nuovi Argomenti» <131 (I, 2, maggio-giugno 1953) e "L’entrata in guerra" sul «Ponte» di Pietro Calamandrei <132 (IX, 8-9, agosto-settembre 1953). Nell’edizione del ’54 si aggiunse l’inedito "Le notti dell’UNPA".
[...] Si tratta come dicevamo di tre storie che si situano cronologicamente nei primissimi tempi della seconda guerra mondiale, quando l’autore era ancora adolescente e le scelte esistenziali e ideologiche erano in fieri, il «passaggio obbligato» all’età adulta non ancora avvenuto.
L’inizio della guerra, pertanto, con il suo portato di esperienze traumatiche non solo coincide ma determina per l’autore e la sua generazione l’entrata nell’età adulta, e gli eventi narrati nelle tre storie si configurano, quindi, come «riti di passaggio».
La tecnica scelta è ancora una volta quella dell’io narrante, che accentua il carattere di memoria autobiografica dei racconti.
Cominceremo da "L'entrata in guerra", seguendo così il criterio della cronologia degli avvenimenti, piuttosto che quello della stesura dei testi.
Il titolo delimita e definisce il momento storico preciso in cui si situa la narrazione.
Quest’ultima, deludendo le possibili aspettative del lettore, non ha nulla di epico e di guerresco, al contrario sceglie un punto di vista di basso profilo, quello di una cittadina rivierasca al confine con la Francia (ovviamente Sanremo) e un protagonista antieroico nella persona di un ragazzo di diciassette anni.
La mattina del 10 giugno 1940, giorno della dichiarazione di guerra dell’Italia, vede il protagonista e il suo amico Jerry Ostero, un giovane aristocratico piemontese, in spiaggia in un atteggiamento di noia e svogliatezza: «Erano tempi che non avevamo voglia di niente», dice il protagonista. I ragazzi attendono il discorso di Mussolini alla radio nel pomeriggio ma ne è ancora incerto il contenuto. Trascorrono la mattinata in moscone <140 con una ragazza, alla quale l’amico Ostero fa la corte. Poche ore più tardi, la dichiarazione di guerra: si rompe così il clima d’attesa che la prima pagina del racconto aveva creato. Lo svolgersi della narrazione presenta il fratello di Jerry, un giovane ufficiale che l’inizio della guerra coglie in licenza e che è incerto se ritornare subito al reparto per tema che la guerra finisca prima della scadenza del permesso: "Si mosse per andare al casinò a giocare; secondo come gli sarebbe andata avrebbe deciso sul da farsi. Veramente lui disse: secondo quanto avrebbe vinto; difatti era sempre molto fortunato. E s’allontanò col suo sarcastico sorriso a labbra tese, quel sorriso con cui ancora oggi ci ritorna in mente l’immagine di lui, morto in Marmarica". (CALVINO, 1991: 487)
Lo stridente contrasto tra quel «era sempre molto fortunato» e «morto in Marmarica» illumina repentinamente lo scenario, fino ad allora tranquillo, della luce sinistra della guerra. Nello scarto temporale tra le due frasi è condensata tutta la tragedia del conflitto mondiale.
Se, come vedremo, il ritratto del fratello dell’amico non corrisponde alla realtà storica, dietro la figura letteraria di Jerry Ostero di Bergia, invece, si cela effettivamente l’amico e compagno di scuola dello scrittore, Percivalle Roero di Monticello.
Varrà la pena di notare che il nome Ostero richiama sia il nome reale di Roero, sia quello letterario dell’Orazio shakespeariano, secondo quanto già avevamo accennato a proposito dell’anglofilia letteraria dell’autore e di questo suo amico di gioventù.
A questo racconto importanti correzioni vennero apportate da Calvino nell’edizione del 1974, relative all’amico aristocratico e a suo fratello, Aimone Roero di Monticello, ufficiale di artiglieria.
