mercoledì 30 dicembre 2020

Molti, la natura li disturba; i più non la vedono

Realdo - Fonte: Comune di Triora (IM)

Fra tutti i fine d’anno attraversati ne ricordo come bellissimo uno solo.
Realdo.
Un gruppo di case abbracciate come un gregge attorno ad un campanile.
Un luogo salvato dalla distruzione del finto progresso.
Scelto da un gruppo numeroso di amici per fingere di lasciare il secolo ‘900 ed entrare timorosi con poca speranza nel nuovo millennio.
Finiti i logoranti abbracci e brindisi, alla notizia che fuori nevicava scappavo furtiva.
Fuori avrei compreso il linguaggio segreto del mondo vegetale.
Il paese da bello si era trasformato in un incanto da meraviglia.
Le strette stradine che portavano nel bosco poco distante non erano ancora state percorse da piedi umani.
Solo le orme di zampe leggere e la scia di una coda.
Una volpe.
La stradina diventava sentiero.
Senza case attorno gli occhi erano liberi di vagare e scrutare con attenzione.
Lasciati gli orti addormentati, dopo aver superato una cappella ed un ponte, potevo entrare invitata nella cattedrale bianca retta dai pilastri degli alberi che la neve colpita dalla luna rendeva magica.
La bellezza era estrema. Gli alberi spogli avevano abiti come mantelli regali ed una strana forza mi attirava costringendomi ad inoltrarmi per diventare parte di quel tutto.
Una comunione.
Ero entrata in unione con la grande Madre Natura.
Il silenzio totale, i riflettori di una luna piena che illuminavano a giorno.
I tonfi della neve non mi spaventavano: sentivo che tutti gli abitanti del bosco mi proteggevano.
Ero così felice che sentivo il desiderio di dover condividere con gli altri rimasti al chiuso il luogo della VERA FESTA.
Li ho odiati.
Chiassosi e irrispettosi di quel candore, stavano profanando un luogo sacro.
La mia liturgia era stata interrotta.
Erano contenti per quello spettacolo inatteso, ma non potevano lasciarsi affascinare da un incantesimo che con il loro chiasso avevano interrotto.

E come scrisse il poeta:
"Molti, la natura li disturba; i più non la vedono.
In lei io mi verso.
È la sola costanza, la sola fedeltà che conosco nell'incertezza di tutto".
Camillo Sbarbaro


Gris de lin

domenica 27 dicembre 2020

Mia mamma, Bianca Grinda


Quella bella signorina sulla sinistra è mia mamma, Bianca Grinda [nata il 2 novembre 1920]. Aveva 17 anni penso, perché la vedo ancora lieta con la sua amica Fiorella [...]

Pochi mesi da questa foto, uno stentoreo annuncio radiofonico proclamava le leggi sulla Protezione della Razza e rimodellava il futuro della sua generazione. 

Nel giro di due anni le certezze che avevano illuminato il suo sorriso sarebbero svanite e in breve quelle che ora viviamo come precauzioni si sarebbero rivelate dei divieti assoluti, esclusioni civili, guerra e terrore  


Bianca se le è lasciate di dietro tutte le sue tragedie, dal padre prematuramente scomparso proprio allo scoppio della guerra, al fidanzato respinto dalla Società perché di “razza” semita, ai fratelli entrambi arruolati per la Guerra Mondiale, al dovere abbandonare la scuola per portare avanti l’attività paterna a sostegno della madre

Paolo Kahnemann di Sanremo (IM)

