Giuseppe Balbo di Bordighera è ad Addis Abeba da circa due anni e gestisce un’impresa di materiale edile |
ADDIS ABEBA – 22 maggio 1940
Mi capita in ufficio Robertino Nasia. “Ci siamo“
fa, allegro e ridente e sventola una cartolina rosa. E’ il richiamo.
Resto allibito dalla sua incoscienza. Io sento il brivido della
vertigine. Sento che la cosa mi tocca molto da vicino. Non mi
interessano gli affari ormai agli sgoccioli.
“Bene verrò anch’io”. Resto solo. Rifletto un poco non tanto.
Potrei ritornare in Italia. Ci sarà la
guerra. Forse ne possono dubitare in Patria. Qui ad Addis Abeba no. Ne
siamo sicuri. Noi, gli stranieri, gli indigeni. L’Italia sembra ancora
più lontana. Ho già scritto a Silvio di non venire. Ho già avuto la
risposta. Non verrà.
Per chi ho fatto seminare da Tesfai le viole del pensiero?
Tutto da rifare. Ma io resterò. A far la morte del topo come tutti diciamo.
24 maggio
Eccomi qua. E’ Nasia. Il sergente Nasia.
Sempre incosciente. Come è possibile? Invece di inveire di maledire di
rammaricare mi informa che è al battaglione Genio, che si è fatto amico
del maggiore, che c’è una gran confusione. Si dice che partiranno presto
per invadere il Kenia.
“Dimmi, Roberto. E se venissi anch’io?”
“Dove, nel Genio?”
Stabiliamo il piano. E gliene parlerà al maggiore.
27 maggio
Mi sono arruolato volontario. Nel Genio.
Mi son denunciato come caporal maggiore. Dovrei essere sergente. Ma non
mi piace quel grado. Posso mentire. Intanto non ci sono i fogli del mio
distretto.
La sera mi trovo sotto la tenda con
altri tre; giovani, richiamati. Un ladro di polli lombardo, due
bergamaschi Pagani e Carrara. Pagani alto grosso biondo ingenuo. Carrara
tozzo piccolino nervoso, tutta malizia.
Piove. Piccola pioggia.
29 maggio
Ho conosciuto il comandante
del Battaglione Genio il maggiore Zavarrone. Vorrebbe che io andassi in
un ufficio. Si meraviglia della mia insistenza a stare in compagnia. Gli
devo sembrare un po’ matto.
2 giugno
Non siamo ancora a posto che
già ci sono i manifesti della mobilitazione generale; fino a
cinquantacinque anni. Fanno sul serio. Arriva qualche nuova recluta.
Come esercito di conquista non c’è male. Si parla sempre di invadere il
Kenia. Ma come è possibile? Ho conosciuto anche gli ufficiali. Pare che
nessuno abbia mai fatto un giorno di vita militare. Tutti goffi,
spaesati, sventati.
4 giugno
Siamo stabiliti in un accantonamento
alla periferia di Addis Abeba, nemmeno troppo lontano. Baracche. Gli
eucaliptus hanno fornito una branda unica che si allunga sui lati
intervallando le porte. Non ci sono finestre. Mi sono messo fra Pagani e
Carrara. C’è ancora Delfini un milanese simpatico e Lampronti, sempre
triste con occhi pesanti da bracco.
5 giugno
Pochissima quasi niente istruzione. Ci mandano intorno alla città a tagliare alberi: eucaliptus.
Non ci sono che quelli. E noi siamo
zappatori. E i soldati lavorano. Io non ho particolari mansioni di
comando. Lavoro anch’io e imparo a tagliare gli alberi. Secondo il sole,
secondo il vento, col taglio giusto per farli cadere dove si vuole. Mi
piace e mi fa bene.
Ma, senza saperlo, senza volerlo ho
suscitato una rivoluzione. Sono il solo graduato che lavora. I soldati
l’hanno notato e lo fanno notare con sottintesi o apertamente agli altri
graduati. Alcuni fra loro, vecchi genieri dicono che nell’arma del
genio anche i sottufficiali lavorano. Qualche volta anche gli ufficiali.
“Non siamo mica in fanteria!”
6 giugno
Stamane non posso tagliare
un albero da solo. Ci ho tutti intorno. Stanno a guardarmi e ridono
sorridono benevoli sornioni maliziosi. Ieri sera hanno compreso che,
malgrado le mie arie, non sono uno dei loro. E’ andata così!
