Un giorno, chiedo a Giacomo Amoretti di prepararmi degli appunti per la stesura di dati riguardanti la sua attività antifascista e resistenziale. Mi promette di prepararli e, fedele ai suoi principi d'onestà e precisione, mantiene la parola data e mi consegna un foglio. Lo apro. Un disastro! Tutto è condensato, le ho contate, in venti righe.
Mi rendo subito conto di tutto, e so che devo provvedere da solo. Ma ciò non è facile perché, da quelle venti righe, devo ricavare almeno l'essenza di cinquant'anni di battaglie per il popolo e la libertà; battaglie, è ben risaputo, condotte con una fermezza irriducibile, senza riserve né, mai, un'esitazione.
«Menicco» è di quei combattenti che paiono scolpiti nella roccia, tanto duri da affrontare ogni tempesta. Ma il suo cuore è tanto tenero e sensibile verso la sofferenza e la giustizia da offrire argomento per la più sentimentale e commovente delle descrizioni.
Egli nasce a
Oneglia da modesta famiglia di lavoratori (suo padre era il ben conosciuto calzolaio Lazzaro) il 9 giugno 1898
(10). Studia e consegue il diploma di licenza tecnica. Giovinetto, entra nel movimento giovanile
socialista, seguendo le idee del padre, iscritto alla sezione di Oneglia di quel partito fin dalla sua fondazione in seguito al Congresso di Genova del 1892. Dopo la scissione di Livorno, avvenuta com'è noto nel 1921, Giacomo Amoretti aderisce alla frazione terzinternazionalista finché, con l'avvento del fascismo e la promulgazione delle leggi eccezionali del 1927, aderisce al PCI.
Per tutto il periodo della dittatura, «Menicco» fa parte del Comitato direttivo del partito e tiene i contatti con i compagni comunisti della provincia di Genova, incontrandosi con Raffaele Pieragostini, e con quelli di Savona, soprattutto con Giuseppe Rebagliati (Pippo).
Nel periodo della guerra civile spagnola, egli è responsabile di un centro di smistamento dei volontari che si recano in Spagna per combattere a fianco del governo repubblicano
(11). L'incarico presuppone non solo grandi pericoli, ma anche il possesso di notevoli doti di abilità cospirativa, ed il consenso di tutta l'organizzazione clandestina.
Giunge l'
8 settembre 1943, e la lotta diventa oltremodo drammatica. La parola alle armi. Amoretti è uno degli animatori instancabili e porta un contributo inestimabile, sia per l'opera pratica, sia per la fiducia che la sua calma sa ispirare.
È con
Gilardi, Castagneto, Cascione: tutti insieme e con altri combattenti
adattano l'organizzazione clandestina ai nuovi compiti, presupposto indispensabile per l'esistenza dei primi nuclei di patrioti armati sulla montagna. Nasce il primo gruppo; poi gli altri, tra mille fatiche, ma con progressione inarrestabile.
Ora, Amoretti è «Leonida». Anch'egli ha il suo nome di battaglia. Un bel nome che, però, deve presto abbandonare. Il Triumvirato Insurrezionale
Ligure stima la sua opera preziosa anche a Genova. Ed a Genova egli va, e diventa «Silvano», ed entra a far parte del Comando della Delegazione delle Brigate d'Assalto Garibaldi della Liguria.
Ora è con Giovanni
Gilardi (12), suo concittadino imperiese che, avendone sposato la sorella, è a lui legato da vincoli di parentela. Due imperiesi al vertice della lotta resistenziale in Liguria.
«Silvano» è impegnato, con altri due compagni
(13), nella direzione dell'Ufficio segreteria e dell'Ufficio copia della Delegazione. L'incarico ancora una volta, adatto alle sue doti: coraggio, nervi saldi e osservanza scrupolosa d'ogni norma cospirativa. Permettere al nemico di scoprire l'ubicazione dei sopracitati uffici sarebbe una sciagura per tutta l'organizzazione della Resistenza.
Entrato nel Comando Militare Unificato, su proposta di Raffaele Pieragostini (Lorenzo), Amoretti assolve l'incarico di membro della Commissione stampa e propaganda.
Passano i mesi, e «Silvano» resiste con tenacia. Giunge l'inverno 1944-45, che
tanti lutti apporta nel campo patriottico. Ma s'avvicina la primavera con la prevista, immancabile vittoria sul nazifascismo. Ogni zona, al momento della liberazione, deve avere al proprio posto i suoi figli migliori. Remo
Scappini (Gi), dirigente del Triumvirato Insurrezionale Ligure, invia «Silvano» verso la sua provincia.
La prima tappa è d'avvicinamento, ed Amoretti va a Savona, dove partecipa all'insurrezione; finché, nei primi giorni di maggio del 1945, rientra nella sua Imperia.
Vite parallele con Giovanni
Gilardi: Imperia, Savona, Genova; tre città di tre province liguri in cui ambedue hanno lottato, sofferto, gioito e vinto. Ma l'ultima tappa, Imperia, non offre loro il dovuto riposo.
A liberazione avvenuta, Amoretti come Gilardi, continua la sua attività con un impegno che, anche se meno rischioso di quello precedente, è altrettanto difficile. La guerra tutto ha distrutto nella nostra Italia e, ciò che più è doloroso, ha sconvolto molte coscienze, creato desolazione e cicatrici e dubbi a non finire nel tessuto sociale.
«Menicco» prosegue il suo cammino ed inizia un'altra fase della sua lotta. È candidato nelle liste amministrative comunali, eletto consigliere, nominato Assessore alle Finanze del Comune di Imperia. Con una modestia senza pari, un'onestà illimitata ed una resistenza insospettabile nell'azione quotidiana, porta avanti il suo discorso che diventa sempre più altamente civile e sociale oltreché politico, teso all'educazione dei giovani ed alla pacificazione degli animi. Ogni momento della sua azione è un gradino di quella lunga e difficile scala verso la ricerca della verità. E della
Verità, il settimanale della Federazione del PCI post-liberazione, egli sarà l'equilibrato direttore.
Egli ha capito, con lucida visione politica, che la Resistenza esaurito il suo ciclo di sangue e di lotta, ne ha aperto altri di altrettanta feconda portata, perché tutto sarà vanificato se le masse popolari non conserveranno quell'unità d'azione e d'intenti che possono assicurare al nostro paese un avvenire di libertà e di giustizia.
Ecco Giacomo Amoretti, segretario dell'ANPI e poi dell'
Istituto Storico della Resistenza rivivere la sua nuova stagione in quel settore che necessita, tra l'altro, di conservare la primitiva onestà da trasmettere alle nostre giovani generazioni.
Lentamente, in Imperia «Menicco» diventa un simbolo, non più di uomo di parte, ma di cittadino probo da imitare, comprensivo degli errori e delle debolezze, sempre alla ricerca del dialogo e del contatto umano
(14).