martedì 31 dicembre 2019

Gli artisti Enzo Maiolino e Giuseppe Balbo

Giuseppe Balbo, Ritratto di Enzo Maiolino. Fonte: Archivio Balbo

Scrive Enzo Maiolino nel suo libro Non sono un pittore che urla [Conversazioni con Marco Innocenti, con uno scritto introduttivo di Leo Lecci, Ventimiglia, Philobiblon, 2014]:

"Balbo fu l’incontro più importante dei miei vent'anni. Devo a Balbo, alla sua generosità, la realizzazione del sogno della mia adolescenza: diventare pittore".

Balbo e Maiolino si sono conosciuti nel 1946, quando Enzo si unì ad un primo gruppo di pittori che cominciò a radunarsi  nello studio allestito [in Bordighera (IM)] da Balbo al ritorno dall’Africa. "Noi, allievi della sua Scuola serale, fummo subito etichettati “pittori dilettanti” o “pittori della domenica”.".

Balbo insegnava a “vedere” da pittore. Cosa complessa, una vera e propria tecnica. La scelta del soggetto, la comprensione dell'”insieme”, l’osservazione e il confronto tra i vari elementi, la percezione dei “valori” chiaroscurali e tonali, ecc. Tutto ciò, insomma, che precede la trasposizione di un soggetto sul supporto (carta, tela, tavola)… Secondo me Balbo conosceva molto degli antichi procedimenti. Come provava la sua consuetudine, specie nelle tempere murali, di abbozzare con toni freddi e procedere, poi, con velature di colori caldi”.
"Poiché ognuno di noi si guadagnava da vivere con un secondo mestiere, a volte, la domenica, la Scuola al completo si trasferiva in campagna per esercitazioni en plein air." (Maiolino, op.cit.) 
 
Nello studio di Giuseppe Balbo nel 1946: Balbo è il secondo da sinistra, in piedi, ed Enzo Maiolino è il primo da sinistra davanti alla porta finestra. Fonte: Archivio Balbo

 
In basso a sinistra Enzo Maiolino e Giuseppe Balbo in alto a destra. Fonte: Archivio Balbo  
Beppe Maiolino e Giuseppe Balbo nel 1953. Fonte: Archivio Balbo
Giuseppe Balbo ed Enzo Maiolino. Fonte: Archivio Balbo
Enzo Maiolino e Giuseppe Balbo. Fonte: Archivio Balbo
 
L’incontro fu fondamentale per la formazione del giovane pittore, ma fu importante anche per Balbo, che trovò in Enzo e nel fratello Beppe Maiolino due validi collaboratori. In particolare Beppe Maiolino, come fotografo, ha documentato momenti importanti della Mostre organizzate da Balbo.

I percorsi artistici di Balbo e Maiolino andranno avanti in autonomia, ma resterà sempre tra di loro un legame speciale, una vicinanza artistica nonostante gli opposti mondi pittorici. In particolare Maiolino  scrive due attente recensioni nel 1966 e nel 1972, in occasione delle personali di Balbo , rispettivamente nella galleria del “Piemonte Artistico Culturale” di Torino e nella galleria della “sua” Accademia di  Bordighera.

Giuseppe Balbo, Carnevale (puntasecca), 1957. Fonte: Archivio Balbo

In particolare, nel 1972,  Maiolino analizza con grande efficacia il mondo di Balbo:"… l’eclettismo di Balbo, più appariscente nelle due precedenti mostre, appare in questa più contenuto e un attento esame delle opere esposte ci permette una più serena riflessione sulla sua opera. La quale , a nostro avviso, presenta due aspetti fondamentali: il primo riguardante il diretto contatto del pittore con alcuni aspetti della realtà circostante; il secondo, l’estrinsecazione del suo mondo fantastico nel quale confluiscono spesso suggestioni letterarie e una sincera componente “surrealista”…".

Alla fine di questo articolo Maiolino si sbilancia:
Augurandogli altri lunghi anni di sereno lavoro, sentiamo che ci riserverà ancora delle sorprese (il suo recente entusiasmo per alcune tecniche calcografiche mai prima sperimentate, ci fa ben sperare in tal senso).

Le sperimentazioni calcografiche di Balbo si erano fermate alla puntasecca e alla xilografia, le tecniche incisorie più immediate, dove il segno morde e comanda, senza ripensamenti ma anche con minori possibilità espressive.


Torino, Galleria La Tableau, 1972: Vanni Scheiwiller (a sinistra) con Enzo Maiolino davanti alle incisioni de "La casa nera" - Foto di Beppe Maiolino - Fonte: Archivio Balbo
 
Invece Maiolino già negli anni 50 affrontava il mondo delle acqueforti, e proprio nel 1972 realizza una significativa cartella di sei acqueforti dal titola “La casa nera”, a cura di Vanni Scheiwiller.

Marco Balbo scrive: "Ho un ricordo vivido di una estate dei miei sedici anni; nel magazzino dei fiori di mio padre Elio, spesso usato dallo zio Beppe per i lavori ingombranti, appare un torchio da stampa, bottiglie di acido, carte preziose, e con la guida tecnica di Enzo, Balbo realizzerà una bellissima serie di acqueforti con acquatinta, allo zucchero e a pasta molle."