[...] È ragionevole chiedersi il perché di questi tagli come di altri di cui parleremo più avanti: la critica propende a interpretarli come una forma di riguardo dello scrittore nei confronti delle figure storiche coinvolte, come uno sforzo per renderle meno riconoscibili, ma anche si ravvisa, per esempio da parte di Barenghi, un effetto importante sul piano espressivo: «A venir meno è infatti un certo modo evocativo e dilatorio, caratteristico della letteratura memoriale, il gusto di riesumare le immagini delle persone conosciute, allineando ritratti». (BARENGHI, 1991: 1318)
Per quanto riguarda invece il confronto con le figure storiche di Percivalle e Aimone Roero di Monticello, ci possiamo servire dalle ricerche di Ferrua.
Il conte Percivalle Roero, intervistato da Ferrua, si riconosce nel personaggio creato da Calvino, almeno «per sommi capi»: "Riconosce il suo antifascismo precoce, ma non si vanta di essere stato un giovane dalle vedute politiche lungimiranti, bensì di aver sviluppato un’insofferenza nei riguardi di tutto quello che era fascista, per via dell’elemento canagliesco, grossolano, volgare ch’esso conteneva [...] Era anche vero che ammirasse l’Inghilterra [...] e fosse abbonato a riviste di quel paese". (FERRUA, 1991:164)
Meno fedele alla realtà storica è l’immagine della famiglia Roero che appare in un altro passaggio cancellato nella versione del ’74: "Il casinò chiudeva; per la mano d’opera alberghiera cominciava la gran crisi. Anche Ostero sarebbe partito, perché i suoi genitori che passavano i pomeriggi al baccarà non volevano restare per annoiarsi, e si sarebbero ritirati in Piemonte, al castello". <141(CALVINO, 1991: 1321)
Non corrisponde a verità, secondo quanto riporta Ferrua, che i genitori di Jerry-Percivalle si dedicassero ai giochi d’azzardo. Risulta anche molto alterato rispetto alla realtà il ritratto del fratello, Filiberto-Aimone. Se è vero che morì in combattimento in Libia nel 1942, ogni altro particolare della personalità è frutto d’invenzione. Percivalle Roero «nega che Aimone fosse giocatore e sperperatore e fanatico di automobili (la famiglia ne possedeva una sola). Non è vero neanche che non gli piacesse né cinema, né teatro di cui invece era avido. Leggeva Voltaire ma non Gibbon»". (FERRUA, 1991: 182)
È fuor di dubbio che il personaggio costruito da Calvino ha un fascino romanticodecadente che forse la figura storica non possedeva e che giustifica le alterazioni ai fini dell’interesse narrativo.
Ma per tornare allo sviluppo del racconto di questi primi giorni di guerra, ritroviamo il protagonista all’indomani del discorso di Mussolini nel mezzo del parapiglia e dell’eccitazione provocati dai primi segnali del conflitto: il passaggio di un aereo francese, il primo allarme aereo, la prima bomba. Un’unica vittima: un bambino che, a causa dell’oscuramento, s’era rovesciato addosso una pentola d’acqua bollente ed era morto: "Era stata una disgrazia, niente di più [...] Ma la guerra dava una direzione, un senso generale all’irrevocabilità idiota della disgrazia fortuita, solo indirettamente imputabile alla mano che aveva abbassato la leva della corrente alla centrale, al pilota che ronzava
invisibile nel cielo, all’ufficiale che gli aveva segnato la rotta, a Mussolini che aveva deciso la guerra..." (CALVINO, 1991: 487)
È in questo modo obliquo che l’autore sceglie di darci la misura della tragedia al suo inizio, così come in maniera altrattanto antieroica descrive i primi concreti effetti sulla vita della comunità cittadina: l’arrivo dei profughi evacuati dai paesi dell’entroterra ligure.
È a questo punto del racconto che ritroviamo le figure dei genitori: "A casa trovai i miei genitori turbati dagli ordini di evacuazione immediata per i paesi delle vallate prealpine. Mia madre, che sempre in quei giorni paragonava la nuova guerra alla vecchia [...] ora ricordava gli esodi dei profughi veneti del ’17, e il diverso clima d’allora, e come questo «evacuamento» d’oggi suonasse ingiustificato, imposto con un freddo ordine d’ufficio". ( Ibid., 488)
Si deve ricordare che la madre di Calvino, «socialista interventista nel ’15 ma con una tenace fede pacifista» (CALVINO, 1994: 136), durante la prima guerra mondiale fu decorata con la medaglia d’argento per il suo servizio di crocerossina.
