sabato 15 agosto 2020

Sul ginepro


Juniperus communis - Foto Moreschi
I frutti del nostro Ginepro comune, come è noto a tutti i bevitori, sono l’aroma principale di molti liquori e del Gin in particolare, il cui nome è costituito dalla prima sillaba del suo battesimo volgare.

La più antica di queste bevande era stata lanciata sul mercato già nel II° secolo avanti Cristo da Catone il Censore,  inventore della ricetta.

A detta del più facondo dei Senatori romani, il suo vino, distillato dai frutti maturi di Juniperus communis, aveva il duplice vantaggio di essere un buon diuretico e, nello stesso tempo, di combattere malattie indotte da frequenti brindisi come l'idropisia, la renella, i calcoli, le infiammazioni della vescica e delle vie urinarie; bastava "riscaldarlo in un vaso di bronzo o di piombo"  prima dell'uso. Molto più probabilmente era un ottimo espediente per giustificare la quotidiana libagione evitando la comparsa di  complessi di colpa.
 
Juniperus phoenicea - Foto Moreschi
Il Genere Juniperus copre un areale decisamente vasto, comprendente tutta la fascia temperata dell'emisfero boreale con un complesso di circa 60 specie; otto sono quelle italiane e sei di queste nascono in Liguria.  
In prevalenza sono cespugli o alberelli, fecondi produttori dei caratteristici frutti a forma di bacca, chiamati dagli specialisti galbuli, colorati in diverse tinte a seconda della specie e dello stadio di maturazione; sono l'effetto dovuto alla metamorfosi delle tre squame del piccolo cono le quali diventando carnose si trasformano nella ben nota bacca, cibo prediletto ed indispensabile per ogni specie di uccelli che contraccambiano, con le quotidiane deiezioni, il favore aiutando la diffusione dei Ginepri.  
Le specie di questo Genere hanno abitudini di adattamento molto duttili e crescono bene tanto sui calcari asciutti che nelle torbiere.

Esigono solo molta luce, assumono in molte situazioni il compito di piante pioniere colonizzando praterie montane aride, frane ed  ogni schiarita a disposizione, portando le loro stazioni estreme nell’orizzonte degli arbusti contorti delle alte quote alpine dove superano i 2000 metri d'altitudine.

Quanto alla denominazione Juniperus, il termine resta tuttora di origine incerta; gli specialisti dubitano, pur accettandola con riserva, l'ipotesi di una derivazione da due parole celtiche "gen" e "prus" ("cespuglio" e "aspro") riferite alla forma della pianta ed ai piccoli aghi pungenti.

Secondo una versione alternativa proverrebbe invece da " junix" ("giovenca") unita al verbo latino "parere" ("partorire"), sottolineando un'antica pratica veterinaria di somministrare fronde di Juniperus alle mucche per facilitarne il parto. Anche nella letteratura botanica classica si fatica ad individuare il vero battesimo dei diversi Ginepri, chiamati allora con nomi assegnati anche a molte altre piante; l’identificazione più sicura riguarda l’Juniperus oxycedrus, chiamato "arkeuthos" ("respingente") a causa delle foglie particolarmente aguzze.   

Juniperus phoenicea - Foto Moreschi
Amore, salute ed esorcismo, questi erano i campi d’azione nell’ambito magico dei Ginepri, onnipresenti nel vecchio continente e nelle isole del Nord. Le popolazioni celtiche li consideravano protettivi ad ampio raggio, in particolare contro i furti, sospettando persino che fossero l'incenso esclusivo adoperato dalla Streghe nei loro intrugli. I contadini ne perpetuavano la funzione di scongiuro, sia appendendolo sopra l’ingresso di casa; sia attuando veri e propri riti cantati di esorcismo durante i quali ne bruciavano le fronde per proteggere se stessi ed i raccolti da incidenti, attacchi di animali selvatici, fantasmi, malattie ed i temutissimi serpenti velenosi.

Il Ginepro era per i Celti anche un componente essenziale per i filtri d’amore; gli uomini; in previsione di un piacevole incontro ne mangiavano alcune bacche mature come aiutino, convinti di scongiurare il temutissimo default.

