martedì 25 agosto 2020

Giuseppe "Beppe" Porcheddu, artista, grande illustratore, antifascista, legato a Bordighera


Giuseppe "Beppe" Porcheddu - Fonte: IDAL

Pittore, incisore, scultore, realizzatore di ceramiche, illustratore e fumettista, Beppe Porcheddu fu eclettico e originalissimo artista. Scoperto sin da giovanissimo da Leonardo Bistolfi rimane sicuramente uno dei più significativi artisti del '900 e la sua arte si può avvicinare, per vocazione narrativa e perizia tecnica, a quella del Cambellotti e del Grassi. Compiuti gli studi classici, ha completato la sua formazione frequentando i corsi di architettura al Politecnico di Torino.
Federico Bardanzellu, Giuseppe Porcheddu, Geneanet

Beppe Porcheddu non seguì la carriera paterna, a lui piaceva disegnare. Se ne accorse uno degli artisti che frequentavano la famiglia Porcheddu, Leonardo Bistolfi, quasi incredulo a vedere la maturità nel disegno del ragazzino. Elementari, medie e liceo a Torino, poi il Politecnico, senza dimenticare lo sport e lo studio del violino. Nel 1916, volontario, parte per la guerra, ma sul monte Tomba è gravemente ferito dallo scoppio di una granata. Trasferito all'ospedale militare di Carrara, salva per miracolo la gamba sinistra, ma è costretto da allora a camminare con il bastone. Le prime illustrazioni appaiono nel 1919 sul Pasquino, poi su un'infinità di altre testate, tra le quali il Corriere dei Piccoli e Topolino.
Leonardo Bizzaro, Porcheddu, la matita che sparì a Natale, la Repubblica, 20 ottobre 2007 
 
Beppe Porcheddu: impressionante personalità di artista colto e geniale.
Giuseppe Balbo in Redazione, Giuseppe Balbo, sito omonimo
 
 
Giovanni Antonio Porcheddu - Fonte: Geneanet

Giovanni Antonio Porcheddu, nato a Ittiri, in Sardegna, il 26 giugno 1860 e morto a Torino il 17 ottobre 1937. Di umili origini, in tenera età perse entrambi i genitori e per sopravvivere si trasferì a Sassari dove lavorò come operaio alla costruzione del palazzo della Provincia, in piazza d’Italia. In quel periodo conseguì la licenza tecnica inferiore e, viste le non comuni potenzialità, i parenti, congiuntamente a un piccolo contributo dell’amministrazione provinciale, lo mantennero agli studi nella scuola tecnica superiore, sezione di fisica e matematica, dove conseguì il diploma. In virtù delle sue indubbie capacità ottenne, ancora dalla Provincia, una borsa di studio per la frequenza del primo biennio di ingegneria all’università di Pisa. Laureatosi in Ingegneria Civile presso la Regia Scuola di Applicazione di Torino, nel 1892 ottenne il Diploma di Ingegnere Industriale presso il Regio Museo Industriale. L’attività del suo studio spaziò fra il 1895 e il 1933; le sue opere sono localizzate prevalentemente nel Nord Italia (ma anche a Messina, Reggio C., Palermo, Roma e Tripoli). Ha realizzato la ricostruzione del Campanile di San Marco a Venezia, crollato improvvisamente nel 1902. Il suo maggior merito fu quello di aver intuito e apprezzato per primo in Italia l’importanza della nuova tecnica costruttiva del cemento armato, ideata dal belga Francois Hennebique. Detto sistema, inizialmente avversato dalle grandi industrie di costruzioni, prevedeva per la costruzione di strutture verticali portanti l’utilizzo di un conglomerato cementizio interamente armato con profilati di ferro. Con questo metodo Porcheddu costruì innumerevoli opere di grande pregio tecnico-scientifico. Tra queste si ricordano lo stabilimento Fiat «Lingotto» di Torino, il palazzo Nuova Borsa di Genova e il ponte Risorgimento, sul fiume Tevere a Roma. Molti furono i rapporti professionali con progettisti di evidenza internazionale. I suoi biografi riportano, a mo’ di aneddoto, un episodio curioso: durante l’inaugurazione del ponte Risorgimento il sovrano Vittorio Emanuele convenne che la circostanza comportava l’incontro di due Re: egli, Re d’Italia e Porcheddu “Re del cemento armato”.
Giovanni Antonio Porcheddu aveva sposato Amalia Dainesi, nata nel 1863 e deceduta a Torino il 21 agosto 1902. Ebbe come figli Giuseppe Beppe Porcheddu 1898-?1947 e Ambrogia Porcheddu 1899-1974 [n.d.r.: in effetti, Giovanni Porcheddu ebbe sette figli: tra questi è doveroso citare almeno il padre del pittore Gian Antonio].
Federico Bardanzellu, Giovanni Antonio Porcheddu, Geneanet
 
Porcheddu Giovanni Antonio
Ittiri (SS) 1860 giu. 26 - Torino 1937 ott. 17
ingegnere civile, 1890 - 1937
ingegnere industriale, 1892 - 1937
Cavaliere del Lavoro, 1914 - 1937
Intestazioni:
Porcheddu, Giovanni Antonio, ingegnere, (Ittiri 1860 - Torino 1937), SIUSA
Nato a Ittiri nel 1860 Giovanni Antonio Porcheddu è figlio di un capomastro muratore. Rimasto orfano dei genitori in giovane età, con l'aiuto dei parenti si trasferisce a Sassari dove lavora come operaio edile. Grazie a un sussidio provinciale si diploma presso la Scuola Tecnica Superiore della città, sezione di fisica e matematica quindi, ottenuta una borsa di studio, frequenta all'Università di Pisa il biennio di ingegneria per poi trasferirsi a Torino dove consegue la laurea in ingegneria civile nel 1890 alla Regia Scuola di Applicazione e nel 1892 il Diploma di Ingegnere industriale presso il Regio Museo Industriale.
Nel 1894 è già concessionario del brevetto Hennebique per solai incombustibili e due anni più tardi, costituito uno studio tecnico e impresa a proprio nome, diviene Agente Generale per l'Alta Italia del Sistema Hennebique per la progettazione e la realizzazione di costruzioni in calcestruzzo armato acquisendo nel giro di pochi anni autonomia di calcolo e di progetto.
Oltre alla sede torinese di corso Valentino 20 (oggi corso Marconi) l'impresa Porcheddu G.A., con assetto societario dal 1906, ha filiali a Milano, Genova e Roma e dispone di una propria ferriera a Genova per la produzione di barre di armatura.
Nel febbraio 1914 Giovanni Antonio Porcheddu viene nominato Cavaliere al merito del Lavoro. Sposato ad Amalia Dainesi ha 7 figli. Muore a Torino il 17 ottobre 1937.
Soggetti produttori:
Società Porcheddu Ing. G.A., collegato, 1895 - 1933
Complessi archivistici prodotti:
Società Porcheddu Ing. G. A. (fondo)
Bibliografia:
NELVA R., Giovanni Antonio Porcheddu in Progetto Cultura Società. La scuola poltecnica torinese e i suoi allievi, a cura di MARCHIS V., Torino, Società ingegneri e architetti ex allievi del Politecnico di Torino, 2010, 60-61
NELVA R., SIGNORELLI B., Avvento ed evoluzione del calcestruzzo armato in Italia: il sistema Hennebique, Milano, Edizioni di scienza e tecnica, 1990, 25-26
Redazione e revisione:
Bodrato Enrica, 2011/09/14, rielaborazione
Nelva Riccardo, 2011/09/19, revisione
Redazione, Porcheddu Giovanni Antonio, Siusa
 
Le Ferriere di Oneglia (IM)
La costruzione del complesso siderurgico, sito alla foce del torrente Impero, tra la marina di Porto Maurizio e il centro di Oneglia, inizia nel 1906 ad opera della Società Siderurgica Ligure Occidentale.
Nel 1908 la proprietà dello stabilimento passa alla società Ferriere di Voltri che nel 1916 costruisce la Nuova Acciaieria di Oneglia per la produzione di laminati in acciaio comune e lingotti per la trasformazione degli stessi in laminati.
Il complesso, che costituisce uno dei rari esempi di impiego del calcestruzzo col sistema Hennebique nell’estremo Ponente ligure, a opera dell’impresa Porcheddu di Torino, è costituito da due grandi capannoni affiancati (il locale forni verso mare e il locale fonderia verso monte), dal locale gasogeni, dal laboratorio chimico e dai magazzini sul fronte verso torrente.
Sara de Maestri e Roberto Tolaini, Storie e itinerari dell'Industria Ligure, De Ferrari, 2012
 