Al padre lo scrittore dedica un lungo brano che sintetizza e conferma tutto quanto abbiamo finora imparato su di lui. Il mosaico che, tessera per tessera, abbiamo fin qui ricostruito, si ricompone in questo ritratto de "L’entrata in guerra". Vale la pena citarlo per intero: "Mio padre che sulla guerra diceva solo cose fuori luogo, perché, essendo vissuto in America durante il primo quarto del secolo, era rimasto un uomo spaesato all’Europa ed estraneo ai tempi, ora vedeva anche sconvolgersi lo scenario immutabile delle montagne familiari a lui dall’infanzia, il teatro delle sue gesta di vecchio cacciatore. Era preoccupato di sapere, tra i colpìti dall’ordine, i compagni di caccia che contava in ogni paese sperduto, ed i poveri coltivatori che gli chiedevano perizie per ricorrere contro il fisco, e gli avari querelanti le cui liti era chiamato a dirimere, camminando ore e ore per definire i diritti d’irrigazione d’una magra fascia di terreno. Ora già vedeva le fasce abbandonate tornar gerbide, i muri a secco franare, e dai boschi emigrare, spaventate dai colpi di cannone, le ultime famiglie di cinghiali che ogni autunno egli inseguiva coi suoi cani". (Ibid., 488)
È questo sicuramente il ritratto del padre più completo e fedele fin qui tratteggiato. Pur nella lucida e obiettiva valutazione dei limiti paterni, esso è pervaso da un’accorata partecipazione e comprensione dei sentimenti di preoccupazione che animavano il genitore per le sorti dei contadini e della campagna e degli animali, insomma di tutto ciò a cui aveva dedicato la vita.
La versione del ’54, poi corretta, arricchiva ulteriormente il ritratto di una coloritura epica e lo esaltava con dati relativi all’esperienza americana: "[...] il teatro delle sue gesta di vecchio cacciatore, quel suo scabro, ispido regno per riconquistare il quale aveva lasciato i pingui campi di tabacco dello Yucatan, e aveva portato i figli traversando il mare come una nuova Canaan ad allevarsi nell’Italia di Mussolini". (Ibid., 1321)
Non possiamo dimenticare che questo testo fu scritto a poco più di un anno dalla morte del padre e precede immediatamente la stesura dell’altro racconto di questa trilogia, "Le notti dell’UNPA", nel quale, come vedremo, proprio nella pagina finale, Calvino paga un altro bellissimo omaggio al padre.
S’inaugura così una serie di scritti in cui la figura paterna assumerà nella memoria una statura sempre più alta e lo scrittore continuerà nel lavoro di elaborazione dei conflitti che caratterizzavano la loro relazione.
Questo processo troverà un ulteriore sviluppo in quella che può essere considerata una delle più belle opere di Calvino: "La strada di San Giovanni".
Riprendendo ora il filo del discorso sul racconto in esame, ritroviamo il nostro protagonista nella scuola dove sono stati ricoverati gli sfollati dei paesi dell’entroterra.