Diversi autori della romanità parlano dei Ginepri come di piante indispensabili in tanti usi. Del suo legno compatto accenna Virgilio definendolo “inattaccabile dai tarli, robusto e capace di durare centinaia d’ anni” 

Plinio, accurato relatore di ogni primato da Guinnes del suo tempo, riferisce molte notizie strabilianti sul loro conto; indica una specie talmente alta i cui tronchi erano usati per ricavare le lunghe tavole usate nel fasciame navale.

Il naturalista latino cita i casi di un tempio  romano dedicato ad Apollo Sosiano e quello di Diana eretto a Sagunto, ben duecento anni prima della distruzione di Troia; nonostante i tanti secoli trascorsi da quando erano stati costruiti, le travi di "Cedrus" (Juniperus excelsa) erano ancora perfettamente conservate.

Plinio dedica ai Ginepri allora conosciuti la solita esauriente disamina nella quale sono mescolate le notizie relative agli utilizzi razionali da parte dei suoi contemporanei, assieme a rituali del tutto privi di ragioni concrete: ”La Sabina è di due specie: una ha foglie che assomigliano a quelle della Tamerice, la seconda a quelle del Cipresso, e questo è il motivo per cui qualcuno l'ha definita Cipresso di Creta.

Molti la bruciano come profumo, simile a quello dell’Incenso, e nella preparazione di farmaci, pare abbia lo stesso tipo di effetti del Cinnamomo, se usata in dose doppia rispetto ad esso.  Riduce gli ascessi e blocca l'espansione delle piaghe; impiastrata, disinfetta, mentre in pessario o soffumigata fa sortire i feti premorti. Se ne fanno anche impiastri con miele per curare il fuoco sacro e le bolle nere; in pozione con vino cura l'itterizia. Dicono che il suo fumo guarisca la pipita nei gallinacei.

E’ simile a questa Sabina la cosiddetta Selagine. Viene raccolta senza usare strumenti di ferro, facendo uscire la mano destra dalla parte della tunica da cui esce la sinistra, come i ladri; occorre inoltre essere vestiti di bianco ed avere i piedi scalzi e ben lavati, avere fatto un sacrificio con pane e vino prima di andarla a cogliere, e trasportarla dentro una salvietta nuova.

Secondo la tradizione dei Druidi di Gallia, averla con se tiene lontana ogni sventura ed il suo fumo gioverebbe contro tutte le malattie degli occhi”. 

L’odierno Juniperus sabina, era già così chiamato dai romani dei primordi perché l’avevano scoperto, per la prima volta nel territorio occupato dai Sabini; si riconosce facilmente per l’odore intenso e nauseabondo delle fronde. 

Sino da quell'epoca, l'Olio di Sabino e gli altri derivati della pianta avevano l’ambivalente utilizzo di medicinale e di amuleto. La punta dei suoi rami, nota sotto il nome di "Herba Sabinae", caratterizzata da un sapore disgustoso e bruciante era considerata abortiva, ma di difficile dosaggio ed estremamente pericolosa, se non mortale.

Infatti, scambiare per errore i frutti della Sabina con quelli di altre forme prostrate di Juniperus communis alle quali riesce ad assomigliare sorprendentemente, è un errore fatale per le conseguenze: emorragie, paralisi e nel migliore dei casi forti irritazioni alle vie digestive e urinarie.

Ciò malgrado l’Juniperus sabina fu ritenuto a lungo una sorta polizza casco contro le presenze malefiche; si infilavano i suoi rami in tutte le fessure dei muri vicino alle case per evitarne l'insediamento. Anche nelle montagne toscane vigeva l’usanza tradizionale di appenderne un ramoscello all’uscio a scopo propiziatorio; ma con una supposizione curiosissima perché i valligiani erano convinti che le streghe, vedendo il ramo di Ginepro sarebbero state distratte dalla forte curiosità di conoscere il numero esatto delle foglie tanto da fermarsi a contarle.