Redazione, ...Balbo, 2016

“È guardando agli innumerevoli aspetti della natura e della vita, come ai più diversi momenti della vicenda umana, che Giuseppe Balbo ha creato una inesauribile e ricchissima antologia, mosso da una mai quieta curiosità esplorativa e, più nel profondo, da una assoluta necessità di intendere le cose e la realtà intorno a sé attraverso la pittura stessa. Per tutta la vita egli ha visto, ha osservato, ha raccontato o ha illustrato e, soprattutto, tutto ciò ha dipinto, respingendo suggestioni e modi che non lo riguardavano, lavorando con assiduità e convinzione. Balbo ha saputo dare l’esempio di un impegno dignitoso e severo ed ha fornito insieme una lezione della più alta fedeltà”. 
Massimo Cavalli, Giuseppe Balbo, “La Voce Intemelia”, 23 gennaio 1978 

A partire dagli anni Settanta Enzo Maiolino approda ad un astrattismo di matrice neoconcreta, attraverso un’inedita combinazione di forme geometriche basate sui giochi del Tangram, dei Pentamini e degli Esamini. Numerose le personali a lui dedicate, dalle prime mostre liguri alle grandi esposizioni tedesche di Ingolstadt, Bottrop, Bonn, Colonia, Münster. Nel 2007, in occasione del suo ottantesimo compleanno, il Museo Civico di Sanremo gli dedica la Mostra “Geometrie in gioco. Enzo Maiolino. Opere 2000-2007”, a cura di Leo Lecci e Paola Valenti. Oltre ad una ricca selezione di opere grafiche e pittoriche, una sezione della mostra espone i documenti raccolti da Enzo Maiolino nella sua lunga attività di artista e studioso: libri, fotografie, manifesti, depliant, pubblicazioni, articoli di giornali che testimoniano e raccontano tutte le vicende legate alla vita culturale dell’ultimo cinquantennio. Una parte consistente dell’Archivio Maiolino è attualmente conservata presso l’AdAC (Archivio di Arte Contemporanea dell’Università degli Studi di Genova) al quale l’artista ha deciso di destinare la sua intera raccolta documentaria.
Redazione, Enzo Maiolino, Comune di Sanremo (IM), ottobre 2014

Giuseppe Balbo, Il soldato, 1914. Fonte: Archivio Balbo

Giuseppe Balbo, Sitio, 1929. Fonte: Archivio Balbo

Giacomo Balla, visitando una sua mostra a Bordighera, difende ed elogia pubblicamente "Il soldato" che Balbo dipinge nel 1924.
Nel 1929 espone a Bolzano. L'altorilievo "Sitio" è premiato con medaglia d'oro e viene segnalato il dipinto "Uova".
Come scriverà Enzo Maiolino nel 1966: "La partenza artistica di Balbo può essere definita triangolare, Giacomo Balla e Adolfo Wildt alla base e Andrea Marchisio al vertice".
Redazione, La formazioneBalbo, 2016
 
Enzo Maiolino, calabrese di nascita (1926) e ligure d’adozione (dal 1937), pubblicò le sue prime acqueforti negli anni Settanta e iniziò a orientare la propria opera verso una pittura aniconica di matrice neoconcreta con splendide scansioni cromatiche, praticando intanto l’arte incisoria per sperimentare ancor meglio l’astrazione delle forme.
Nel 1993 il critico e storico d’arte tedesco Walter Vitt conobbe l’opera di Maiolino e cominciò a promuoverla tramite una mostra monografica e itinerante per la Germania (1996-1997) e poi curò un prezioso catalogo (1).
Con l’aprirsi del nuovo millennio anche l’Italia s’è accorta dell’artista, nel 2001 alcune sue creazioni sono entrate nella collezione permanente del Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce e, nello stesso anno e sempre a Genova, la Fondazione Novaro gli ha conferito il premio per la cultura con la rondine in ceramica (oltre ad avergli dedicato per intero il quaderno numero 35 de «La Riviera Ligure»).
Maiolino, per limitarsi a qualche esempio emblematico, ha pubblicato testimonianze inedite e rare su Amedeo Modigliani (2), ma anche una raccolta di racconti di Giacomo Natta (3), ha impreziosito con i suoi disegni diverse sillogi poetiche (soprattutto per Vanni Scheiwiller) e ha rilasciato una lunga intervista su se stesso, eloquente sin dal titolo Non sono un pittore che urla (4).
Il sapere del poliedrico pittore si poggiava saldamente su una memoria fatta di mille cassetti dove tutto era stato messo gelosamente al sicuro e ordinato con paziente perizia, mentre la sua curiosità e la sua generosità rendevano d’impiccio chiavi e combinazioni: era sempre pronto ad archiviare un nuovo documento, ad aggiornare una vecchia bibliografia, ad attentare all’intrico di una questione complicatissima, e con forza uguale e teneramente contraria ti concedeva di guardare da vicino, ti coinvolgeva nella gioia di una scoperta, ti chiedeva di ripartire daccapo e insieme per una ricerca fin lì infruttuosa (quella relativa a Natta e Zambrano ci ha appassionato particolarmente).
 
[NOTE]
1 Walter Vitt, Enzo Maiolino 1950-2000. Das druckgrafische Werk. Opera incisa e serigrafica, Nördlingen, Steinmeier Verlag, 2000. Segnalo anche il catalogo a colori Geometrie in gioco. Enzo Maiolino. Opere 2000-2007 (Genova, De Ferrari, 2007), curato da Leo Lecci e Paola Valenti che tante attenzioni hanno dedicato all’artista “ligure”. 
2 Modigliani vivo. Testimonianze inedite e rare, a cura di Enzo Maiolino, con una presentazione di Vanni Scheiwiller, Torino, Fogola, 1981. Dopo 35 anni l’importante volume è pronto ed è tornato in circolazione grazie a una nuova edizione: Modigliani, dal vero: testimonianze inedite e rare raccolte e annotate da Enzo Maiolino, a cura di Leo Lecci, De Ferrari, Genova, 2016.
3 Giacomo Natta, Questo finirà banchiere. Racconti. Un ricordo di Giacomo Natta, a cura di Enzo Maiolino, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1984.
4 Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, con uno scritto introduttivo di Leo Lecci, Ventimiglia, Philobiblon, 2014. 
 