Gli è arrivato l’ordine di prestare servizio in qualità di “avanguardista” <142, potrebbe evitare di andare, come fa l’amico Ostero, ma sente il dovere di obbedire all’ordine di adunata. Anche in questa occasione il legame familiare riafferma la sua importanza: "Invece a me questo fatto dei profughi esercitava un richiamo, di cui non avrei saputo spiegare la ragione. C’entrava forse il moralismo dei miei genitori, quello civile, da guerra del ‘15, interventista e pacifista insieme di mia madre, e quello etnico, locale di mio padre, la sua passione per quei paesi trascurati e angariati". (Ibid., 489)
La guerra assume ora il volto antieroico degli sfollati, della povera gente dell’entroterra ligure, costretta ad abbandonare i cascinali e i pochi averi, e impone al giovane borghese, che vive con senso di colpa i privilegi di cui gode, di confrontarsi con questa realtà. Per un verso è animato dal desiderio di portare aiuto, ma per altro verso non può vincere il senso di estraneità e di repulsione che gli suscita la vista di tanta miseria. Particolarmente difficile è il contatto con l’umanità deforme <143 che gli si presenta davanti: "Ma il dato caratteristico di quella umanità [...] era la presenza in mezzo a loro degli storpi, degli scemi gozzuti, delle donne barbute, delle nane, erano le labbra e i nasi deformati dai lupus, era l’inerme sguardo degli ammalati di delirium tremens. Era questo il volto buio dei paesi montanari ora obbligato a svelarsi". (Ibid., 493)
Ciò non di meno egli compie il suo dovere: presta aiuto ad un «piccolo vecchio rattrappito», adagiato dentro una cesta appoggiata al muro in cima ad una scalinata, aiuta a trasportarlo in una stanza al pianterreno, gli dà da mangiare, lo porta al gabinetto, finché si presenta l’occasione per andarsene: il vecchietto pare aver bisogno di un medico e il protagonista si offre di cercarlo. Questa lunga scena, affollata di personaggi (l’infermiera, «le madame fasciste», le nuore del vecchio e perfino un conoscente di famiglia), termina con una nota dissonante, che, nel gioco delle opposizioni, mette ancor più in evidenza la drammaticità di quanto fino a questo punto è stato narrato: "Quando lo riponemmo nella cesta, vennero degli altri dubbi:- Ma non muove più questo braccio, ma non apre più quest’occhio! Cos’ha, cos’ha? Ci vorrebbe un dottore...- Un dottore? Vado io! - feci, ed ero già corso via. Passai dal maggiore. Fumava affacciato a un balcone e guardava un pavone in un giardino". (Ibid., 495)
Il maggiore cui l’autore fa cenno è un altro elemento autobiografico che appare nel racconto. Si tratta del maggiore Criscuolo, che nel corso della narrazione era già apparso: «Ah, sei tu? - disse riconoscendomi - come sta la mamma? e il professore? Be’, stattene qua, ora vediamo». (Ibid., 492) Nella versione del «Ponte» era il maggiore Mazzullo «nostro vicino di casa», in quella del ’54 diventa maggiore Criscuolo «nostro conoscente». Chi fosse nella realtà Criscuolo, Ferrua non lo rivela: «per ragioni di rispetto per l’autore non identificheremo tutti i personaggi (alcuni di loro e le loro famiglie ce lo hanno chiesto) e ci limiteremo ai più riusciti, ai più noti, ai più positivi». (FERRUA, cit.: 102)
Il racconto procede con le considerazioni del protagonista su quanto aveva fino a quel punto sperimentato della guerra: "Io pensavo al nostro distacco verso le cose della guerra, che con Ostero eravamo riusciti a portare ad un’estrema finezza di stile, fino a farcene una seconda natura, una corazza. Ora la guerra mi si rivelava nel portare al gabinetto i paralitici, ecco fin dove lontano m’ero spinto, ecco quante mai cose accadevano sulla terra, Ostero, che non supponeva la nostra tranquilla anglofilia". (Ibid., 496)
Il racconto si conclude, come giustamente nota Barenghi, in maniera speculare rispetto all’inizio, con l’apparizione di Mussolini che passa in macchina per ispezionare il fronte: "Io l’avevo appena visto. Mi colpì quant’era giovane: un ragazzo, un ragazzo pareva, sano come un pesce, con quella collottola rapata, la pelle tesa e abbronzata [...] E come in un gioco, cercava solo la complicità degli altri, poca cosa, tanto che quasi s’era tentati di concedergliela, per non guastargli la festa, tanto che quasi si sentiva una punta di rimorso, a sapersi più adulti di lui, a non stare al gioco". (Ibid., 498)
Di nuovo la situazione paradossale - un ragazzo si sente più adulto del Duce - mette in luce la verità del dramma in atto: la guerra non è gioco e ci coinvolge nostro malgrado, per quanto «distacco» si pensi di porre tra noi e la realtà.
[NOTE]
130 Si conservano i manoscritti di questi racconti. Le copie portano data e titolo: "L’entrata in guerra", Torino 14-6-1953 / Sanremo 5-7-53; "Gli avanguardisti a Mentone", Sanremo 25-12-52 / Torino 18-1-53; "Le notti dell’UNPA", «finito 24 sett. 53».