Quasi tutti i Ginepri erano però creduti portafortuna se persino i pragmatici tedeschi avevano loro assegnato il nome di "Frau Wacholder"; infatti, li credevano la residenza di uno spiritello femmina e se ne servivano contro i ladri. Il rituale era il seguente: appena subìto un furto, il derubato cercava una pianta di Ginepro. Lo curvava verso terra e rivolgeva a "Frau Wacholder" la deferente istanza di fargli riavere il maltolto. Pare che il lestofante obbedisse nella maggior parte dei casi; sarà, ma è sempre difficile contraddire le convinzioni di un tedesco.    

Juniperus oxycedrus var. macrocarpa - Foto Moreschi
Un altro splendida specie di questo Genere di Cupressacee è l’Juniperus oxycedrus, abituale frequentatore delle zone costiere del Mediterraneo dove è facile individuarlo per i frutti grossi e sfumati di rosso o marrone scuro, dai quali si estraeva per combustione incompleta un olio, etichettato dai Romani sotto il nome di "cedria", usato  allora per imbalsamare i morti.

Dalle bacche di Ossicedro, per distillazione, si ricava tuttora  il cosiddetto "Olio di Cade", una pece, fortemente odorosa, dal sapore bruciante, considerata un buon antisettico.

Ancora oggi è utilizzato in dermatologia e per la fabbricazione di numerose pomate, soprattutto nell'uso veterinario e nella composizione di saponi disincrostanti.

Le bacche dell'Ossicedro si usano anche in medicina come succedaneo del Ginepro comune.  Alcuni autori le credono persino più attive perché sono dolci e meno impregnate di resina.

Alcuni autori le credono persino più attive perché sono dolci e meno impregnate di resina.  Ma anche nel caso di questa specie è bene non confonderne i frutti con quelli del Juniperus phoenicea, decisamente tossici, e perciò, è assolutamente opportuno utilizzare solamente quelle più facilmente riconoscibili del Ginepro comune nella pratica culinaria. 

I tordi sono ghiottissimi delle bacche dell’Ossicedro; lo sanno bene, sia gli uccellatori quando vi stendono sopra le loro trappole mortali, che gli amanti della buona cucina i quali evitano di vuotarne gli stomaci, prima di cucinarli, perché sono già automaticamente farciti ed insaporiti. 

Il maggior numero di utilizzi medicinali è però riservato all’Juniperus communis che trova ampia trattazione in tutti i testi medici, anche odierni, perché contiene nelle bacche la gineprina, una essenza volatile (la quale, assorbendo ossigeno dall'aria forma la Canfora di Ginepro), resina, gomma, zucchero (33%), acetati di potassio e di calcio.

Cinque secoli or sono, il medico Pier Andrea Mattioli, lo usava nei bagni caldi contro la gotta assicurando che "i malati anche se inchiodati a letto, escono dall'abluzione nuovamente agili".  Anche l'Abate Kneipp stabilì un protocollo periodico a base di Ginepro con le seguenti modalità: cominciare con la dose di una bacca quotidiana da aumentare ogni giorno di una sino alla quantità massima di quindici; quindi scalare per ritornare a zero bacche al dì.

L’antica ricetta del vino proposta da Catone il vecchio, ha attraversato due millenni di storia arrivando sino a noi senza subire sostanziali modifiche nella formula e nelle prescrizioni: serviva per combattere in particolare l'idropisia, la renella, i calcoli, le infiammazioni della vescica e delle vie urinarie.

Una sua versione, datata  al 1863, chiamata "Vino diuretico dell'Hotel Dieu", conobbe un notevole successo aggiungendo fama al suo autore, il celebre medico parigino Trousseau.  L'elenco degli ingredienti comprende bacche di Ginepro, foglie secche di Digitale e di Scilla, macerate nel vino bianco.

Utile si riconferma anche il legno sfruttando la sua funzione sudorifera contro la gotta.  Nelle campagne, anche l'alburno di Ginepro, ossia quel sottile strato di polpa che si trova immediatamente sotto la corteccia, è stato il più diffuso rimedio casalingo per la cura della foruncolosi.  Si è tentato persino di porre argine alle epidemie periodiche di peste e colera accendendo grandi falò dei suoi rami nelle strade e vicino alle case. L’ultimo documentato e massiccio uso di Ginepro a questo titolo porta la data del 1870 quando negli ospedali di Parigi si vinse un’epidemia di vaiolo con ininterrotte fumigazioni di Ginepro.