Nel 1919 Giuseppe Porcheddu ha esordito come illustratore sulle pagine della rivista "Pasquino" e l'anno successivo ha collaborato con le riviste "Numero", "La Lettura", "L'Illustrazione del Popolo" e "Il Secolo XX°". Nel 1922 ha iniziato la sua collaborazione con la fabbrica "Lenci" disegnando bambole, arredi e, alcuni anni dopo, modelli per ceramiche che furono esposti alla mostra della produzione "Lenci" alla Galleria Pesaro di Milano nel 1929. Nel 1939 lasciò Torino per trasferirsi a Bordighera dove rimase fino al 1947 quando, in occasione di un viaggio a Roma, scomparve misteriosamente. Le sue illustrazioni del "Pinocchio" di Collodi, rimangono le più famose nel mondo, insieme a quelle del contemporaneo Attilio Mussino.
Federico Bardanzellu su Geneanet

Fonte: Urania Casa d'Aste

Beppe Porcheddu [...] Intensamente presente sulla scena artistica torinese, svolge una fitta attività di illustratore, con uno stile di ardua, arrovellata eleganza e nel contempo di forte tensione espressiva, carico di risonanze nordiche e di suggestioni attinte ai maestri del passato, da Durer a Goya. Collabora a diversi periodici: "Pasquino" (1919), "L'lllustrazione del Popolo" (1922- 1924), "Numero" (1922), "Cuor d'Oro", "La Lettura" (1923), "Novella" (1925), "Il Secolo XX" (1926), "Il Giornalino della Domenica" (1927). Nel 1928 viene pubblicata una ricca raccolta dei suoi disegni, con prefazione di Leonardo Bistolfi (Disegni di Giuseppe Porcheddu, Torino 1928). Nello stesso anno l'artista esegue una copertina per "Il Nuraghe", riannodando così rapporti con la Sardegna, dove pochi ormai lo conoscevano. Nel 1933 espone alla IV Mostra Sindacale Sarda a Cagliari. Dal 1934 al 1948 collabora a "Scena illustrata", e ancora a "Mondo fanciullo", "Topolino", "Il Balilla", "Marc'Aurelio". È anche un fecondo illustratore di libri (nel 1934 vince il secondo premio, con Giulio da Milano, nel Concorso per l'lllustrazione del libro svoltosi alla XXXV Esposizione degli "Amici dell'Arte") e cartellonista; per l'Ars Lenci realizza disegni per giocattoli, stoffe, ceramiche, decorazioni; si dedica alla scenografia (Ettore Fieramosca, di A. Blasetti, 1938). 

Giuseppe Porcheddu, Il castello di San Velario - Fonte: Artnet  
Giuseppe Porcheddu, Disegno per un'illustrazione del Pinocchio di Collodi. "Inchiostro di china nero e chine colorate su cartoncino grigio. mm 300x210. Siglato in basso a sinistra. Note editoriali a matita. Illustrazione per il Pinocchio edito da Paravia nel 1942 e illustrato da Beppe Porcheddu. Per tale impresa, sicuramente uno dei suoi capolavori, Porcheddu utilizzò tre soli colori, il rosso mattone, l’azzurro carta da zucchero e il bianco biacca, cui aggiunse il nero. Ebbe, tuttavia, la geniale idea di realizzare i disegni su cartoncini grigio chiaro o beige, dando una precisa valenza cromatica anche allo sfondo libero dal disegno...


È la letteratura per l'infanzia quella che più lo affascina. «I bambini sono più critici degli adulti», sostiene, e nelle illustrazioni per loro è particolarmente puntiglioso, da Racconti così di Bistolfi al Tartarino di Daudet, dal Romanzo di Tristano e Isotta alle Avventure del barone di Munchhausen, dal salgariano I ribelli della montagna al Pinocchio pubblicato nel '42 da Paravia. Quest'ultimo è un capolavoro, con i disegni su carta grigia e nocciola, colorata a china e arricchita dal bianco della tempera. Non sono da meno i libri non destinati specificamente ai ragazzi, le Passeggiate storiche torinesi di Emilio Bruno, pubblicate nel 1939 da Frassinelli, o La tentazione di Sant'Antonio di Flaubert, per i tipi di Ramella nel 1946.
Leonardo Bizzaro, art.cit. 
 
Fonte: Fumettologica



Fonte: Fumettologica

[...] leggendario per gli appassionati di fumetto d’epoca, è il Gulliver di Porcheddu, disegnato per Topolino negli anni Quaranta. 
 
Fonte: Fumettologica

L’opera era ritenuta completamente perduta fino a pochi mesi fa, quando Urania Casa d’Aste ha annunciato che all’asta del prossimo 11 maggio 2019 verranno battute ben 25 tavole originali dell’opera. Giuseppe Porcheddu è uno dei nomi più importanti dell’illustrazione italiana della prima metà del Novecento [...] Il suo capolavoro è senza dubbio il Pinocchio commissionato da Paravia (1942), illustrato su carta grigio chiaro o beige e tutto giocato sulle tre tonalità differenti del rosso mattone, azzurro carta da zucchero e bianco biacca. I disegni originali si sono salvati miracolosamente alla distruzione della casa editrice durante un bombardamento solo per il fatto che in quei giorni si trovavano in tipografia. In questi stessi anni entra in contatto con il mondo del fumetto con la casa editrice Anonima Periodici Italiani di Mondadori, a cui propone di realizzare una versione a fumetti di I viaggi di Gulliver per Topolino; all’epoca, infatti, la testata era in formato tabloid e oltre alle storie Disney ospitava fumetti d’avventura di grandi autori italiani: Pedrocchi, Scolari, Molino, Moroni Celsi, Albertarelli… Le tavole che realizza attirano l’attenzione di altri colleghi, tanto che nel 1942 gli viene commissionato un fumetto per il Balilla, L’anello di Burma, su testi di Renato Brunati
 
Fonte: Fumettologica

Al tempo stesso, però, la produzione del Gulliver rallenta, anche forse per il cambio di direttore a Topolino tra Federico Pedrocchi e Mario Gentilini, fino a bloccarsi completamente nel 1944 [...] Le gigantesche tavole originali dei Viaggi di Gulliver di Giuseppe Porcheddu (62,5 x 42,5 cm) provengono certamente da questo lotto salvato dalla distruzione, ricomparse pochi anni fa nel negozio di un antiquario di Grosseto. Si può notare il loro passato travagliato osservando da vicino gli originali, percorsi da una piega nel centro e macchiati dall’umidità, per fortuna in un punto che non pregiudica il disegno [...] 
 
Fonte: Fumettologica

Di 60 doppie tavole se ne sono salvate 25: sono perdute le prime due e dalla 28 in poi [...] Il rimpianto è che probabilmente non potremo mai leggere la storia intera, né vederla a colori e in grande formato come era destinata a essere, vista la probabile pubblicazione nel paginone centrale di Topolino [...]
Fumettologica

Fonte: Urania Casa d'Aste

Nel 1938 firma la scenografia del film Ettore Fieramosca di Alessandro Blasetti. Nel 1939 Beppe Porcheddu lascia Torino e si trasferisce a Bordighera. È apprezzato disegnatore di fumetti: crea la serie dei "nanetti" per il “Corriere dei Piccoli” e "L'anello di Burma", da un romanzo di Renato Brunati, per il “Balilla”; collabora con la Mondadori, chiamato da Federico Pedrocchi; quest'ultimo gli affida la sceneggiatura de "Il castello di San Velario" di Eros Belloni, che sarà pubblicato postumo, nel 1948, nella collana degli Albi d'Oro di Topolino, in due parti. Sempre per “Topolino” realizza anche I viaggi di Gulliver, che non vedrà mai la pubblicazione. Il suo capolavoro è l'illustrazione del "Pinocchio" di Collodi (1942). Per tale impresa Porcheddu utilizza tre soli colori, il rosso mattone, l’azzurro carta da zucchero e il bianco biacca, cui aggiunge il nero. L’artista, tuttavia, ha la geniale idea di realizzare i disegni su cartoncini grigio chiaro o beige, dando una precisa valenza cromatica anche allo sfondo libero dal disegno. Nel "Pinocchio", la grafica dell'artista compone in ogni singola tavola un impianto che ancor oggi appare straordinariamente moderno.
Copernicum

Beppe Porcheddu, Le avventure di Pinoccio - Fonte: IDAL

Beppe Porcheddu avendo interessato con i suoi disegni infantili Leonardo Bistolfi, ebbe da lui consigli  autorevoli ed i principi fondamentali d’arte.
Frequenta i corsi di disegno nella facoltà di architettura del Politecnico di Torino.
Autodidatta, illustrò opere letterarie per vari editori tra cui Treves, Paravia, De Agostini con particolare predilezione per quelle rivolte all’infanzia come “ Il Corriere dei Piccoli”, “Topolino”, “Il Balilla”.
Per il cinema realizzò le scenografie di Ettore Fieramosca  (Alessandro Blasetti) per il fumetto “Il misteri degli specchi velati”  unitamente al mai pubblicato “Viaggi di Gulliver”.
 