131 «Nuovi Argomenti» è la rivista bimestrale fondata da Alberto Moravia e Alberto Carrocci nel 1953, a quel tempo di chiara impostazione marxista. Nella prima fase continuò le pubblicazioni fino al 1965.
132 «Il Ponte» è una rivista mensile di politica e letteratura fondata a Firenze nel 1945 da Piero Calamandrei, giurista, giornalista e politico antifascista fondatore del Partito d’Azione. In una lettera a Calamandrei del 23 maggio 1953 l’autore scrive: "Da parecchi mesi ho cominciato un racconto che pensavo appunto di dare al «Ponte»; ma non riesco a finirlo, sia perché ho tante cose da fare, sia perché è «difficile» (da scrivere) e ogni tanto lo interrompo per riposarmi scrivendo qualcosa di più facile". (CALVINO, 2000: 371). Il 25 luglio 1953, finito il racconto, lo invierà a Calamandrei: "Le mando per “Il Ponte” un racconto che ho finito adesso: "L’entrata in guerra". Spero Le piaccia: e mi faccia perdonare il ritardo nel mantenere la mia promessa. Questo racconto, insieme a quello che ho pubblicato recentemente su “Nuovi Argomenti” [Gli avanguardisti a Mentone] e con qualcos’altro che scriverò dovrebbero formare un libretto, intitolato appunto "L’entrata in guerra". (Ibid., 372)
140 Il “moscone” o “pattino” o “pedalò” è un’imbarcazione da diporto di piccole dimensioni comune sulle spiagge italiane; può essere dotata di remi o pedali ed è costituita da due galleggianti paralleli collegati da traverse sopra le quali sono fissati uno o più sedili.
141 I Conti Roero sono tuttora i proprietari del castello di Monticello in Piemonte e vi abitano stabilmente.
142 È forse il caso di richiamare alla memoria in che modo il regime mussoliniano, arrivato al potere, intese "fascistizzare" la società italiana. Innanzitutto i giovani: nacque così l'Opera Nazionale Balilla (ONB) che era "finalizzata all'assistenza e all'educazione fisica e morale della gioventù". Vi avrebbero fatto parte i giovani dagli 8 ai 18 anni, suddivisi per età e sesso, in vari corpi. Corpi maschili: Figli della Lupa: 6-8 anni; Balilla: 9-10 anni; Balilla moschettiere: 11-13 anni; Avanguardisti: 14-18 anni. Corpi femminili: Figlie della Lupa: 6-8 anni; Piccole Italiane: 9-13 anni; Giovani Italiane: 14-17 anni. Scopo dell'ONB era infondere nei giovani il sentimento della disciplina e dell'educazione militare, renderli consapevoli della loro italianità e del loro ruolo di "fascisti del domani".
143 Questo tema, appena accennato in "Pranzo con un pastore", troverà completo sviluppo nella "Giornata di uno scrutatore". Ricordiamo in "Pranzo con un pastore": «Ed io mi ricordai dei dementi che s’incontrano spesso tra i casolari di montagna e passano le ore seduti sulle soglie tra nuvole di mosche e con lamentosi vaneggiamenti rattristano le notti paesane». (Calvino, 1991: 207)
Annalisa Piubello, Calvino racconta Calvino: l'autobiografismo nella narrativa realistica del primo periodo, Tesi di dottorato, Universidad Complutense de Madrid, 2016
Sulla mia supposta "amicizia"con Italo Calvino sono circolate a Sanremo molte innecessarie dicerie. Alcuni trovavano incredibile che, dato lo scarto di età, un’amicizia fra di noi fosse possibile. L’argomento, di per sé, non è affatto probante, perché ero un ragazzo precoce i cui amici furono quasi sempre maggiori di età, con differenze che andavano dall’uno ai cinque anni, rispettivamente con Mario Mignone, Renato Zaccari, Giuliano Martini, Guido Giorgi (il fratello Giorgio era invece uno dei pochi ad essere piú giovane di me), Carlo Mager (che frequentavo piú del fratello Paolo, pur mio coetaneo), Franco Martini, Franco Giordano, Libereso Guglielmi), con punte sino ai sette anni (Gerolamo Lanero) o addirittura ai sedici anni di scarto che mi separavano da Luciano Sceriffo.