Alessandro Ferraro, La memoria di Enzo Maiolino, «La Riviera Ligure», quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, XXVIII, 83, maggio/settembre 2017

sabato 28 dicembre 2019

Un pittore americano a Bordighera

Villa Garnier a Bordighera (IM)
John Hemming Fry era un pittore, critico d'arte, mecenate, insegnante, benefattore e... molto ricco.
Tra un viaggio e l'altro, conobbe Bordighera verso la fine dell'800. Proveniente dagli Stati Uniti, dove nello stato dell'Indiana era venuto al mondo nel 1861. 
Viaggiò per l'intero globo, visitando molte nazioni e soggiornando in varie località, tra le quali la nostra città delle palme. 
Qui alloggiò saltuariamente in un paio di alberghi, poi a seguito del decesso di Charles Garnier, avvenuto nel 1898, prese in locazione dalla vedova del celebre architetto, la signora Marie Louise, la "Villa Studio"utilizzata dal defunto proprietario appunto come studio professionale. 
Nel 1913, Fry chiese alla proprietaria l'autorizzazione per effettuare delle modifiche all'interno dell'immobile, per rendere più funzionale il suo atelier d'artista.

Sposato con Giorgianna Timken, americana, nata a St. Louis nel 1864. I due si conobbero a Parigi, dove lei frequentava un corso di pittura e Fry era il suo insegnante. Dopo un breve fidanzamento, si sposarono il 29 luglio del 1891. 
Nel 1911 adottarono negli USA una bambina di circa un anno, Fredericka, la quale, nel corso della sua breve vita, si sposò con un italo-americano, Eligio del Guercio, ebbe un figlio e concluse la sua vita nel 1946, lo stesso anno dellla morte del suo padre adottivo. 
Ritornando a Fry, a causa delle sue innumerevoli attività viaggia in ogni luogo e purtroppo in un soggiorno in Cina, a Pechino, la moglie Georgianna muore, uccisa dalla peste. 

Un dipinto di John Hemming Fry
Intanto a Bordighera, dopo la morte della vedova Garnier, avvenuta nel 1919, viene aperto il testamento della stessa, nel quale risulta che la bianca villa va in eredità, per volontà del figlio Christian, deceduto anche lui nel 1898, alla Sociètè di Geographie di Parigi, con tutti gli arredi e l'immenso giardino. Inoltre alla stessa società va un vitalizio di 6.000 franchi l'anno per mantenere in ordine la proprietà, con il solo impegno di NON vendere la villa. 

Presto fatto, il 23 marzo del 1929 viene concluso l'atto d'acquisto della celebre villa da parte di John Hemming Fry.

Fry negli anni successivi apporta delle modifiche all'immobile acquistato, come la chiusura del loggiato d'ingresso, una modifica della parte terminale della torre e l'aggiunta di un locale alla cucina. 

Quando soggiornava nella villa edificata da Garnier, si dice che il transatlantico Rex, navigando davanti alla costa bordigotta, lanciasse, per ordine del comandante della nave, 4/5 fischi con le sirene di bordo, il famoso inchino, e di conseguenza Fry issava sulla torretta dell'immobile la bandiera a stelle e strisce. 
C'è chi afferma che il ricco americano fosse un uomo molto importante nella società della nave, tanto che gran parte delle assicurazioni stipulate dal gruppo che comandava la nave, partissero con il consenso della casa-madre, dall'agenzia Berry di Bordighera. 
Un'altra versione invece sostiene che Fry fosse "soltanto" proprietario di una suite sul famoso Rex. 

A destra John Hemming Fry (1938)
Il 28 aprile del 1935, a proprie spese, Fry, inaugura, con tutte le autorità cittadine, nella nascente pineta di Bordighera, un grande monumento in memoria di Charles Garnier. Progettazione dell'architetto Rodolfo Winter, per il basamento lo scultore Pasquali, ed il busto creato dall'artista francese Jean Baptiste Carpeaux.

John Hemming Fry muore nel Connecticut il 24 febbraio del 1946, e nel suo testamento chiede che le sue ceneri vengano disperse nel tratto di mare davanti alla sua villa di Bordighera
Nel 1949 il sindaco di allora, il prof. Raul Zaccari, a bordo della barca "Regina Pacis", la stessa barca utilizzata nel 1947 per il ritorno delle spoglie di Sant'Ampelio, di proprietà di Mario Biancheri e fratelli, con Cesarin De Benedetti, si recano nel mare sottostante la bianca villa e la massima autorità di Bordighera esaudisce l'ultimo desiderio dell'importante uomo americano.





sabato 21 dicembre 2019

La banda di Sante Pollastri al confine di Ventimiglia

 
Camporosso (IM)