Fonte: IDAL

Nel 1922  espose alla Fiera del libro di Firenze; alla Prima Biennale Arti Decorative di  Monza, (1923); al circolo “Amici dell’Arte” di Torino e alla prima Quadriennale Romana (1931).
 
Fonte: IDAL

A partire dal 1922 inizia la sua attività di disegnatore di bambole, progettista di giocattoli e decoratore di ceramiche che vengono esposti nel 1929 alla mostra della produzione della fabbrica “Lenci”, alla Galleria Pesaro di Milano.

Fonte: IDAL

Tra i suoi lavori più importanti in veste di illustratore: “Le avventure del Barone di Munchausen”  (Paravia, 1934),  “Le avventure di Pinocchio” (Paravia, 1942), che rimane il suo capolavoro utilizzando tre soli colori, il rosso mattone, l’azzurro carta da zucchero e il bianco biacca, cui aggiunge il nero. L’artista, tuttavia, ha la geniale idea di realizzare i disegni su cartoncini grigio chiaro o beige, dando una precisa valenza cromatica anche allo sfondo libero dal disegno.
 
Fonte: IDAL

Nel “Pinocchio”, la grafica dell’artista compone in ogni singola tavola un impianto che ancor oggi appare straordinariamente moderno.
 
Fonte: IDAL

Espose alla Società Promotrice di Torino e alla mostra navigante sul transatlantico “Italia”.
Tra le sue opere pittoriche più significative: Il gregge, Gli sposi (Galleria Pesaro di Milano), Bertoldo, Artemide, Giovanna d’Arco.
Nel suo percorso artistico evolutivo “sembrerebbe che l’artista nel pittore abbia riversato “l’ illustratore” e viceversa “nell’illustrazione abbia prevalso il pittore” […] Nella maturità il suo sguardo fu rivolto a tematiche di più intensa e profonda partecipazione emotiva. In proposito mostrò maggiore attenzione ed amore per le figure più umili: operai pescatori, carpentieri, contadini  dalle mani  nodose e dai visi fortemente marcati, dipinti con accurato e quasi crudo realismo.
Beppe Porcheddu nel dicembre 1947 trascorse le feste di Natale a Roma, ospite dell’amico Piero Giacometti, con cui stava organizzando una importante mostra.
Il 27 dicembre uscì di casa e nessuno lo rivedrà più, lascia scritto alla sorella: "La vita è un continuo tradimento. I più bei sogni… restano sogno. Chissà quando ci rivedremo?".
Nel 1971 la città di Bordighera, nel corso delle celebrazioni del cinquecentenario, ha promosso la mostra “Pittori di ieri a Bordighera” nella quale Beppe Porcheddu è stato  messo in luce con la presentazione di cinque opere riprodotte a catalogo.
 
Fonte: IDAL

Nel 2007 la Galleria d’Arte Narciso di Torino ha ordinato un'importante mostra postuma.
Fin dalla sua prima produzione, accanto all’attitudine al grottesco, Porcheddu mostra una naturale inclinazione per quello che Massimo Oldoni definisce "trinomio perfetto di simboli d’un mondo (quello medievale) che si è espresso per metafore come nessun’altra civiltà precedente".
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Giuseppe Porcheddu, Allegoria della vita, 1943 - Fonte: IDAL

Le idee antifasciste di Beppe vennero ben presto note in Torino per cui decise di agire prima di incorrere in inevitabili conseguenze. Decise di raggiungerre un suo caro amico italiano, il Professore Raffaello Monti, anch'egli antifascista, il quale si era temporaneamente trasferito a Tolosa per sfuggire all'atmosfera ormai tossica che aleggiava in Italia. Nel 1936 Beppe e tutta la sua famiglia andarono a Tolosa per vivere con Monti e la famiglia di questi. Giuseppe Porcheddu e famiglia nella città francese, dove i ragazzi frequentarono le locali scuole, rimasero per un anno. Le priorità della famiglia su educazione, musica ed arte continuarono ad essere rispettate sotto la direzione alquanto rigorosa di Beppe. Gli studi accademici e musicali per i figli erano stati programmati da Beppe. La vita era stata quindi strutturata con cura e l'educazione dei suoi figli fu probabilmente molto diversa dagli altri giovani che incontrarono e con cui fecero amicizia. Entrambe le famiglie, quella di Monti e quella di Porcheddu, tuttavia, furono costrette a tornare in Italia poiché stava diventando impossibile trasferire fondi dall'Italia alla Francia. Al rientro in Italia, Beppe, tale era la sua reputazione antifascista, si vide temporaneamente ritirato il passaporto. La famiglia Porcheddu tornò temporaneamente a Torino e poi andò a vivere a Merano dove Beppe aveva progettato e costruito una casa. L'odio di Beppe per la politica fascista contribuì a plasmare la sua direzione e le sue azioni future mentre l'ascesa del nazismo e del fascismo gettavano le loro ombre oscure sull'Europa.
David Ross, figlio di Michael Ross, nipote di Giuseppe Porcheddu, email del 22 agosto 2020

Giuseppe Porcheddu, Il Re povero (pastelli su carta) - Fonte: IDAL

Un gruppo, che confluì dopo la guerra nel partito socialista ma che sorse autonomo intorno al 1939 ed ebbe come centro Bordighera, fu quello che fece capo a Guido [Hess] Seborga, un giovane il quale cominciò a osteggiare il fascismo fin dalla guerra d'Abissinia (lo disse ai compagni di scuola e fu "pestato" per tali sentimenti "anti-patriottici"). Attorno a Seborga si raccolsero numerosi giovani: Renato Brunati (poi garibaldino e trucidato dai tedeschi), Lina Mayfrett (deportata in campo di concentramento), Beppe Porcheddu (il quale si suicidò nel '47 per la delusione che l'assetto politico scaturito dalla Resistenza provocò in lui). Questo gruppo lavorava anche in contatto con i torinesi Alba Galleano, Giorgio Diena, Vincenzo Ciaffi, Domenico Zucaro, Raffaele Vallone, Luigi Spezzapan, Umberto Mastroianni, Carlo Musso e altri. Il gruppo svolse soprattutto attività di propaganda di collegamento tra le regioni, di diffusione di libri proibiti e, quando giunse il momento della lotta aperta, i suoi principali esponenti, allora "azionisti", militarono nelle formazioni partigiane di "Giustizia e Libertà" e della "Matteotti".
Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Garzanti, 1971

[...] nel ‘39 si formò a Bordighera un gruppo orientato verso i partiti della classe operaia e in particolare verso il partito socialista guidato da Guido Seborga, coadiuvato da Renato Brunati, Lina Mayfrett [Meiffret] e Beppe Porcheddu. 
Gli aderenti stabilirono contatti a Torino con il gruppo di Alba Galleano, Giorgio Diena, Vincenzo  Diena. Tra gli altri Domenico Zucaro, Raf Vallone, Luigi Spazzapan, Umberto Mastroianni, Carlo Mussa  
Pietro Secchia, Enzo Nizza, Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza, Milano, La Pietra, 1968

Luigi ci portò a Llo di Mare… [Villa in Località Arziglia di Bordighera, in affitto a Giuseppe Porcheddu]  
Michael Ross, From Liguria with love. Capture, imprisonment and escape in wartime Italy, Minerva Press, London, 1997