 

sabato 26 dicembre 2020

Marinaresca la mia favola


Di antica famiglia sanremasca e vissuto sempre in Liguria, Renzo Laurano (Luigi Asquasciati, Sanremo 1905 - Genova 1986) rimane, quale poeta, di ardua collocazione proprio all’interno di quella “linea ligure” che è d’uso riconoscere in un ruvido, essenziale, toccante esistenzialismo. Come ricorda Stefano Verdino presentando Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni venti al club Tenco, fastoso e indispensabile volume curato con Marco Innocenti e Loretta Marchi (De Ferrari editore, Genova 2006), egli stesso ne “menava vanto, anche per gusto di eccentricità”. Intervistato in proposito dalla scrittrice Minnie Alzona (per un testo, ripreso nell’attuale volume, che apparve su un oggi raro “libro bianco” della cultura genovese pubblicato da Sagep nel 1967) Laurano diceva apertamente “di non appartenere, e non ho da dolermene né da compiacermene, al «filone ligure»… I ligustici… schifano dalle loro poetiche vene il sangue infinitamente azzurro del mare, temono, arroccati a scogliere o accomodati su arenili o addentrati nell’entroterra, la Ligure nobiltà, difficile, antica contrastata e vasta del mare a perdita d’occhio”. Aggiungendo: “Nella mia poesia, che è tanto turbata inquieta e sommossa dal mio «mal di Liguria» o  «amor di Liguria», il mare-mare, quel «mare in persona» io lo conosco benissimo”.
A Laurano interessava dunque poco esaurire la questione della sua estraneità alla “linea ligure” nei puri meandri dello stile e riteneva più congruo far risaltare una visione che metteva al centro di tutto l’orizzonte marino, al punto di sbilanciarsi non tanto a favore di qualche poeta ma di uno schietto e insuperato scrittore “di mare” come il sammargheritese Vittorio G. Rossi (“…come scrittore di mare, e tante volte molto bene di solo mare, il primato non soltanto ligure, ma italiano, va a Vittorio Giovanni Rossi”). Ciò detto, se pure è obbligatorio il richiamo all’eccentricità segnalato sopra, altrettanto lo è quello circa l’interesse portato da Laurano all’antica poesia trobadorica (rafforzato all’Università di Genova per il tramite di Alfredo Schiaffini). Con qualche circospezione va inteso viceversa l’ulteriore richiamo di Verdino (che pare poi contraddetto nel suo stesso ingente contributo su La lingua strana di R.L.) riguardo la  “non del tutto compiuta coscienza novecentesca” di Laurano. Meglio (o più prudente) sarebbe argomentare su “un altro novecento” per il  quale, più della sperimentazione, sono stati importanti compostezza e fluidità ritmica, nel qual caso si andrebbe a rimarcare, fra l’altro, la continuità della passione trobadorica con la personale esperienza di poesia e quel sostegno al mondo della canzone che portò Laurano nel circondario festivaliero di Sanremo e alla creazione del Club Tenco. Resta inteso che quanto viene offerto in Marinaresca la mia favola è una succulenta ricognizione critico-biografica - sospinta fin dentro la cultura ponentina del novecento - che vede i diversi e puntuali contributi (di Domenico Astengo, Andrea Aveto, Luigi Betocchi, Giovanni Choukhadarian, Agostino Contò, Alessandro Giacobbe, Angela Giorgetti, Marco Innocenti, Enzo Maiolino, Loretta Marchi, Saverio Napolitano, Stefano Verdino) accresciuti da inserimenti iconografici (dove si mostrano, fra l’altro, diverse foto delle belle donne corteggiate da Laurano, comprese le attrici Assia Noris e Isa Miranda) e documentari (fra l’altro carteggi con Vittorini, Montale, Fiumi, oltreché alcuni frammenti nei saggi, come nel caso di Betocchi). Un libro come questo, concepito nel centenario della nascita di Laurano, è la miglior risposta a una frase di Fausto Curi - colta (citata) nel fascicolo dedicato a Francesco Pastonchi dagli utilissimi quaderni della Fondazione Novaro - secondo la quale si muoverebbero troppe iniziative “per celebrare poeti che, per non corrompere i giovani”, sarebbe stato bene lasciare nell’oblio”.
Bruno Wolf in biblioteca dell'egoista, 2007
 