[...] morte del Vice Brigadiere Pietro Somaschini e del Carabiniere Lodovico Aimone Gerbi, assassinati da alcuni malviventi a Camporosso (IM) il 7 dicembre 1926.
Due giorni prima, a Ventimiglia (IM), era stato ucciso da due banditi il fascista venticinquenne Giovanni Battista Gavarino, originario di Monesiglio, nel Cuneese, già addetto di garzone presso il buffet della stazione della città di confine, e da qualche tempo usciere presso il consolato generale italiano a Nizza.
Per le modalità che avevano caratterizzato il delitto, gli inquirenti ne avevano escluso immediatamente il movente politico, ritenendo che gli autori dell’omicidio fossero malviventi giunti a Ventimiglia con l’intenzione di varcare illegalmente la frontiera per recarsi in Francia.
In effetti, la polizia avrebbe appurato in seguito che gli assassini di Gavarino erano stati i famigerati banditi Sante Pollastri (detto anche Pollastro) e Giacomo Massari, i quali, pochi giorni prima dell’omicidio del giovane piemontese, avevano freddato a Milano anche due sottufficiali di Pubblica Sicurezza. 
Dal Comando della Tenenza di Ventimiglia venne quindi disposto che fossero intensificati i servizi di vigilanza svolti dai militari dell’Arma per impedire il passaggio illegale della frontiera.
La sera del 6 dicembre e la mattina seguente fu segnalata la presenza di due individui sospetti in Val Nervia, per cui vennero allertate le Stazioni di Ventimiglia, Dolceacqua e Pigna.
Dalla Stazione di Dolceacqua furono inviati, in abito simulato e con l’incarico di controllare il territorio circostante tra le 19,30 del 7 dicembre e le 0,30 del giorno successivo, il Vice Brigadiere Pietro Somaschini, originario di Genova, dove era nato il 5 aprile 1904, effettivo alla Stazione di Olivetta San Michele e in servizio provvisorio presso quella di Dolceacqua, e il Carabiniere Lodovico Gerbi, effettivo alla Stazione di Dolceacqua.
Nel rapporto inviato al Comando Generale dell’Arma l’11 dicembre, il Comandante del 1° Gruppo di Legioni, Generale di Brigata Giovanni Battista Da Pozzo, scrisse che nelle prime ore del mattino dell’8 dicembre il Maresciallo Florindo Pizzoglio, Comandante della Stazione di Dolceacqua, rientrato da un servizio di perlustrazione nella direzione opposta a quella percorsa da Somaschini e Gerbi, informato dal piantone della caserma che questi ultimi non erano ancora tornati, diede in un primo tempo scarsa importanza alla cosa, pensando a un normale ritardo dovuto a ragioni di servizio. Poche ore più tardi, però, preoccupato per il prolungarsi dell’assenza dei due militari, ordinò di farli cercare presso alcune località limitrofe, recandosi lui stesso nella zona di Camporosso, senza trovare nessuno.
Il Maresciallo decise quindi di informare del mancato rientro dei due il Comandante della Tenenza che dispose ulteriori ricerche, anch’esse senza alcun risultato.
Soltanto verso le tre del pomeriggio, un contadino, sceso in una scarpata costeggiante la strada di Camporosso, nei pressi del cimitero del paese, a circa due chilometri dall’abitato, scoprì i cadaveri dei due militari, che avevano ancora addosso gli indumenti da caccia usati la sera prima per camuffarsi, immersi in una pozza di sangue e crivellati di colpi d’arma da fuoco.
Dalle impronte rimaste sul terreno, gli inquirenti dedussero che tra i malviventi e i due carabinieri vi era stata una violentissima colluttazione, specialmente ai danni di Gerbi il quale, oltre alle ferite causate dalle armi, presentava profonde contusioni al collo e svariate ecchimosi. A terra furono rinvenuti otto bossoli, di cui quattro di cartucce dello stesso calibro di quelle con cui era stato ucciso il giovane Gavarino, le altre di calibro 6,35 mm. 
Al Vice Brigadiere Somaschini, ucciso con quattro colpi di rivoltella, era stata anche sottratta la pistola d’ordinanza, mentre a Gerbi, freddato con due colpi di rivoltella dello stesso calibro, i banditi
avevano prelevato una Browning calibro 6,35 mm.
 
La celebrazione a Camporosso (IM) della Messa in suffragio di Gerbi e di Somaschini. Fonte: Andrea Gandolfo, art. cit. infra
 
La tragica fine dei due militari produsse una notevole impressione presso l’opinione pubblica, suscitando un vivo allarme tra gli abitanti della zona.
Vennero quindi rinforzate, anche con militari inviati dal Comando di Legione a Genova, tutte le Stazioni di confine e, col concorso delle truppe di vari presidi del circondario e della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, furono organizzate battute per le vallate circostanti alla ricerca dei malviventi.
Mentre erano ancora in corso le indagini, il Carabiniere Tommaso Brondolo, verso le sette di sera del 9 dicembre, durante il servizio che svolgeva ogni giorno insieme ad altri cinque militari dell’Arma alla stazione di Ventimiglia per impedire gli espatri clandestini sui treni diretti in Francia, vide un individuo sospetto salire su un convoglio in procinto di partire. 
Rivoltella alla mano, Brondolo raggiunse il vagone cui si era aggrappato lo sconosciuto, che sarebbe stato identificato in seguito in Sante Pollastri.
Saltato sul predellino, Brondolo intimò a Pollastri di scendere dal treno ma venne centrato da quest’ultimo all’addome con due colpi di pistola, cadendo riverso al suolo a venti metri dalla tettoia della stazione, mentre il treno accelerava, cominciando a prendere velocità.
Successive perquisizioni, eseguite sul convoglio dal quale erano partiti gli spari, non permisero alle
autorità di polizia di verificare subito l’identità dell’assassino di Brondolo.
Parimenti infruttuose furono le indagini svolte da Carabinieri e militi della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale sulla linea ferroviaria tra Ventimiglia e Mentone, oltre che lungo le strade di accesso al confine.
Ma tutti gli indizi facevano supporre che il nuovo delitto fosse stato commesso da uno degli stessi autori dell’omicidio di Gerbi e Somaschini, come si legge già nella relazione del Generale Da Pozzo.
 