Antifascista - pur firmando nel 1935 le illustrazioni del Balilla regale di Arnaldo Cipolla - ospita nella villa di Bordighera durante la guerra moglie e figlia di Concetto Marchesi, il grande latinista, partigiano comunista. E poi due ufficiali britannici nascosti in una stanza vicino alla biblioteca, dove spesso un militare della Wehrmacht si presenta per chiedere a prestito uno dei tanti libri in tedesco che Porcheddu acquista per ispirarsi nei suoi disegni. Giovanna, figlia del disegnatore, sposerà a guerra finita uno dei due inglesi. L'altra, Amalia, convolerà lo stesso giorno con un altro ufficiale del Regno Unito di stanza in Liguria. [...] 1947, le figlie sono in Austria con i mariti, padre e madre le raggiungono per assistere alla nascita di un nipote, poi Beppe torna a Bordighera, prima di partire per Roma, dove si sta organizzando una mostra delle sue opere. È l'amico Piero Giacometti a occuparsene ed è lui a costringerlo a lasciare l'albergo per trasferirsi a casa sua. Passano insieme il Natale. Il 27, nel pomeriggio, Porcheddu esce, lasciando bastone e passaporto in camera. Non si avranno più sue notizie. Rimane l'ultima lettera, spedita da Bordighera alla sorella Ambrogia: «La vita è un continuo tradimento. I più bei sogni... restano sogno. Chissà quando ci rivedremo?». Molti nel corso dei decenni hanno provato a investigare sulla vicenda, nessuno ha mai trovato spiegazioni.
Leonardo Bizzaro, art. cit.

La propaganda antifascista e antitedesca fu praticata nella zona di Bordighera da Renato Brunati e da me in un contempo indipendentemente, senza che nemmeno ci conoscessimo: ma nel 1940 ci incontrammo e d’impulso associammo i nostri ideali e le nostre azioni, legati come ci trovammo subito anche da interessi intellettuali ed artistici. La vera azione partigiana s’iniziò dopo il fatale 8 settembre 1943, allorchè Brunati e la sig. Maiffret subito dopo l’occupazione tedesca organizzarono un primo nucleo di fedeli e racimolarono per le montagne, sulla frontiera franco-italiana e nei depositi, armi e materiali: armi e materiali che essi vennero via via accumulando a Bajardo in una proprietà della Maiffret, che servì poi sempre di quartier generale in altura, mentre alla costa il luogo di ritrovo e smistamento si stabiliva in casa mia ad Arziglia e proprio sulla via Aurelia [...] Verso la metà di novembre due ufficiali inglesi, fuggiaschi del campo di ferma vennero a capitar nella zona di Bajardo, ricoverati e confortati dai nostri, sistemati poi nottetempo in un casolare di vetta. Fu poi progettata la fuga in Corsica: ma il 1° tentativo perì per la defezione del marinaio che s’era assunto l’apparecchiamento della barca: tuttavia i 2 inglesi scesero ad Arziglia in casa mia, guidati dai capi in pieno equipaggiamento partigiano a mezzogiorno per via Aurelia sotto il naso dei tedeschi: da Arziglia si trasferirono alla casa di Brunati, alla Madonna della Ruota, ma una sorpresa della polizia che arrestava Brunati e la Maiffret costrinse nuovamente gli inglesi a raggiungere casa nostra ove restarono 15 giorni. I 2 capi vennero rilasciati per insufficienza di prove il 22 dicembre, raggiunsero Bajardo ove già erano tornati gli inglesi. Un nuovo tentativo di fuga in Corsica venne organizzato in casa mia coll’aiuto di patrioti bordigotti, Gismondi, Assandria, Moraglia [...] Un canotto di Donegani, trafugato venne adattato col fuoribordo acquistato con fondi di Giacometti equipaggiato e messo in acqua: vi salirono… i 2 inglesi ed i nominati patrioti, dopo un breve soggiorno in casa mia per gli ultimi preparativi. Ma l’imbarco avvenuto felicemente ad onta della attiva sorveglianza tedesca, non ebbe buon esito, chè la barca si empì d’acqua a 200 metri da riva ed a stento i fuggiaschi raggiunsero la costa rifugiandosi poi da me, fradici [...] ed avendo salvato solo il moto. Da allora i 2 inglesi restarono in casa fino al 25 gennaio ’45, salvo un breve soggiorno a Bajardo nel gennaio ‘44. Gismondi fu arrestato e ciò allarmò tutta la nostra banda   [...] Purtroppo il 14 febbraio 1944 Brunati e la Maiffret, venivano definitivamente presi dai repubblicani [...] Nel gennaio 1945 la Signora Marchesi, moglie del capo comunista Concetto Marchesi, e la figlia sposata Mendelssohn con un ebreo americano, venivano ricoverate in casa mia coll’aiuto del dott. Marchesi, fratello di Concetto; esse sottostavano alla taglia di 1 milione, già applicata a Concetto Marchesi; fuggito questo in Svizzera le sue familiari rilevarono il funesto privilegio. Esse restarono in casa mia 25 giorni mentre ivi albergavano pure i 2 ufficiali inglesi; la prudenza e infinite cautele oltre al volere degli ospiti stranieri ci obbligarono ad occultare la presenza di questi alle signore Marchesi: e ci riuscimmo. Il 24 gennaio il dott. Marchesi precipitatosi in casa mia comunicò che i tedeschi dovevan partire entro 2 giorni, prelevando tutti i designati ostaggi di cui io risultai capolista. Si impose una fuga generale; Marchesi collocò altrove cognata e nipote, noi ci rifugiammo [...] Ma i 2 inglesi dopo romanzesche avventure in montagna e sulla costa di Vallecrosia raggiunsero la Francia e si misero finalmente al sicuro. Oggi scrivono dall’Inghilterra […] I 2 ufficiali inglesi si chiamano: Michael Ross e George Bell [...]     
Giuseppe Porcheddu, manoscritto (documento IsrecIm) edito in Francesco Mocci (con il contributo di Dario Canavese di Ventimiglia), Il capitano Gino Punzi, alpino e partigiano, Alzani Editore, Pinerolo (TO), 2019

Rivedo Lina Meyfrett [Lina Meiffret] che pare sempre miracolosamente scampata ad un campo di concentramento e insieme ricordiamo Renato Brunati e Beppe Porchedddu...
Guido Seborga, Occhio folle occhio lucido, Graphot/Spoon river, Torino 2012