All’estremo opposto vanno collocati coloro i quali, avendo letto distrattamente il mio libro su Italo mi attribuiscono un’intima amicizia con lui per via di alcune affettuose dediche al "caro Piero" (i miei genitori e i miei amici intimi mi hanno sempre chiamato Piero, ragion per cui almeno tre dei miei libri, scritti in italiano, sono firmati Piero anziché Pietro, primo nome di battesimo, seguito da Michele Stefano, usati solo nei documenti ufficiali) ma che è invece Piero Dentone, chiaramente identificato nel libro, dunque solo un caso di omonimia.
[...] Nei miei articoli precedenti o nel mio libro su Calvino mi limitai ad accennare ad episodi che fossero avallati da testimonianze di persone ancor vive e che potessero accomunarci nei loro ricordi: Libereso Guglielmi, Angelo Nurra, Tito Barbé, Gildo Carrugati (il quale, come me, frequentava Lanero e la ristretta cerchia degli appassionati del jazz che si riuniva periodicamente nella sua casa di San Martino, e che conosceva tutti i retroscena del suo dissidio con Calvino, risalente agli anni liceali) e qualche altro.
Questa è invece l’occasione di consegnare altri ricordi, anche se meno documentati, prima che vadano persi o siano del tutto dimenticati.
I primi incontri risalgono all’inizio del periodo bellico. Avvenivano nelle sale cinematografiche di San Remo che, a quell’epoca, ne comprendeva cinque: Centrale, Supercinema, Sanremese, Matuzia e Regina. Entrambi ne eravamo assidui frequentatori, naturalmente ognuno per conto suo. Io ero un ragazzino undicenne, lui un giovanotto diciottenne. Non ci poteva essere dialogo fra di noi, piuttosto qualche borbottio e lamentela. Non si poteva però non notare quel "prepotente" che occupava tre posti per quel suo modo caratteristico di "spaparanzarsi", quando sedeva da solo durante le sessioni pomeridiane. Sempre con bracciate di libri e quaderni. Durante i numerosi intervalli (fine della prima parte, della seconda, fine del primo tempo, del secondo, ecc...) lui prendeva appunti. Una volta ebbi l’ardire di chiedergli se gli pareva che il cinema fosse il posto adatto per fare i compiti (noi schiamazzavamo e lo disturbavamo) e lui, senza scomporsi, mi spiegò pazientemente che scriveva sul film. Cosa che mi rimase impressa, ma di cui non riparlai né con lui (quando, anni dopo, lo conobbi ufficialmente) né con altri, sin dopo la sua morte.
Pietro Ferrua,
Incontri e scontri con Italo Calvino, Ra.Forum, 25 aprile 2012
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Una vista da Monte Bignone sino alla Costa Azzurra - Foto di F. F.
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Soltanto poche pagine prima si era soffermato sul «mutamento ambientale» avvenuto intorno a sé con l'entrata in guerra dell'Italia, quando Sanremo da città «cosmopolita» era tornata a essere una «vecchia cittadina di provincia ligure»: "Fu, insensibilmente, anche un cambiamento d'orizzonti. Mi venne naturale d'immedesimarmi in questo spirito provinciale, che per me e per gli amici miei coetanei, appartenenti quasi tutti alle vecchie famiglie medioborghesi cittadine, figli di bravi professionisti antifascisti o comunque non fascisti, funzionava come da difesa contro il mondo intorno, il mondo ormai dominato dalla corruzione e dalla follia. Della mia famiglia, più che le esperienze esotiche, contava ora per me il vecchio fondo dialettale paterno, il radicamento nei luoghi, nella proprietà". <27
Si trattava di quei «luoghi» e di quella «proprietà» che fino a quel momento avevano lasciato indifferente l'adolescente Calvino, quando il padre lo trascinava con sé nelle sue sortite mattutine verso il podere di San Giovanni, lungo un itinerario in salita che partiva dalla porta della cucina e si inoltrava all'interno di un paesaggio agli antipodi rispetto a quello che per il padre rappresentava soltanto un'estranea e insignificante «appendice», rispetto al percorso in discesa che dall'ingresso principale di Villa Meridiana scendeva verso la città e il suo lungomare: «per me il mondo, la carta del pianeta andava da casa nostra in giù, il resto era spazio bianco, senza significato; i segni del futuro mi aspettavo di decifrarli laggiù». <28
E invece la guerra, con il suo «mutamento ambientale» e il conseguente «cambiamento d'orizzonti» che la scelta partigiana aveva reso necessariamente consapevole, lo aveva portato a uscire dalla stessa porta del padre per andare a decifrare i «segni del futuro» lungo quegli stessi itinerari nelle campagne e nei «boschi dell’entroterra» che il padre, «vecchio instancabile cacciatore», <29 conosceva «palmo a palmo» ed entro i quali andava «battendo vallata per vallata la montagna giorni e notti, dormendo in quei rudimentali essicatoi per castagne, costruiti di sassi e rami […] fino in Piemonte, fino in Francia, senza mai uscire dal bosco». <30