Nelle due ore di libera uscita, dalle
diciassette alle diciannove ho fatto un salto a casa. Tesfai mi aspetta
sempre, accoccolato sull’uscio. Ho fatto un bagno, ho mutato biancheria,
son corso ad acquistare roba da mangiare in una rosticceria e poi
siccome si è fatto tardi sono rientrato all’accampamento in tassì.
Arrivato nella mia baracca con fiaschi di vino pollo e pane abbiamo
banchettato. Io con un appetito mai conosciuto. Dopo Delfini mi dice “Tu devi saper giocare a scacchi!”
Un po’ sorpreso gli rispondo che si, un poco. Tira fuori una scacchiera
e gli scacchi e sta per venire dal mio giaciglio. Gli dico di non
muoversi di mettere i pezzi e di annunciarmi le mosse, se ne conosce il
sistema. Lo conosce e comincia, meravigliato e incredulo. Fra lui e me
c’è di mezzo Pagani; di più volto la schiena. Svolgo il gioco di
gambetto di cavallo di re. Gli do scacco matto alla tredicesima mossa.
Ci sono cinquanta militari intorno. Non capiscono non credono e mi
guardano come una bestia rara.
Poi si dorme. E’ andata così ieri sera e stamane si divertono a vedermi tagliar fusti allegri.
“Caporal maggiore!”
Mi chiama da poco distante un ufficiale. Accorro. E’ un maggiore dei
granatieri. Mi pare di conoscerlo ma non lo ritrovo nella mia memoria.
Comincia a redarguirmi, mentre sto sull’attenti, della mia opera. “Il graduato deve saper comandare, non lavorare:” ma nel Genio …”
salta su di voce e mi passa un liscio e brusco di cui non afferro la
causa. Intanto dalla mia memoria viene fuori un impiegato della Banca
del Lavoro il quale per causa mia ma non per mia colpa si era preso una
lavata di testa dal direttore, tempo prima quando ero ancora civile. Si è
preso la rivincita. Ma che figuraccia sta facendo di fronte ai miei
soldati. Son sicuro che stanno mugugnando. Quando son lasciato libero
Pagani e Carrara vorrebbero sterminare i granatieri che lavorano con
noi. Mi ci vuole del bello e del buono per ammansirli.
7 giugno
Oggi abbiamo fatto una marcetta. Mentre
siamo sulla strada di Dessiè in colonna ai lati della strada avanzano
dei camions. Li scorgo da lontano. E’ l’ultimo carico di cemento che mi
arriva da Assab. Devono essere quattro. Circa mille quintali. Mi piazzo
nel mezzo della strada a braccia aperte. Il primo si ferma mentre i miei
camerati stanno meravigliati a guardare. Gli autisti mi riconoscono
ridono e prendono ordini.
Appena sono ripartiti il
tenente comandante del mio plotone mi avvicina mi chiede se so qualcosa
di quel cemento. E’ impresario mi dice e ha urgente bisogno di duecento
quintali di cemento. Quasi non creda quando glieli assicuro.
“Ma cosa sei venuto a fare negli zappatori?” mi dice.
9 giugno
Oggi sono stato in permesso.
La candela sta bruciando. Non si possono trasferire capitali. Non si
può telefonare in Italia. Mentre sono sovrappensiero al bar Sabaudia mi
sento chiamare. E’ Chiusonno Federico. Ha un appuntamento telefonico con
Bordighera. E’ uno degli ultimi. Lo incarico di salutare i miei. Ci
separiamo.
La guerra è vicina. Se lo chiedono tutti
l’un l’altro per la strada guardandosi negli occhi. Se uno qualunque
osasse dire che c’è stata la dichiarazione di guerra tutti ci
crederebbero subito.
10 giugno ore 10
Siamo in marcia per il
nostro lavoro quando veniamo sorvolati da un aereo, poi un altro un
altro e un altro ancora. Son sei. Vanno a oriente. Nulla sappiamo ancora
ma lo sentiamo. Difatti poco dopo l’ordine di rientrare
all’accampamento.
L’annuncio. Discorsi. Presentat armi. Eia. E restiamo mosci!
Giuseppe Balbo, Diario
Redazione, L'Africa. 1940-1945, Balbo, 2016