mercoledì 19 agosto 2020

Lo zio Ivo torna

Il 19 luglio 1942 a Nowa Gorlowka era giunta la Bandiera del 89°
 
Lo zio Ivo torna: era la preghiera che per anni in famiglia veniva spesso ripetuta, invocazione sì di speranza, ma soprattutto di un dolore mai sopito. Lo zio Ivo non è mai tornato, come le decine di migliaia di soldati dispersi nella gelida steppa dell'Ucraina e nelle marce verso i campi di prigionia della Siberia 
[...]
I capitoli successivi informano brevemente sulla fondazione del Reggimento [89° Fanteria "Salerno", Divisione "Cosseria"]  e sulle successive vicende sino all'arrivo alla Caserma Carlo Gallardi di Ventimiglia (IM)
[...]
Solo per i capitoli della partenza [dell'89° Reggimento per la campagna di Russia], iniziata il 4 luglio 1942 sino al ritorno nel maggio 1943, la bibliografia è decisamente ricca di libri, diari, lettere, cartoline, album fotografici 
[...] 
Paolo Bonetto, nato a Torino il 22.6.1915, ufficiale di complemento con il grado di tenente, dichiarato disperso il 17.12.1942, decorato * con la Medaglia d'Argento al Valor Militare con decreto ministeriale del 26 ottobre 1957.
* "Comandante di plotone in un importante caposaldo avanzato, durante reiterati attacchi avversari dava prova di calma e coraggio e concorreva validamente in azioni di contrassalto. Caduto il proprio comandante di compagnia, assumeva il comando e, benché ferito, continuava nell'impari lotta fino all'esaurimento dellle munizioni. Sopraffatto cadeva da prode"
Koscharny-Ssmodurowka-Don (Russia) 17 dicembre 1942
[...]
Romualdo Castellano, nato ad Imperia il 7.2.1911, sottotenente medico dell'89°. Medaglia di Bronzo al Valor Militare: "già offertosi in precedente azione per l'impianto di un posto di medicazione in posizione difficile, durante un attacco svolto dal proprio battaglione assicurava, nonostante la violenta reazione avversaria, la raccolta, il soccorso e lo sgombero di numerosi feriti, dando prova di attaccamento al dovere, di abnegazione e di ardimento. La Colle (Mentone - Francia) 22-23-24 giugno 1940-XVIII". Maggiore  medico di complemento, fu sul fronte russo come dirigente del servizio sanitario dell'89°. Autore di un libro di memorie scritto nel dialetto della sua città [durante la Resistenza assistette come medico diversi partigiani dell'Imperiese]
[...]
Rodolfo Carbone, nato a Vallecrosia (IM) il 9.10.1914, richiamato fante del III° battaglione, ci ha lasciato una serie di fotografie e una lunga corrispondenza dal fronte
[...]
Ennio Corte, nato a Biella il 15.12.1911 [residente a Collasgarba di Ventimiglia (IM)], tenente di complemento, morto in prigionia a Tambov il 28.2.1943 
[...]
Silvio Tomasi, nato il 23.6.1907 a Trento [...] partecipa alla guerra in Etiopia; in forza all'89° nel 1937; nel 1940 è sul fronte francese e viene proposto per la medaglia d'argento al valor militare che gli viene negata perché non iscritto al partito fascista. Nel 1941 è inviato sul fronte greco-albanese dove rimane congelato ai piedi. Nel 1942 è nominato Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia. Il 5 luglio 1942 parte per il fronte russo per essere rimpatriato l'8.12.1942 per grave congelamento. Porta a casa una cospicua documentazione del fronte. 


L'8 settembre 1943 si trova a Monza ed è l'ultimo ufficiale a fuggire portandosi via la Bandiera del Reggimento, oggi custodita al Vittoriano. Aderisce alla lotta partigiana [fondatore e anima del gruppo patriottico Giovine Italia, costituito a Ventimiglia, dove aveva sposato la signora Silvia Ballestra, e zona, membro fondatore del CLN di Bordighera, incappato nella tremenda retata del 23 maggio 1944 che colpì l'estremo ponente], tradito, viene deportato a Gusen-Mauthausen, dove morirà il 27 aprile 1945 e verrà sepolto in una fossa comune
[...]
Ivo Veneziano [lo zio Ivo dell'autore], nato il 18.1.1919 a Ventimiglia (IM), in virtù del diploma di ragioneria vienne ammesso al corso allievi ufficiali del 13° reggimento scuola di Fanteria L'Aquila il 29 agosto 1939. Aspirante ufficiale di complemento, viene assegnato all'89° il 18 aprile 1940. Partecipa all'evento bellico contro la Francia. Parte il 4 luglio 1942 per il fronte russo con il III° battaglione 10^ compagnia. Dichiarato disperso in combattimento a Nowa Kaliwa il 17.12.1942, promosso tenente l'11 febbraio 1943 
[...]
Emilio Pisano [che visse e operò sempre tra le località Nervia di Ventimiglia e di Camporosso], fante del 38° reggimento della Ravenna, che ha vissuto quelle giornate in prima linea, mi ha definito i carri russi "grandi come case"
[...] 
16 dicembre 1942 - Il tenente medico Nevio Rosso [nato il 15.12.1912 a Sestri Ponente (GE). Scrisse il libro "Un medico sul fronte russo..."] racconta la drammatica situazione che esisteva nel suo punto di medicazione a Nova Kalitwa: non c'era nemmeno il tempo di sgranocchiare una galletta e di bere un po' di neve sciolta sulla stufa [...] feriti anche gravi arrivano in continuazione; nella mattinata i tedeschi del 318° reggimento granatieri se ne sono andati in  fuga "SENZA SALUTARE, l'esercito russo sfrutta la breccia per irradiarsi nelle retrovie italiane 
[...]
[Ancora Nevio Rosso] Distesi [durante la ritirata] per terra su un po' di paglia o una pelle di animale o su una misera coperta riposano l'uno vicino all'altro schiacciati tra loro vecchi, donne, bambini; ci hanno dormito anche i nostri soldati [...] Nelle isbe non c'è l'acqua corrente, l'acqua dovevi attingerla al pozzo o formartela per tuo conto sciogliendo un secchio di neve; non c'erano servizi igienici...
[...]
L'artigliere Aramino Aramini della batteria d'accompagnamento dell'89° scrive [lettera riportata in Arturo Viale, L'ombra di mio padre] alla famiglia Viale, Casa Battaglia, Ville, Ventimiglia, l'8.4.1943 "... Dunque fino alla sera del 18.12.42 io, Manitto e Maccanti eravamo insieme, dopo di che, avendo fatti fuori i nostri pezzi, abbiamo abbandonato le nostre posizioni... Manitto è stato visto l'ultima volta da Listuzzi, il quale, essendo rimasto un pezzo indietro, tentava di raggiungermi... confido in Lei nella massima segretezza, perché non vorrei essere proprio io a dare una cattiva notizia e togliere tutte le speranze ad una mamma che forse è ancora fiduciosa ad aspettare... distinti ossequi. Aramino"
[...]

Bernardino Veneziano, I fanti dell'89° raccontano. Dalla Caserma Gallardi al fiume Don. 1942-43, Alzani Editore, 2019

sabato 15 agosto 2020

Sul ginepro


Juniperus communis - Foto Moreschi
I frutti del nostro Ginepro comune, come è noto a tutti i bevitori, sono l’aroma principale di molti liquori e del Gin in particolare, il cui nome è costituito dalla prima sillaba del suo battesimo volgare.

La più antica di queste bevande era stata lanciata sul mercato già nel II° secolo avanti Cristo da Catone il Censore,  inventore della ricetta.

A detta del più facondo dei Senatori romani, il suo vino, distillato dai frutti maturi di Juniperus communis, aveva il duplice vantaggio di essere un buon diuretico e, nello stesso tempo, di combattere malattie indotte da frequenti brindisi come l'idropisia, la renella, i calcoli, le infiammazioni della vescica e delle vie urinarie; bastava "riscaldarlo in un vaso di bronzo o di piombo"  prima dell'uso. Molto più probabilmente era un ottimo espediente per giustificare la quotidiana libagione evitando la comparsa di  complessi di colpa.
 
Juniperus phoenicea - Foto Moreschi
Il Genere Juniperus copre un areale decisamente vasto, comprendente tutta la fascia temperata dell'emisfero boreale con un complesso di circa 60 specie; otto sono quelle italiane e sei di queste nascono in Liguria.  
In prevalenza sono cespugli o alberelli, fecondi produttori dei caratteristici frutti a forma di bacca, chiamati dagli specialisti galbuli, colorati in diverse tinte a seconda della specie e dello stadio di maturazione; sono l'effetto dovuto alla metamorfosi delle tre squame del piccolo cono le quali diventando carnose si trasformano nella ben nota bacca, cibo prediletto ed indispensabile per ogni specie di uccelli che contraccambiano, con le quotidiane deiezioni, il favore aiutando la diffusione dei Ginepri.  
Le specie di questo Genere hanno abitudini di adattamento molto duttili e crescono bene tanto sui calcari asciutti che nelle torbiere.

Esigono solo molta luce, assumono in molte situazioni il compito di piante pioniere colonizzando praterie montane aride, frane ed  ogni schiarita a disposizione, portando le loro stazioni estreme nell’orizzonte degli arbusti contorti delle alte quote alpine dove superano i 2000 metri d'altitudine.

Quanto alla denominazione Juniperus, il termine resta tuttora di origine incerta; gli specialisti dubitano, pur accettandola con riserva, l'ipotesi di una derivazione da due parole celtiche "gen" e "prus" ("cespuglio" e "aspro") riferite alla forma della pianta ed ai piccoli aghi pungenti.

Secondo una versione alternativa proverrebbe invece da " junix" ("giovenca") unita al verbo latino "parere" ("partorire"), sottolineando un'antica pratica veterinaria di somministrare fronde di Juniperus alle mucche per facilitarne il parto. Anche nella letteratura botanica classica si fatica ad individuare il vero battesimo dei diversi Ginepri, chiamati allora con nomi assegnati anche a molte altre piante; l’identificazione più sicura riguarda l’Juniperus oxycedrus, chiamato "arkeuthos" ("respingente") a causa delle foglie particolarmente aguzze.   