La Caserma dei Carabinieri a Sanremo (IM), intitolata a Gerbi. Fonte: Andrea Gandolfo, art. cit. infra
 
La Caserma dei Carabinieri "Pietro Somaschini" ad Imperia. Fonte: Andrea Gandolfo, art. cit. infra
 
Nel pomeriggio del 10 dicembre, a complicare ulteriormente la situazione, venne scoperta vicino a un binario della stazione di Ventimiglia una bomba a mano. E’ probabile che anche l’ordigno fosse da collegare al passaggio del Pollastri, il quale, prima di salire sul treno in partenza per la Francia, lo avrebbe lasciato a scopo intimidatorio.
Nel frattempo il Carabiniere Brondolo, dopo essere stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico che non sortiva gli effetti sperati, esalava l’ultimo respiro nel pomeriggio dello stesso 10 dicembre presso l’ospedale della città di confine.
Dopo i fatti di Ventimiglia e Camporosso, Pollastri verrà arrestato dalla polizia francese a Parigi nell’agosto del 1927 e poi condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Milano il 20 novembre 1929 per una serie di gravi reati, tra cui l’omicidio del Gavarino, ma non per quelli di Somaschini e di Gerbi. 
Scontati quasi trent’anni di carcere, il bandito venne infine graziato nell’agosto 1959 dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
Morì a Novi Ligure, il 30 aprile 1979, all’età di 79 anni. 
Il suo complice sembra invece si sia suicidato in Francia pochi giorni dopo la morte dei due carabinieri a Camporosso.
Per la tenacia e il coraggio con i quali i militari si erano posti sulle tracce e avevano affrontato i pericolosi criminali, il Vice Brigadiere Pietro Somaschini, il Carabiniere Lodovico Gerbi e il Carabiniere Tommaso Brondolo ottennero tutti dapprima l’encomio solenne del Comando Generale dell’Arma e quindi, con regio decreto dell’8 gennaio 1928, il conferimento della medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria.
A ricordo del loro sacrificio, nel 1936 la sede del neo istituito Comando di Gruppo (l’odierno Comando Provinciale) di Imperia fu intitolata al Vice Brigadiere Somaschini, mentre nel 1971 al Carabiniere Gerbi venne intitolata la nuova caserma dei Carabinieri di Sanremo, nota anche come “Villa Giulia”.
Andrea Gandolfo in NOTIZIARIO STORICO DELL'ARMA DEI CARABINIERI - n° 6 del 2016

39 Il campione e il bandito.
In questa storia non so distinguere la realtà dal romanzo. Mia madre che era venuta qui da Mede Lomellina parlava di Peotta e di Sante e dei morti sparati che c’erano stati al suo paese quando lei aveva dieci anni.
Persino Turati che dopo la morte di Anna Kuliscioff avrebbe voluto scappare in Svizzera per la via comasca, attraverso i passi che erano tenuti sotto strettissima sorveglianza dagli agenti di polizia; aveva dovuto rinunciare perché stavano effettuando ricerche intense per trovare il pericoloso bandito Sante PollastrI. Pertanto, l’unica alternativa che rimaneva era quella di effettuare l’espatrio via mare verso la Francia. Ci pensò Pertini in barca con gli amici savonesi nel dicembre del 1926.
La leggenda del bandito inizia quando Sante, uscendo da un bar, una sera del 1922, sputò una caramella amara al rabarbaro che cadde vicino agli stivali di due fascisti, che interpretandola come una sfida lo picchiarono a sangue.
Siamo nella città di Novi Ligure nota perché contrariamente al nome si trova in Piemonte. A dieci chilometri c’è Parodi Ligure e un chilometro più in là la frazione di Tramontana.
Si narra che i Novesi, ovunque si trovassero, si riconoscessero tra di loro, emettendo un caratteristico fischio detto “cifulò”. Si fischiava più spesso allora, e il livello di rumorosità consentiva la comunicazione sonora. Capitò così al celeberrimo bandito anarchico Sante Pollastri, verso la metà degli anni Venti, che fischiò per annunciarsi nella confusione del velodromo d’inverno di Parigi al grandissimo ciclista Costante Girardengo, chiamato l'Omino di Novi, e al suo masseur Biagio Cavanna, lo stesso massaggiatore cieco che qualche anno dopo manipolò i muscoli del campione Fausto Coppi.
Nel 1927, quando tutti credevano che Pollastri fosse rimasto ucciso in uno scontro a fuoco al confine fra Italia e Francia, il bandito raggiunse Parigi dove in quei giorni si disputava la “sei giorni”, importante gara ciclistica che vedeva Girardengo fra gli atleti più attesi. Poco tempo dopo fu l’occasione per il commissario Guillaume di arrestarlo nella metropolitana di Parigi.
Si dice che George Simenon si ispirò a lui quando a partire dal 1930 cominciò a scrivere i romanzi con il commissario Maigret come protagonista.
Ma partiamo dal dicembre 1926 quando per la banda di Pollastri incomincia la resa dei conti. Segnalati e braccati, cercano di guadagnare la via verso la Francia trasferendosi nella zona di confine ventimigliese.
La prima vittima è un cameriere fascista troppo curioso del buffet della stazione. Da quel momento dal 6 all’8 dicembre, Pollastri è segnalato in ogni luogo della zona intemelia.
Nella stazione ferroviaria di Ventimiglia il carabiniere Tommaso Brondolo intima al bandito Massari di fermarsi, il criminale tenta la fuga ma, inseguito, fredda il carabiniere con tre colpi di pistola.
C’è un amico di Ventimiglia che compare un paio di volte nelle cronache giudiziarie dei processi a Pollastri; una prima volta quando il bandito rientrato da un colpo in Costa Azzurra ottiene una Maino per poter raggiungere Novi ligure; la seconda volta quando prima di prendere al volo il treno lungo il percorso per la Francia senza passare dalla stazione, gli procura alcuni biglietti da poter esibire ad eventuali richieste del personale viaggiante francese. L’amico si chiama Palmarin o Parmarin secondo gli adattamenti dal dialetto. Non so chi fosse esattamente, lo conosceva bene Elio l’anarchico più umano che io abbia conosciuto e immagino che sostenessero una causa comune.
In quelle notti, una pattuglia di carabinieri (vicebrigadiere Somaschini e carabiniere Gerbi) incappa in una imboscata nei sentieri che fiancheggiano la provinciale per Dolceacqua: i militi, travestiti da cacciatori, cadono uccisi.
In memoria di quel fatto, l’allora comandante del reparto, il carabiniere maresciallo capo Luigi Ronteuroli fa erigere un cippo che esiste tuttora a un chilometro da Camporosso, dopo il cimitero.
L’associazione nazionale carabinieri ne cura la manutenzione e le caserme dei Carabinieri di Sanremo e Imperia sono intitolate ai due militi. Ma mentre non ci sono dubbi su chi abbia effettuato un paio di omicidi intorno alla stazione di Ventimiglia e Pollastri e i suoi saranno infatti condannati, su quanto successo a Camporosso esistono ancora oggi dubbi e sospetti che qualche ladro di polli o piccolo delinquente locale, abbia approfittato della presenza del bandito in zona per compiere una vendetta. Pollastri uscirà infine assolto per questi due omicidi.
Proprio quella sera, lì vicino, sulla collina a est in località Cassogna, i manenti di Migone sono a cena; qualcuno picchia ai vetri. Migone è un proprietario terriero che si è portato i contadini da Genova e dall’Oltregiogo e sarà anche un proprietario della Società Anonima di Distribuzione dell'Acqua. Mentre fuori piove ed è già buio, il padre di famiglia va a vedere chi bussa; essendo originario di Tramontana riconosce subito il famoso Pollastri che è capitato lì per caso a duecento chilometri dal paese, insieme a due compari. Fanno poche parole. Si siedono e mangiano un piatto di minestrone. Non c'è paura in casa, capiscono che si tratta di banditi che rapinano banche e gioiellerie non certo una casa di campagna e dei mezzadri.
Con poche parole si fanno spiegare dove si trovano esattamente, forse credevano di essere già in val Roia; invece sono ancora nella parallela val Nervia, più lontana dal confine.
Pollastri quando va via, lascia una tavoletta di cioccolata per i bambini. Uno di questi che allora aveva tredici anni e non aveva mai visto la cioccolata, è quello che anni dopo, ha raccontato questa storia.
Scriveva Giorgio Bocca su L’Espresso: «Noi andavamo al mare a Ventimiglia, dove ogni tanto, ma questo lo abbiamo saputo dopo, il bandito Pollastri, quello che era amico di Girardengo, lasciava qualche morto ammazzato nei carruggi della città vecchia».
Pollastri aveva un altro amico che lo aveva ispirato nel suo percorso anarchico e che si era dato lo pseudonimo significativo di “Renzo Novatore” e diceva «oggi cerco un’ora sola di furibonda anarchia e per quell’ora darei tutti i miei sogni, tutti i miei amori, tutta la mia vita» e ancora «per compagno ebbi sempre il pericolo che amai come un fratello. E sulle labbra sempre l'ironico sorriso dei superiori e dei forti». È difficile dire con certezza se anche Pollastri fosse anarchico ma è certo che a una domanda del giudice aveva risposto: «ho le mie idee».
Chi ha conosciuto Pollastri da uomo libero dopo trent’anni di galera, quando aveva ottenuto la grazia dal presidente Gronchi, lo descrive come una persona tranquilla come tante, che faceva l’ambulante e viveva onestamente. Sua mamma forse avrebbe detto come tante mamme che era stata tutta colpa delle cattive compagnie e di qualche donna.
Arturo Viale, Oltrepassare. Storie di passaggi tra Ponente Ligure e Provenza, Edizioni Zem, 2019