 In effetti le infusioni depurano l’organismo dalle tossine delle fatiche prolungate. L’estratto di foglia verde è un ottimo repellente contro gli insetti ed un calmante contro i loro morsi. Il frutto fresco ha una potente azione di vasodilatazione bronchiale nelle affezioni croniche dei normali e dei fumatori.  Guarisce ferite ulcerate calma i dolori reumatici ed articolari.

All'esterno, le bacche fresche schiacchiate e applicate come cataplasma, come pure la loro decozione concentrata, hanno avuto impiego nell'eczema, l'acne, la scabbia.

Un semplice decotto contro l’alito pesante si ricava facendo bollire 30 grammi di bacche in un litro d'acqua distillata, filtrando ed aggiungendo a caldo qualche foglia di Menta.  
L’Elisir casalingo ad azione aperitiva e digestiva si può ottenere facendo macerare 150 grammi di bacche schiacciate con parti uguali di acqua ed alcool, completando con mezzo chilo di zucchero dopo una settimana.

Il legno del Juniperus communis è anche adoperato per diversi lavori fini di tarsia e di tornio, ma serve anche egregiamente come deodorante; brucia con una fiamma definita "molto bella" ed emana un odore piacevole con il quale si profumano le stanze. Le sue coccole alimentano molte varietà di volatili grandi e minuscoli e, nelle campagne, i buongustai ne ricavano per distillazione "un liquore spiritoso detto rosolio o vino di Ginepro detto anche Gineprata".

La linfa che sgorga naturalmente dal tronco, permette la preparazione di una di sandracca di minore qualità rispetto alla resina solidificata ed estratta principalmente dal Tetraclinis articulata; una Cupressaceae originaria del Nordafrica.

Veniva usata per la preparazione di vernici sia allo stato puro che unita ad altri componenti; miscelata alla gommalacca fornisce un ottimo prodotto per la protezione di mobili e strumenti musicali.
In passato, i granuli erano comunemente usati in cancelleria; strofinati sui fogli di carta, dopo una raschiatura correttiva, li rendevano nuovamente impermeabili e riscrivibili.

In cucina le sue bacche si usano per profumare i piatti di cacciagione e le carni salate, ma sono utili anche per affumicare il prosciutto di cinghiale, donandogli sapore ineguagliabile.

Soprattutto nella Nuova cucina sono molte le ricette in cui è d’obbligo il Ginepro: nella "choucroute", nel paté di maiale, nel coniglio alla ligure, nei ripieni, nei bolliti, nelle zuppe di legumi e nelle conserve.   

Juniperus sabina - Foto Moreschi
L'uso dei semi di Ginepro nell’alimentazione non soddisfa solo il palato ma da una mano nelle digestioni difficili, nell'atonia intestinale, diminuisce le fermentazioni, combatte l’inappetenza.

I giovani germogli, del Juniperus communis, colti al momento della fioritura, seccati e sminuzzati sono uno dei numerosi prelibati the casalinghi di erbe dei quali s’è persa la traccia. 

Il più raro del Ginepri liguri è l'Juniperus thurifera, specie arborea risalente al Terziario, che segna una interessante discontinuità nella dislocazione delle sue stazioni, esclusivamente fissate sui pendii aridi, dall'immediato entroterra della costa alle vette alpine.

Sopporta agevolmente, da tempi immemorabili, i terreni poveri, le estati torride, gli inverni più rigidi, in un arco di località che vanno dai monti dell'Atlante ad isolati insediamenti in Spagna, Francia meridionale, Piemonte ed il ponente ligure.

Su questa specie molto rara e protetta da leggi regionali, minacciata dai continui incendi boschivi, si è acceso recentemente l'interesse degli appassionati di Bonsai i quali ne ricavano preziose e costose sculture vegetali con anni di paziente cura, in considerazione della sua lenta crescita [...] 

di Alfredo Moreschi