Juniperus phoenicea - Foto Moreschi
Amore, salute ed esorcismo, questi erano i campi d’azione nell’ambito magico dei Ginepri, onnipresenti nel vecchio continente e nelle isole del Nord. Le popolazioni celtiche li consideravano protettivi ad ampio raggio, in particolare contro i furti, sospettando persino che fossero l'incenso esclusivo adoperato dalla Streghe nei loro intrugli. I contadini ne perpetuavano la funzione di scongiuro, sia appendendolo sopra l’ingresso di casa; sia attuando veri e propri riti cantati di esorcismo durante i quali ne bruciavano le fronde per proteggere se stessi ed i raccolti da incidenti, attacchi di animali selvatici, fantasmi, malattie ed i temutissimi serpenti velenosi.

Il Ginepro era per i Celti anche un componente essenziale per i filtri d’amore; gli uomini; in previsione di un piacevole incontro ne mangiavano alcune bacche mature come aiutino, convinti di scongiurare il temutissimo default.

Diversi autori della romanità parlano dei Ginepri come di piante indispensabili in tanti usi. Del suo legno compatto accenna Virgilio definendolo “inattaccabile dai tarli, robusto e capace di durare centinaia d’ anni” 

Plinio, accurato relatore di ogni primato da Guinnes del suo tempo, riferisce molte notizie strabilianti sul loro conto; indica una specie talmente alta i cui tronchi erano usati per ricavare le lunghe tavole usate nel fasciame navale.

Il naturalista latino cita i casi di un tempio  romano dedicato ad Apollo Sosiano e quello di Diana eretto a Sagunto, ben duecento anni prima della distruzione di Troia; nonostante i tanti secoli trascorsi da quando erano stati costruiti, le travi di "Cedrus" (Juniperus excelsa) erano ancora perfettamente conservate.

Plinio dedica ai Ginepri allora conosciuti la solita esauriente disamina nella quale sono mescolate le notizie relative agli utilizzi razionali da parte dei suoi contemporanei, assieme a rituali del tutto privi di ragioni concrete: ”La Sabina è di due specie: una ha foglie che assomigliano a quelle della Tamerice, la seconda a quelle del Cipresso, e questo è il motivo per cui qualcuno l'ha definita Cipresso di Creta.

Molti la bruciano come profumo, simile a quello dell’Incenso, e nella preparazione di farmaci, pare abbia lo stesso tipo di effetti del Cinnamomo, se usata in dose doppia rispetto ad esso.  Riduce gli ascessi e blocca l'espansione delle piaghe; impiastrata, disinfetta, mentre in pessario o soffumigata fa sortire i feti premorti. Se ne fanno anche impiastri con miele per curare il fuoco sacro e le bolle nere; in pozione con vino cura l'itterizia. Dicono che il suo fumo guarisca la pipita nei gallinacei.

E’ simile a questa Sabina la cosiddetta Selagine. Viene raccolta senza usare strumenti di ferro, facendo uscire la mano destra dalla parte della tunica da cui esce la sinistra, come i ladri; occorre inoltre essere vestiti di bianco ed avere i piedi scalzi e ben lavati, avere fatto un sacrificio con pane e vino prima di andarla a cogliere, e trasportarla dentro una salvietta nuova.

Secondo la tradizione dei Druidi di Gallia, averla con se tiene lontana ogni sventura ed il suo fumo gioverebbe contro tutte le malattie degli occhi”. 

L’odierno Juniperus sabina, era già così chiamato dai romani dei primordi perché l’avevano scoperto, per la prima volta nel territorio occupato dai Sabini; si riconosce facilmente per l’odore intenso e nauseabondo delle fronde. 

Sino da quell'epoca, l'Olio di Sabino e gli altri derivati della pianta avevano l’ambivalente utilizzo di medicinale e di amuleto. La punta dei suoi rami, nota sotto il nome di "Herba Sabinae", caratterizzata da un sapore disgustoso e bruciante era considerata abortiva, ma di difficile dosaggio ed estremamente pericolosa, se non mortale.

Infatti, scambiare per errore i frutti della Sabina con quelli di altre forme prostrate di Juniperus communis alle quali riesce ad assomigliare sorprendentemente, è un errore fatale per le conseguenze: emorragie, paralisi e nel migliore dei casi forti irritazioni alle vie digestive e urinarie.

Ciò malgrado l’Juniperus sabina fu ritenuto a lungo una sorta polizza casco contro le presenze malefiche; si infilavano i suoi rami in tutte le fessure dei muri vicino alle case per evitarne l'insediamento. Anche nelle montagne toscane vigeva l’usanza tradizionale di appenderne un ramoscello all’uscio a scopo propiziatorio; ma con una supposizione curiosissima perché i valligiani erano convinti che le streghe, vedendo il ramo di Ginepro sarebbero state distratte dalla forte curiosità di conoscere il numero esatto delle foglie tanto da fermarsi a contarle.

Quasi tutti i Ginepri erano però creduti portafortuna se persino i pragmatici tedeschi avevano loro assegnato il nome di "Frau Wacholder"; infatti, li credevano la residenza di uno spiritello femmina e se ne servivano contro i ladri. Il rituale era il seguente: appena subìto un furto, il derubato cercava una pianta di Ginepro. Lo curvava verso terra e rivolgeva a "Frau Wacholder" la deferente istanza di fargli riavere il maltolto. Pare che il lestofante obbedisse nella maggior parte dei casi; sarà, ma è sempre difficile contraddire le convinzioni di un tedesco.    

Juniperus oxycedrus var. macrocarpa - Foto Moreschi
Un altro splendida specie di questo Genere di Cupressacee è l’Juniperus oxycedrus, abituale frequentatore delle zone costiere del Mediterraneo dove è facile individuarlo per i frutti grossi e sfumati di rosso o marrone scuro, dai quali si estraeva per combustione incompleta un olio, etichettato dai Romani sotto il nome di "cedria", usato  allora per imbalsamare i morti.

Dalle bacche di Ossicedro, per distillazione, si ricava tuttora  il cosiddetto "Olio di Cade", una pece, fortemente odorosa, dal sapore bruciante, considerata un buon antisettico.

Ancora oggi è utilizzato in dermatologia e per la fabbricazione di numerose pomate, soprattutto nell'uso veterinario e nella composizione di saponi disincrostanti.

Le bacche dell'Ossicedro si usano anche in medicina come succedaneo del Ginepro comune.  Alcuni autori le credono persino più attive perché sono dolci e meno impregnate di resina.

Alcuni autori le credono persino più attive perché sono dolci e meno impregnate di resina.  Ma anche nel caso di questa specie è bene non confonderne i frutti con quelli del Juniperus phoenicea, decisamente tossici, e perciò, è assolutamente opportuno utilizzare solamente quelle più facilmente riconoscibili del Ginepro comune nella pratica culinaria. 

I tordi sono ghiottissimi delle bacche dell’Ossicedro; lo sanno bene, sia gli uccellatori quando vi stendono sopra le loro trappole mortali, che gli amanti della buona cucina i quali evitano di vuotarne gli stomaci, prima di cucinarli, perché sono già automaticamente farciti ed insaporiti. 

Il maggior numero di utilizzi medicinali è però riservato all’Juniperus communis che trova ampia trattazione in tutti i testi medici, anche odierni, perché contiene nelle bacche la gineprina, una essenza volatile (la quale, assorbendo ossigeno dall'aria forma la Canfora di Ginepro), resina, gomma, zucchero (33%), acetati di potassio e di calcio.

Cinque secoli or sono, il medico Pier Andrea Mattioli, lo usava nei bagni caldi contro la gotta assicurando che "i malati anche se inchiodati a letto, escono dall'abluzione nuovamente agili".  Anche l'Abate Kneipp stabilì un protocollo periodico a base di Ginepro con le seguenti modalità: cominciare con la dose di una bacca quotidiana da aumentare ogni giorno di una sino alla quantità massima di quindici; quindi scalare per ritornare a zero bacche al dì.

L’antica ricetta del vino proposta da Catone il vecchio, ha attraversato due millenni di storia arrivando sino a noi senza subire sostanziali modifiche nella formula e nelle prescrizioni: serviva per combattere in particolare l'idropisia, la renella, i calcoli, le infiammazioni della vescica e delle vie urinarie.