Altri lavori di Arturo Viale: L'ombra di mio padre, 2017; ViteParallele, 2009; Quaranta e mezzo; Viaggi; Mezz'agosto; Storie&fandonie; Ho radici e ali.
Adriano Maini

mercoledì 18 dicembre 2019

Adesso la notte è calma e va bene

Passo del Ginestro tra le province di Imperia e di Savona - Fonte: Wikipedia

Eccola lì dunque sta buriana maledetta che adesso è arrivata tutta intera fin nei paesi delle montagne, e ancora più in su. È arrivata fin nelle gole con pietrame pulito dal vento, dove prima si sentivano
soltanto i versi dei corvi i tocchi dei campanacci e il belare degli armenti. Adesso in queste vallate lo sanno tutti grandi e piccini che una buriana così non se la schiva più nessuno, perché è una fatalità:
nemmeno più i furbastri facendo i ruffiani come al solito coi loro giochi di prestigio riescono a scansarla, perché anch’essi ci sono per la pelle e devono scegliere per forza. O sei di qua o sei di là, non ci puoi stare più in nessun modo in mezzo facendo finta da imboscato; ma in genere, con tutto che c’è sta maledizione in tutti i posti dove vai, la gente si mette subito di qua al posto giusto, e ci resta. Di là si mettono soltanto gli altri che sono diversi, ma non contano niente perché gli altri non sono la gente. Loro sono diversi perché sono contro la gente e tutti lo sanno come sono, punto e basta.
[...]
Piantala di spiare dalle fessure come un vagabondo la brace nella cenere dei focolari; vattene finché puoi per la campagna pestando la neve; lo sai che tanto non hai più tempo per fermarti da nessuna parte, neve o non neve; ma sta tranquillo che quando non ne puoi proprio più, te lo trovi ancora un posto da buttartici dentro, e ti ci slargherai tra l’erica e i rovi con la coperta; forse di lì non ci passeranno. Adesso la notte è calma e va bene; ma è inutile che te la prendi se verso Ginestro si fatica a camminare con la ramaglia spessa fino al ginocchio; tu devi guardarti davanti se finalmente trovi del pulito per fermarti e fartici un posto da accucciarti con la coperta, ma fermo, sennò guai; devi vedere se tra gli sterpi puoi fartici un posto per riposarti un po’, il resto non conta.
...