Nel 1938 su «Meridiano di Roma» Contini aveva firmato un articolo dal titolo Attualità di Laurano <25 in cui elogiava l’attività poetica dello scrittore sanremese e taceva, invece, sulla fama dell’inventore del Realismo lirico. Lo stesso Contini, qualche anno più tardi, aveva imputato a questo scritto la causa della rottura con Capasso, offeso dal silenzio dell’allievo. Già nel 1937 però ci doveva essere stato un qualche attrito tra i due visto che nello stesso anno Contini scrive a Laurano una lettera da Altare, dove si trovava per mansioni militari:
Caro Renzo,
Capasso è lurido come un accattone e quando mi trova mi asfissia di politica… […].
Largo “Ca - passo - io
<26.
Per Contini la rottura con Capasso era stato un episodio doloroso, sul quale tornerà spesso anche in scritti successivi <27. A nulla doveva essere servita la lettera che Contini aveva detto di aver spedito a Capasso dal fronte albanese nel 1941 (come ricorda nel suo romanzo inedito <28) se, nel 1942, in un articolo apparso su «Meridiano di Roma» accusava:
Solo tu, Aldo Capasso, non stringesti la mano ch’io ti tendevo. Se alquanto rancore era sorto nel tempo di pace per una nostra polemichetta, tutto dovevi dimenticare quando io ti tesi la mano. E invano attesi una tua lettera  nell’ospedaletto da campo n. 80 di Turan, e in quello di Valona, e di Napoli, ed ancora oggi io attendo. L’anima dell’uomo è imperscrutabile come lo sono le azioni di nostro Signore Gesù Cristo <29.
25 Ennio Contini, Attualità di Laurano, in «Meridiano di Roma», III, 8, 7 agosto 1938, p. IV.
26 Lettera autografa, scritta solo sul recto, datata 8 ottobre 1937 e inviata a Renzo Laurano da Altare. Il documento è conservato nel Fondo Renzo Laurano della Biblioteca civica «Francesco Corradi» di Sanremo, Epistolario b. 9, fascicolo 124.
27 In una lettera datata 7 ottobre 1977 (AC, dattiloscritta, autografa, su due fogli impiegati solo sul recto) indirizzata a Fidia Gambetti scriveva Contini, ormai a distanza di molti anni: «Circa il Capasso, esistenzialmente più incoerente di Laurano, anche se più sagace, il suo peccato maggiore è quello di odiare. Egli coltiva l’arte dell’odio. Perciò io fingo d’ignorarlo e lui finge d’ignorarmi. Viviamo a un tiro di schioppo l’uno dall’altro. Una collina ci separa. Ma è una collina che sembra un continente […]. Morii per Capasso nel 1938 quando comparve quell’articolo su «Meridiano di Roma» intitolato Attualità di Laurano».
28 «Appena potei tenere una penna in mano, scrissi una cartolina ad Aldo Capasso, una cartolina di pacificazione… Nutrivo nei suoi confronti un qualche rimorso… Lui s’era offeso perché sul “Meridiano di Roma” avevo scritto un lunghissimo articolo su Renzo Laurano e non su di lui… Ma perbacco, è vero che lui mi aveva scoperto, ma Laurano aveva fatto qualcosa di più… mi aveva lanciato. Aldo Capasso non rispose alla mia cartolina…» (AC, tratto dal romanzo inedito, primo dattiloscritto, p. 18).
29 Ennio Contini, Variazioni per un diario intimo, in «Meridiano di Roma», VII, 1, gennaio 1942, p. V.