Una sua versione, datata  al 1863, chiamata "Vino diuretico dell'Hotel Dieu", conobbe un notevole successo aggiungendo fama al suo autore, il celebre medico parigino Trousseau.  L'elenco degli ingredienti comprende bacche di Ginepro, foglie secche di Digitale e di Scilla, macerate nel vino bianco.

Utile si riconferma anche il legno sfruttando la sua funzione sudorifera contro la gotta.  Nelle campagne, anche l'alburno di Ginepro, ossia quel sottile strato di polpa che si trova immediatamente sotto la corteccia, è stato il più diffuso rimedio casalingo per la cura della foruncolosi.  Si è tentato persino di porre argine alle epidemie periodiche di peste e colera accendendo grandi falò dei suoi rami nelle strade e vicino alle case. L’ultimo documentato e massiccio uso di Ginepro a questo titolo porta la data del 1870 quando negli ospedali di Parigi si vinse un’epidemia di vaiolo con ininterrotte fumigazioni di Ginepro.

 In effetti le infusioni depurano l’organismo dalle tossine delle fatiche prolungate. L’estratto di foglia verde è un ottimo repellente contro gli insetti ed un calmante contro i loro morsi. Il frutto fresco ha una potente azione di vasodilatazione bronchiale nelle affezioni croniche dei normali e dei fumatori.  Guarisce ferite ulcerate calma i dolori reumatici ed articolari.

All'esterno, le bacche fresche schiacchiate e applicate come cataplasma, come pure la loro decozione concentrata, hanno avuto impiego nell'eczema, l'acne, la scabbia.

Un semplice decotto contro l’alito pesante si ricava facendo bollire 30 grammi di bacche in un litro d'acqua distillata, filtrando ed aggiungendo a caldo qualche foglia di Menta.  
L’Elisir casalingo ad azione aperitiva e digestiva si può ottenere facendo macerare 150 grammi di bacche schiacciate con parti uguali di acqua ed alcool, completando con mezzo chilo di zucchero dopo una settimana.

Il legno del Juniperus communis è anche adoperato per diversi lavori fini di tarsia e di tornio, ma serve anche egregiamente come deodorante; brucia con una fiamma definita "molto bella" ed emana un odore piacevole con il quale si profumano le stanze. Le sue coccole alimentano molte varietà di volatili grandi e minuscoli e, nelle campagne, i buongustai ne ricavano per distillazione "un liquore spiritoso detto rosolio o vino di Ginepro detto anche Gineprata".

La linfa che sgorga naturalmente dal tronco, permette la preparazione di una di sandracca di minore qualità rispetto alla resina solidificata ed estratta principalmente dal Tetraclinis articulata; una Cupressaceae originaria del Nordafrica.

Veniva usata per la preparazione di vernici sia allo stato puro che unita ad altri componenti; miscelata alla gommalacca fornisce un ottimo prodotto per la protezione di mobili e strumenti musicali.
In passato, i granuli erano comunemente usati in cancelleria; strofinati sui fogli di carta, dopo una raschiatura correttiva, li rendevano nuovamente impermeabili e riscrivibili.

In cucina le sue bacche si usano per profumare i piatti di cacciagione e le carni salate, ma sono utili anche per affumicare il prosciutto di cinghiale, donandogli sapore ineguagliabile.

Soprattutto nella Nuova cucina sono molte le ricette in cui è d’obbligo il Ginepro: nella "choucroute", nel paté di maiale, nel coniglio alla ligure, nei ripieni, nei bolliti, nelle zuppe di legumi e nelle conserve.   

Juniperus sabina - Foto Moreschi
L'uso dei semi di Ginepro nell’alimentazione non soddisfa solo il palato ma da una mano nelle digestioni difficili, nell'atonia intestinale, diminuisce le fermentazioni, combatte l’inappetenza.

I giovani germogli, del Juniperus communis, colti al momento della fioritura, seccati e sminuzzati sono uno dei numerosi prelibati the casalinghi di erbe dei quali s’è persa la traccia. 

Il più raro del Ginepri liguri è l'Juniperus thurifera, specie arborea risalente al Terziario, che segna una interessante discontinuità nella dislocazione delle sue stazioni, esclusivamente fissate sui pendii aridi, dall'immediato entroterra della costa alle vette alpine.

Sopporta agevolmente, da tempi immemorabili, i terreni poveri, le estati torride, gli inverni più rigidi, in un arco di località che vanno dai monti dell'Atlante ad isolati insediamenti in Spagna, Francia meridionale, Piemonte ed il ponente ligure.

Su questa specie molto rara e protetta da leggi regionali, minacciata dai continui incendi boschivi, si è acceso recentemente l'interesse degli appassionati di Bonsai i quali ne ricavano preziose e costose sculture vegetali con anni di paziente cura, in considerazione della sua lenta crescita [...] 

di Alfredo Moreschi

domenica 9 agosto 2020

Il poeta che faceva l'idraulico


"Ehi, sorellina!". Quasi stupito, appena addolorato, la sgrida come a dirle "Cosa stai facendo? Svegliati! È inverno, fa freddo, ma c'è il sole e il cielo è limpido. Perché sei morta, allora?"
Un minimo e preziosissimo Cantico delle creature, di francescana umiltà e letizia: come tutte le poesie che ci ha lasciato Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1922 e morto a Montichiari nel 2001.
De Giovanni per tutta la vita ha svolto lavori umili, portalettere dapprima, poi idraulico; abitava con la moglie e due figli in un piccolo appartamento sulle colline della Pigna, nella Sanremo vecchia, vicino al Santuario dell'Assunta. Amando in modo ingenuo e appassionato la poesia, appena poteva si ritagliava uno scampolo di tempo per studiare Lao Tzu, Bashô, Emily Dickinson, Rilke, Eliot, i Vangeli, i grandi del nostro '900. Tra di loro, anche Carlo Betocchi (altro maestro dimenticato… ), che fu il primo ad accorgersi di lui, presentando alcuni suoi versi sulla rivista Letteratura nel 1956.
Alida Airaghi, Luciano De Giovanni in La poesia e lo spirito, 29 gennaio 2018

 
Enzo Maiolino, Ritratto di Luciano De Giovanni (particolare di un disegno del 1957) - Fonte: La Riviera..., Op. cit. infra

Nel bel mezzo del Novecento, chiuso in un cantuccio di provincia (a Sanremo, dove nacque nel 1922), De Giovanni si prese dunque il tempo necessario e qualcosa di più se costituì, come costituì, un inequivocabile incoraggiamento l’accoglienza che Luigi Baldacci, Italo Calvino, Giorgio Caproni, Gina Lagorio e molti altri, incluso Pablo Neruda, avevano riservato alla sua poesia. Il poeta che faceva l'idraulico di primo mestiere, che ammirava i grandi classici e la lirica cinese e giapponese, che amava soprattutto Dickinson, Eliot e Lorca, ma anche l'Ungaretti de L'allegria, il Pavese di Lavorare stanca e il Betocchi di Realtà vince sogno, nella stessa intervista in cui si definì "ligure per caso" e in cui si collocò, imbeccato dalla domanda, in una sorta di solco ligustico personale (Montale-Sbarbaro-Barile, appunto), nella nuova generazione di cantori o avventori del paesaggio ligure, spiegò la sua cauta presenza nel panorama poetico italiano: "Ho pubblicato poco, sia perché rifuggo dal farmi avanti, sia perché ho sempre avuto seri dubbi sulla qualità del mio lavoro" - affidò a una parentesi la precisazione "Adesso un po' meno» (era il 1991) e proseguì - "in cambio ho avuto molti incontri umani, anche perché i miei interlocutori sapevano che non li avrei sollecitati a pubblicarmi".
Alessandro Ferraro in Aprii, cauto, la porta. L’incontro di Luciano De Giovanni con Camillo Sbarbaro, La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, XXVIII, 84, settembre/dicembre 2017