Adesso succede che ti guardi intorno e non sai più cosa dire, nemmeno se ti sforzi […]; ma poi ti accorgi chissà perché, come se fosse la prima volta in questa stagione così diversa con le sparatorie
ormai inutili, che tu sei cambiato da quello che eri prima di cominciare. Però, adesso non metterti lì a pensare mentre ste cose succedono una sull’altra, tanto è lo stesso: se proprio lo vuoi sapere, te lo dico io cosa t’è successo col passare dei giorni, e tu non te ne sei accorto. È il crescere che ti è capitato tutt’assieme diventando grande da un giorno all’altro, quando subito ti parve un gioco o invece fu incoscienza; o ti ci trovasti impegolato: va a sapere com’è stato in questo modo veloce, con le sparatorie che non finivano mai.
Crescendo in tutta la confusione che ti sei trovato, in questo scapolartela che ti pareva impossibile, tu sei diventato grande tutt’assieme, passando dai giorni spensierati ai giorni della guerra; tu sei cresciuto alla svelta andandotene da una parte all’altra, sbattuto di qua e di là, nei boschi o fuori dei boschi, dentro i paesi o fuori dei paesi; peggio delle bestie.
[...]
Devi sapere, partigiano, che questa è la liberazione nazionale di tutta quanta la gente oppressa, che costa fatica; bisogna farla precisa, senza distrazioni, con la sacrosanta cèrnita e punizione dei responsabili, altro che balle; eppoi, ci sono tutte le altre cose che ci vogliono subito per la gente sinistrata: amlire amnistie booge wooge off limits, e scatolette in distribuzione gratuita. Adesso, partigiano, non complicare le cose con le tue faccende personali, e vattene a casa; quando in seguito
avremo più tempo, faremo qualcosa anche per te […]. D’ora in poi, però, tu personalmente tieniti per te nella memoria, soltanto questa parola resistenza, che ti hanno regalato; epperciò adoperala come
vuoi, dove ti capita, anche parlando. Non vedi che ogni tanto la usano in commozione anche quelli che non dovrebbero, nei loro discorsi, […]? Ma tu, ci mancherebbe altro, non offenderti: ormai sei cresciuto.
Questa parola resistenza devi sapere che adesso la mettono anche nei libri di storia; ma non ci riescono a spiegarla bene, come sarebbe giusto, per raccontarla precisa, com’è successa in pratica […]. Ma cosa vuoi ancora di più, o partigiano, dopo tutte ste celebrazioni e le parole e le baldorie del 25 aprile? Tanto è assolutamente inutile, perché tu lo sai che quando rimani da solo, è diverso, e ti succede sempre così; ti succede di ripensarci sempre con la tristezza, altro che i festeggiamenti le fanfare e il fracasso del porco mondo, che se lo porti via.
[...]
Osvaldo Contestabile, Scarpe rotte libertà: storia partigiana, Cappelli, 1982
 
[n.d.r.: Osvaldo Contestabile era stato commissario della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione "Felice Cascione" e una volta rientrato, guarito, nei ranghi garibaldini diventava commissario della IV^ Brigata d'Assalto "Domenico Arnera" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", sempre in I^ Zona Operativa Liguria]

Alcuni giorni dopo [a fine marzo 1945] ricevetti l'ordine di mandare un Distaccamento a Viozene, a disposizione del Comando Zona. Decisi di andare con cinque squadre, una per distaccamento e col vice Comandante di Brigata Lello [n.d.r.: Raffaele Nante, per l'appunto appunto vice comandante di Brigata, a quella data ancora genericamente indicata come "Val Tanaro", Brigata che solo alla vigilia della Liberazione assunse la denominazione ufficiale di IV^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Domenico Arnera" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"]. Credevo che Osvaldo [Osvaldo Contestabile], il Commissario, ormai completamente ristabilito, prendesse contatto con i vari Distaccamenti e anche con i componenti del C.L.N. perchè, è doveroso dirlo, i contatti con i vari componenti degli stessi non erano sempre improntati alla più schietta cordialità, (anche se, nel caso del C.L.N. dell'alta Val Tanaro, avevamo sempre trovato la massima comprensione.) Per Osvaldo invece le sue esperienze antecedenti (Commissario della quinta Brigata della Cascione e Commissario della Divisione Bonfante) lo avevano lasciato assai diffidente.
Arrivammo a Viozene e ci sistemammo in una frazione del paese. Subito dopo mi recai a salutare Curto [Nino Siccardi, comandante della I^ Zona Operativa Liguria]. Mi feci accompagnare da alcuni garibaldini, ma lasciai Lazzaro con Lello e gli altri, raccomandando loro di fare in modo che non rimanesse mai solo. Curto mi chiese notizie della Brigata alpina, dei Distaccamenti, dei loro Comandanti. Lo informai di Rustida, forse era stato il primo ex Sanmarco a diventare Comandante di Distaccamento, gli raccontai della sua eroica morte e il duro Curto mi disse: «Immagino quello  che provi, perché so che eravate uniti; il tuo grande difetto è che ti affezioni troppo ai tuoi uomini migliori, e in guerra, in special modo nella guerra partigiana, questo porta indubbiamente dei vantaggi. Ma si corre anche il rischio, nel caso della perdita di uno di questi, di non essere abbastanza sereni». Capii che lui, in quel momento, pensava alla morte di Giulio e di Cion e al suo errato comportamento a Carnino; lo interruppi e gli disssi: «Tu pensi a Upega; ma io sono certo che, se non avessimo avuto la disgrazia di avere con noi il Prof., le cose sarebbero andate in altro modo. «Puoi anche avere ragione», rispose.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, Ed. Istituto Storico della Resistenza e della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, p. 187

mercoledì 11 dicembre 2019

Cà da Roca

Realdo, Frazione di Triora (IM) - Fonte: Wikipedia

Il mio Realdo ha inizio nei primi anni della mia infanzia.
La mia bisnonna una Lanteri Lianó era di lì originaria.
Sono salita al paese sull’orrido quando la strada si fermava prima dei Carmeli.
Ho un ricordo vivido del sentiero tra i carpini, del ponte a schiena d’asino sul torrente e della risalita tra felci e muschi.
Era come entrare in una favola.
Ero una bambina.
Tornata più volte poi per accompagnare il nonno ad abbeverarsi alle sue origini negli anni più avanti.
Il forno comune era ancora affollato di teglie e di pane.
In passato era uso cuocere a turno il pane.
Un via vai di fascine e legna per alimentarlo.
Il piatto più povero e più ricorrente erano "Le patate ne la föglia".
Patate a fette con crema di latte e poca farinamesse in una teglia (foglia) coperta con un vecchio coperchio annerito dall’uso, su cui veniva messa della cenere calda.
Il profumo che sapeva di vita percorreva e si infilava in tutti i carruggi.
Ho potuto godere di quei gusti antichi cotti ancora nel Vecchio Forno.