Francesca Bergadano, «Il gioco irresistibile della vita». Ricerche su Ennio Contini (1914-2006): poeta, scrittore, pittore, Tesi di laurea, Università degli Studi Genova, Anno Accademico 2017-2018
 
“La Pigna”. Mi sembra che non si possa dir meglio per un denso di case, terrazza con terrazza, in ascesa lungo un ripido cono, ché questo è il plastico della vecchia Sanremo.
Ma per i naviganti la montagna è sfumata e la chiesa che si vede è la Madonna della Costa. Forse la chiamarono così i capitani e i marinai. Anche le case dal mare sembrano volte frettolosamente a quel traguardo.
Sul mare delicato passano intanto amorosi tremori. I flutti si rincorrono a coppie, e questo che giunge abbraccia e liscia quello che si sdraiò sull’arena.
Renzo Laurano
 
Lettera 334
Roma 10 settembre [19]56
Carissimo Oreste [Macrì],
sto aspettandoti di giorno in giorno, giusto quanto mi dicesti nella tua cartolina, circa la ripresa degli esami.
[...] A proposito di conferenze, ho avuto, tramite Laurano <2, l’invito a Genova per la fine di novembre, sul tema che conosci <3. E sono grato a te per l’occasione di lavorare su un argomento che mi sta a cuore e per il compenso
che me ne verrà.
Fatti vivo. Un caro saluto, anche da Piera, ad Albertina (libera); un abbraccio di cuore a te
Giacinto [Spagnoletti]
Niente ancora da Lecce, sulla faccenda dell’incarico <4, che mi riguardi. è...]
Lettera dattiloscritta, ad eccezione della firma e dell’ultimo periodo. Busta mancante.
[NOTE]
2 Il riferimento è al poeta ligure Renzo Laurano, nome d’arte di Luigi Asquasciati.
3 Probabilmente un convegno sull’ermetismo (cfr. la lettera 346).
4 Verisimilmente Spagnoletti sperava di ottenere un incarico presso la neonata (’55) Università del Salento.
(a cura di) Andrea Giusti, «Si risponde lavorando». Lettere 1941-1992 / Oreste Macrí-Giacinto Spagnoletti, Firenze, Firenze University Press, 2019 

Lettera 338
Firenze 11 ottobre 1956
Caro Giacinto [Spagnoletti],
torno dalla Biennale, che mi ha disgustato, come fa rivoltare qualunque spettacolo dell’avanguardia diventata accademia <1. Ma gli organizzatori non hanno colpa; la pittura oggi è quella che è: non fa paura, ecco tutto.
Notevolissima è invece la mostra di Carracci a Bologna <2, per quanto non sia persuaso di un transito dal manierismo al barocco oltre le forme esterne: categoria stilistico-estetica è una assoluta novità.
Ti ringrazio, vi ringrazio di cuore dell’invito che non posso accettare; avresti dovuto prevederlo, se già a Laurano dissi di no <3.
Sono molto oberato di lavoro; non ho un istante da dedicare ad altro.
Guarda che tornerò a Roma il mese di dicembre, come ti scrissi nell’ultima cartolina <4. Scrivo subito per te a Vallone <5.
L’abbraccio del tuo
Oreste [Macrì]
Lettera manoscritta. Busta mancante.
[NOTE]
1 Macrí allude alla 28° edizione della Biennale veneziana, che nel ’56 ospitava opere di: Alvar Aalto, Afro, Bernard Buffet, Enrico Cajati, Francesco Caserati, Lynn Chadwick, Sandro Cherchi, Pietro Consagra, Eugène Delacroix, Josef Dobrowsky, Pablo Gargallo, Richard Gerstl, Emilio Greco, Juan Gris, Renato Guttuso, Hans Hartung, Bernhard Heiliger, Hilary Heron, Ivon Hitchens, Joseph Kutter, Romeo Mancini, Onofrio Martinelli, Aldemir Martins, Piet Mondrian, Ernst Wilhelm Nay, Emil Nolde, Fausto Pirandello, Filippo De Pisis, Arnaldo Pomodoro, Giò Pomodoro, Giovanni Pontini, Miodrag Protic, Toni Stadler, Hans Staudacher, Wilhelm Thöny, Joaquín, Torres-García, Arturo Tosi, Auguste Tremont, Emilio Vedova, Jacques Villon, Pasquale Vitiello, Fritz Winter, Rik Wouters.
2 La mostra dedicata ai fratelli Carracci si svolte nel bolognese palazzo dell’Archiginnasio dal 1° settembre al 31 ottobre ’56: cfr. Catalogo critico, a cura di Gian Carlo Cavalli, con una nota di Denis Mahon, saggio introduttivo di Cesare Gnudi, Bologna, Alfa 1956. Su Macrí e l’arte cfr. il macriano Scritti d’arte. Dalla materia alla poesia (cit.). 3 L’allusione è alla romana conferenza sulla Situazione della critica italiana oggi (cfr. la lettera 334).
4 Cfr. la lettera 336.
5 Cfr. la lettera 334.
Andrea Giusti, Op. cit.
 