27 CALVINO, Saggi, cit., II, pp. 2741-2742.
28 La strada di San Giovanni, in CALVINO, Romanzi e racconti, III, cit., p. 7 (ma già pubblicato nel 1962, anno di composizione, sul n. 1 di «Questo e altro» e nel volume I maestri del racconto italiano, a cura di Elio Pagliarani
e Walter Pedullà, Rizzoli, Milano, 1964).
29 Come lo aveva definito Calvino nel questionario per «Il Caffè», IV, 1, gennaio 1956 (CALVINO, Saggi, cit., II, p. 2709).
30 ID., Romanzi e racconti, cit., III, p. 10.
Alessandro Ottaviani, «Qualcosa di gelosamente mio»: paesaggi della Resistenza nella narrativa di Italo Calvino, Academia.edu
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Sanremo (IM): la Chiesa di San Giovanni
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Sanremo tra le due guerre era, nelle parole di Calvino, «una cittadina […] piuttosto diversa dal resto dell’Italia, […] popolata di vecchi inglesi, granduchi russi, gente eccentrica e cosmopolita. […] A San Remo i quotidiani più letti erano quelli di Nizza, non quelli di Genova e di Milano. “L’Eclaireur” durante la guerra di Spagna teneva per Franco; “Le Petit Niçois” teneva per i repubblicani» <12.
Insomma, la città si presentava come un mosaico di voci e figure molto più variegato rispetto all’immagine monolitica della politica e della società imposte dal regime mussoliniano.
Il primissimo ricordo di Calvino bambino «è un socialista bastonato dagli squadristi […] col viso pesto e sanguinante, la cravatta a fiocco strappata» che entrò in casa chiedendo soccorso <13. Ma si tratta di un’immagine di violenza isolata nella sua drammaticità.
Lo scrittore ha precisato come la sua vita durante il regime, prima della guerra, non avesse in realtà niente di drammatico: «vivevo», ha scritto, «in un mondo agiato, sereno, avevo un’immagine del mondo variegata e ricca di sfumature contrastanti, ma non la coscienza di conflitti accaniti» <14.
Cresciuto in un ambiente laico e anticonformista eccezionalmente controcorrente per l’Italia di allora <15, Calvino si abitua a trovarsi «spesso in situazioni diverse dagli altri» <16. La madre, di «tenace fede pacifista» <17, ritarda il più possibile l’iscrizione del figlio all’Opera Nazionale Balilla perché non vuole che il bambino impari a usare le armi né, dovendo assistere alla messa della domenica, sia costretto ad «atti esteriori di devozione» <18. Una volta iscritto senza possibilità di esonero, Calvino partecipa, come gli altri bambini, «alle adunate e alle sfilate dei balilla moschettieri e poi degli avanguardisti: senz’alcun piacere, […] accettandole come una delle tante cose noiose della vita scolastica» <19.
I suoi compagni appartengono «quasi tutti alle vecchie famiglie medio-borghesi cittadine, figli di bravi professionisti antifascisti o comunque non fascisti» <20, e come lui sono «quasi tutti ostili al fascismo» <21 ma accettano «forme esteriori di disciplina fascista […] tanto per non aver grane» <22.