Un paese ormai come tanti in cui gli occhi delle case sono tutti spenti.
Un silenzio assordante abbraccia e abita tutte quelle case addossate le une alle altre quasi per tenersi reciprocamente in piedi.
Solo il canto struggente di una vecchia fonte, la cui acqua ha benefiche proprietà, tenta di raccontare un passato di povertà estrema da cui erano stati costretti a fuggire.
Solo gli ultimi vecchi hanno resistito per fare l’ultimo viaggio al cimitero poco lontano.
Tenera la piccola piazzetta dal nome dei suoi abitanti più assidui: piazza Rospi.

Un fascino non traducibile a parole quando la neve caduta abbondante ne cancella i danni del tempo.
Succede allora di rimanere impigliati in un incantesimo.
Si è attratti da una forza sconosciuta a inoltrarsi su quei sentieri immacolati verso il bosco, subito fuori l’abitato, per riprendere il dialogo interrotto con la natura, da cui ci siamo allontanati per seguire il rumore assordante delle città.




venerdì 6 dicembre 2019

La Veijenda


Canale irriguo di Ouri (Pigna (IM)

La Veijenda era di domenica ed andava dalle ore quattro della domenica alle ore quattro del lunedì. L'ultimo che innaffiava era U Barba Già de Sorijun, che aveva l'acqua dalle ore due alle quattro della domenica.

Si raccontava che Baruna, uno dei maggiori possidenti pignaschi, nel secolo diciannovesimo coltivasse dei terreni in prossimità della sorgente delle Carsee e che, quando i contadini d'Ouri decisero di costruire il canale irriguo, che avrebbe portato l'acqua nei terreni coltivati, a suo piacimento, o quando riteneva utile innaffiare, non rispettasse la divisione delle ore, che i contadini si erano dati, in base alle esigenze ed alla grandezza dei siti in oggetto.

L'aiga (l'acqua) in un primo tempo fu incanalata per poter innaffiare i siti coltivati a castagneto. In seguito, quando il seminativo e la diversificazione delle coltivazioni crebbero, si ravvisò la necessità di incanalare l'acqua per tutta la bandita d'Ouri, e di dividerla ad ore sull'intero arco della giornata. (Tunin U Preva)
La particolarità del canale delle Carsee, era che di domenica l'acqua era libera, appunto, alla Veijenda. Questo tipo d'organizzazione era una risposta al fatto che, se il Baruna toglieva l'acqua nei giorni feriali a chi stava in quel momento, nelle sue ore, innaffiando, questi non aveva altra possibilità di recuperare l'acqua perduta che di domenica.
Allora si decise che chiunque avesse avuto bisogno dell'acqua, stabilita nella misura di un'ora, si sarebbe recato sulla mulattiera detta a Tira in prossimità del sito di Casciun, e li essendovi una bella pianta di fico vi avrebbe appeso uno straccio facilmente identificativo: appesolo nella parte più alta della pianta, aveva di conseguenza il diritto di innaffiare per primo.

Durante la siccità del 1920-1922, che mise a dura prova sorgenti e terreni coltivati, con la notevole riduzione delle sorgenti stesse, si dovette rimettere in discussione il modo con cui si prenotava l'acqua la domenica: straccio appeso al fico.

Non poche discussioni provocò quel sistema, perché chi aveva le campagne in prossimità del fico era in qualche modo avvantaggiato sulla scelta dei tempi: erano sempre gli stessi ad innaffiare per primi. Si ritenne che chiunque avesse bisogno d'acqua si sarebbe recato sul posto e avrebbe presenziato: contati i presenti si sarebbe proceduto all'assegnazione dell'ora della Veijenda. Chi primo arrivava conservava il diritto ad innaffiare per primo. Andava mio padre in piena notte e poi nella mattinata gli andavo a dare il cambio per non perdere il mio turno (Tunin u Preva).
Mi recavo sul bear con la sveglia per non perdere neanche un minuto d'acqua e anche per non togliere l'acqua prima che era arrivato il proprio turno, i minuti erano davvero preziosi, s^ era veramente preziosa quell'ora della Veijenda (Tunin u Preva)

Fredo de Pignatta chiese una volta a mia nonna: mi date la vostra ora, che devo andare via, devo vedere degli amici, devo essere a Lago Pigo oggi pomeriggio presto? Mia nonna, Petronilla Ferrero (a Maistretta), gli rispose: l'altra volta ti ho concesso di innaffiare prima di me, ma questa volta aspetti, prima innaffio io e poi tu al tuo turno. Così Fredo non poté recarsi a Lago Pigo, e questo forse gli salvò la vita, perché tutta quella fretta era legata al ritrovamento di un ordigno della seconda guerra mondiale. Insieme con altri ragazzi si erano dati appuntamento per provare a smontare quella bomba. Due di questi ragazzi, Ivo e Pippo, rimasero uccisi dall'improvviso scoppio. Fredo ringraziò mia nonna che involontariamente gli aveva salvato la vita. L'aiga a la sarvau [l'acqua l'ha salvato] mi diceva mia nonna...


Roberto Trutalli, Sindaco di Pigna (IM)