Anche l'atmosfera domestica (la casa, la moglie, i bambini) rientrava a pieno diritto nell’universo poetico di De Giovanni, raccontata con un lessico scarno e volutamente impoverito, privo di ricercatezze e neologismi, quasi che l’arredamento linguistico e mentale dovesse per onestà riflettere quello modesto dell’abitazione, teneramente intiepidito degli affetti familiari:
"Venitela a vedere la mia bambina / in questo mattino di miracoli / saltellare tra le zolle dell’orto: / i raggi del sole la seguono. // Si china e muta ogni cosa / in preziosissime gemme / fa un lieve cenno alla terra / e subito nasce una rosa”, “Il mio, lì nella culla, / dorme gonfio di latte, / il destino e gli eventi / ancora non l’hanno destato. // Un giorno si metterà la cravatta / frettoloso, / dirà ‒ al diavolo tutti ‒ sbattendo la porta", "Presto non sarà più anonimo / questo pezzo di terra, / ci farò una casa / e un pergolato di vigna. // … In un momento di dolcezza / diventerà del tutto diverso / e la sedia a sdraio / vicino alla finestra / si gonfierà di vento", "Ho fatto un sogno strano: / ero un albero in un prato / e tu un nido sopra il mio ramo".
Questa sua propensione alla solitudine e alla meditazione lo avvicinava a una versificazione leggera, a descrizioni delicatamente tratteggiate, che sembrano ereditare la levità elegante della poesia orientale, il desiderio di fondersi con l'innocenza del tutto:
"Dolci sono le more / i rovi sono spinosi // per bere alla sorgente / si deve prima raggiungerla / ma anche la sorgente / ha faticato / e anche il rovo", "Penso / che il paradiso / sia ciascuno di noi / quando dimentica / il suo nome", "Ero andato / al torrente / per leggere / Ciuangzè // ma non ci fu / niente da leggere / il torrente era / Ciangzuè".
Alida Airaghi, Op. cit.
 
L’esistenza, oggi, di un Fondo De Giovanni lo si deve alla determinazione ma anche al caso. Era il febbraio del 2011, al Museo civico Borea d’Olmo di Sanremo Giuseppe Conte presentava il suo Viaggio sentimentale in Liguria (Philobiblon 2010) ed eravamo giunti io da Ventimiglia, Enzo Maiolino da Bordighera e Stefano Verdino da Genova. Cogliendo l’occasione e utilizzando come pretesto la recente pubblicazione di un mio contributo - frondoso, barocco e, ahimè, pure acerbo - su Le case vicino al torrente di De Giovanni (Philobiblon 2009) Verdino mi presentò Maiolino e poi Giorgio, avvicinatosi dall’angolo dove aveva assistito all’evento: ho conosciuto, così, il figlio e l’amico più fedele del poeta grazie al suo più assiduo studioso.
In tale situazione e con tale supporto era difficile non fare bene: Verdino mi ha costantemente aiutato a muovermi nell’opera di De Giovanni; con Maiolino è nata un’amicizia - di cui ho già detto in questa sede quando s’è fatto ombra pure lui (1) - e, nei pomeriggi passati nel suo studiolo di pittore (che era anche di ricercatore e archivista), spesso mi parlava dell’amico poeta e mi incoraggiava a farmi da tramite fra la Fondazione Mario Novaro, con la quale già collaboravo, e Giorgio che da tempo si poneva il problema di cosa fare con l’archivio del padre e che mi ha guidato generosamente nei meandri di questo materiale, dalla primavera del 2018 accolto a Genova, grazie all’attenta disponibilità di Maria Novaro, con la quale si è subito pensato non solo di dare una prima sistemazione a libri, dattiloscritti, carteggi, periodici, ritagli, dvd e pennette usb del Fondo ma di dedicare al titolare del Fondo stesso un quaderno monografico de «La Riviera Ligure», per delineare i contorni della sua figura e far parlare, a dirla con Maria Corti, le voci che dal Fondo si sentono.
Il Fondo Luciano De Giovanni occupa tre scaffali. Sullo scaffale inferiore [...] una cartella di cartone contenente materiale vario (di Pablo Neruda la lettera del 17 gennaio 1959 a De Giovanni e Dos odas elementales con dedica [...]
 
Ultima pagina di Dos odas elementales, contenente Ode alla farfalla e Ode alla pantera nera, scritte da Pablo Neruda nella città argentina Villa del Totoral, nel dicembre del 1955, a casa di Rodolfo Aráoz Alfaro (avvocato e segretario generale del Partito Comunista per l’America Latina), e poi stampate dall’Imprenta Decanini di Jesús Maria il giorno 3 febbraio 1956. Si legge, ancora nel colophon, che ne furono tirate 500 copie non numerate e 100 numerate fuori commercio, la numero 71 è quella regalata a Luciano De Giovanni, con dedica «con amistad», e ora conservata nel Fondo De Giovanni -  Fonte: La Riviera..., Op. cit. infra

Le riviste e il raccoglitore hanno costituito una base molto solida su cui ricostruire la bibliografia degli
scritti di e su De Giovanni che si trova in chiusura del quaderno [...] l’autore rimane da decenni introvabile, come gli scrisse il 21 settembre 1984 un lettore d’eccezione, Fredi Chiappelli (da Los Angeles di passaggio a Genova):
Gentile signore,
leggo su «Resine» le sue Nove Poesie
(2). Il profondo interesse di cui mi hanno colpito (e per ragioni che vanno dalla raffinatezza pressoché incredibile nella forma alla percezione degli scandagli nelle più austere aree dell’esperienza) mi spingono all’indiscrezione di scriverle direttamente.
Non che non abbia, prima, tentato di rintracciare in varie librerie genovesi qualche Sua pubblicazione; e persino scomodato amici che si occupano di letteratura ligure per essere avviato su una pista bibliografica. Ma sono stati tentativi sfortunati, e anche da [Domenico] Astengo ho avuto il consiglio di scriverle.
Non ho mai fatto niente di simile; ed ho tutto l’imbarazzo che potevo avere avvicinandomi alla letteratura quasi cinquanta anni fa. Persino la domanda mi pare cruda e impertinente.
Ma vorrei leggere altre sue cose. Dunque: Come devo fare? Come posso procurarmi i suoi scritti?
Ora dovrebbe venire un paragrafo di scusa. Me ne voglia esentare: e credermi invece con ammirazione il suo Fredi Chiappelli
Sullo scaffale centrale [...]  una geografia in gran parte ligure (con edizioni e dedicatari di Bordighera, Sanremo, Imperia, Albenga, Savona, Genova, Recco e Sarzana) ma qualche libro gli giunse da Milano, Firenze e d’oltreoceano, tramite lo stesso Verdicchio.
Oltre al Fuochi fatui con dedica di Camillo Sbarbaro nell’edizione All’Insegna del Pesce d’Oro (Milano 1958) di Scheiwiller [...] spiccano, anche per ricorrenza, i nomi di Elio Andriuoli, Fredi Chiappelli, Franco D’Imporzano, Sergio Ferrero (che attende giudizi e s’augura di non deludere De Giovanni), Roberto Rebora, Lalla Romano (che definisce De Giovanni «poeta del mare», 4 gennaio 1995), Bruno Rombi, Giovanni Testori («a Luciano De Giovanni di cui ho amato le bellissime poesie con affetto», 25 marzo 1971), Renato Turci e Guido Zavanone [...]  È la fedeltà di De Giovanni alla sua terra (nativa o d’adozione che sia), e che ben lo apparenta ai maggiori poeti della «Riviera Ligure», vero com’è ancora una volta che in Liguria non si nasce o non si vive (e soprattutto non si scrive) senza avere almeno un debito verso quel paesaggio, e il suo singolare alfabeto (6).
Alessandro Ferraro, Partendo dal Fondo in La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, n° 87-88, settembre 2018 - aprile 2019, Anno XXX
1 Alessandro Ferraro, Memoria di Enzo Maiolino, «La Riviera Ligure», XXVIII, 83, maggio-settembre 2017, pp. 73-77. 
2 Luciano De Giovanni, Nove poesie, «Resine», seconda serie, VI, 19, gennaio-marzo 1984, pp. 45-47 (con nota di Domenico Astengo, p. 48).
6 Giorgio Caproni, Luciano De Giovanni per i tipi di Rebellato: Viaggio che non finisce, «La Fiera Letteraria», 9 marzo 1958, p. 3. Ora in Giorgio Caproni, Prose critiche, a cura di Raffaella Scarpa, prefazione di Gian Luigi Beccaria, Aragno, Torino 2012, vol. 2, pp. 1003-1007 (1005-1007).