Così, crescendo nell’Italia mussoliniana ma ascoltando anche voci critiche verso il regime e frequentando persone che non vi si riconoscono, Calvino prima della guerra coltiva quello che più tardi definirà un «tranquillo antifascismo» <23: senza compiere azioni di protesta o di ribellione eclatanti <24, si limita a vedere nel credo fascista semplicemente «una via tra le tante, ma una via sbagliata, condotta da ignoranti e disonesti» <25: "fino a quando non scoppiò la Seconda guerra mondiale, il mondo mi appariva un arco di diverse gradazioni di moralità e di costume, non contrapposte ma messe l’una a fianco dell’altra; a un estremo stava il disadorno rigore antifascista o prefascista […] e di lì via via si passava attraverso sfumature di indulgenza alle debolezze umane e pressapochismo e corruzione sempre più smaccate e corrive seguendo tutta la fiera delle vanità cattoliche, militaresche, conformisticoborghesi, fino ad arrivare all’altro estremo, quello della assoluta pacchianeria e ignoranza e fanfaronaggine che era il fascismo beato dei suoi trionfi, privo di scrupoli, sicuro di sé" <26.
In questo quadro per Calvino avere uno spirito libero e indipendente, distinto dalla massa indottrinata dal regime, significa essenzialmente due cose: «rifiutarsi di amare le armi e la violenza» <27 e diventare «schernitori d’ogni retorica patriottica o militare» <28. In una società inquadrata militarmente fin dai primi anni di scuola, dove vigono «la proibizione d’ogni critica e d’ogni ironia» <29, distinguersi diventa «prima di tutto opposizione al culto della forza guerresca, una questione di stile, di “sense of humour”» <30. I miti totalizzanti della patria, della disciplina, dell’obbedienza al capo vengono allora irrisi e guardati con ironico distacco, per smascherare l’«ignoranza e fanfaronaggine» che stanno dietro alla retorica ufficiale.
Teniamo a mente questi due valori - antimilitarismo e ironia - che Calvino coltiva nell’infanzia e nella prima adolescenza come antidoti al fascismo; li ritroveremo più avanti.
[NOTE]
12 Italo Calvino, Autobiografia politica giovanile. I: Un’infanzia sotto il fascismo (1960), in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Milano, Mondadori, 1994, pp. 149, 155.
13 Ivi, pp. 149-150.
14 Ivi, p. 155. Cfr. anche Italo Calvino, I ritratti del Duce (1983), in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. II, pp. 2879-2880: «Il clima della violenza squadrista era pure registrato nei miei primissimi ricordi infantili […] ma quando cominciai ad andare a scuola il mondo pareva tranquillo e assestato».
15 Cfr. I. Calvino, Autobiografia politica giovanile. I: Un’infanzia sotto il fascismo cit.,
pp. 151-152.
16 Ivi, p. 154.
17 Ivi, p. 152.
18 Ivi, p. 154.
19 Ivi, p. 156.
20 Ivi, p. 158.
21 Ivi, p. 150.
22 Ivi, p. 160.
23 I. Calvino, Prefazione 1964 cit., p. 1198.
24 Cfr. Autobiografia politica giovanile. I: Un’infanzia sotto il fascismo cit., p. 156: «partecipavo alle adunate e alle sfilate dei balilla moschettieri e poi degli avanguardisti […]. Il gusto di sottrarvisi, di farsi sospendere da scuola per non essere andato all’adunata o per non aver messo la divisa nei giorni di precetto divenne più forte verso gli anni del liceo, ma anche allora era più che altro una bravata d’indisciplina studentesca».
25 Ivi, p. 152.
26 Ivi, p. 157.
27 I. Calvino, Autobiografia politica giovanile. II: La generazione degli anni difficili [1962], ora in Id., Eremita a Parigi cit., p. 169.
28 I. Calvino, Autobiografia politica giovanile. I: Un’infanzia sotto il fascismo cit., p. 159.
29 I. Calvino, I ritratti del Duce cit., p. 2883.
30 I. Calvino, Prefazione 1964 cit., p. 1198.
Beatrice Sica, Italo Calvino prima e dopo la guerra... in Raccontare la guerra: i conflitti bellici e la modernità, a cura di Nicola Turi, Firenze University Press, 2017 (Volume pubblicato con il contributo di: Associazione “Centro Internazionale di Studi Giuseppe Dessí” / Fondazione Dessí / Regione Sardegna / Fondazione Banco di Sardegna)