Renzo Laurano, nome d’arte di Luigi Asquasciati, è uno fra gli illustri letterati cittadini di Sanremo (IM), dove nacque il 2 febbraio 1905.

La sua famiglia, una delle più in vista di Sanremo, aveva dato alla città un sindaco, lo zio Bartolomeo Asquasciati, ed una Banca, diretta dal padre, un istituto impegnato sul fronte dell’edilizia, del governo della città e dei traffici commerciali, anche con l’estero. 

Venne premiato assieme a Diego Valeri e Giuseppe Ungaretti alla XIX Biennale Internazionale d’Arte di Venezia del 1937.
Intrattenne una fitta corrispondenza con Ungaretti, Montale, Quasimodo ed autori stranieri della taglia di Paul Valéry, più volte oratore ai Lunedì Letterari del Casinò di Sanremo, che Laurano frequentava assiduamente. 
Partecipò alla fondazione dell’Université conoscendo i più attivi esponenti della letteratura europea come Jean Cocteau.

Ricevette il titolo di Accademico dell’Istituto di Coimbra per le lettere neo-latine.        
                     


Le poesie di Laurano trovarono spazio su antologie letterarie e scolastiche nazionali con innumerevoli traduzioni in parecchi paesi del mondo.  

Combattè sul fronte russo durante l’ultimo conflitto mondiale.

Tornata la pace, Laurano riprese l’insegnamento al Liceo Cassini di Sanremo, inframmezzato dalla rinnovata e feconda attività letteraria con Carlo Galasso, animando le due edizioni del Premio Rubino di letteratura per l’infanzia assieme a Bonaventura Tecchi, Sergio Tofano e Gianni Rodari. 

Curò (1965) un’antologia, Le cinque guerre: poesie e canti, con la prefazione di Salvatore Quasimodo.

Laurano siglò anche altre importanti pubblicazioni.

La sua opera letteraria è monumentale e conta saggi sulla poesia provenzale e la traduzione di testi anche poco noti, tra i quali quella delle Satire di Aulo Persio Flacco. 

Alla sua morte, avvenuta nel 1996, lasciò in Sanremo alla Biblioteca Civica  i 4600 volumi della sua biblioteca, le oltre 7000 lettere del suo epistolario, annate intere delle più importanti riviste letterarie del periodo 1930-1980, l’importante carteggio Phillipson-Garibaldi *, ed al Museo Civico * una gran quantità di quadri antichi e moderni, antiche stampe, cimeli garibaldini, molti provenienti dalle eredità familiari.

 Alfredo Moreschi 


* Fondo Renzo Laurano
Carattere letterario

Consistenza: volumi 4500 ; riviste 57
La Biblioteca di San Remo ricevette in donazione nel 1986 la biblioteca privata del poeta sanremese Renzo Laurano (pseudonimo di Luigi Asquasciati) (1905-1986). La raccolta è di particolare pregio per la molteplicità dei materiali contenuti: libri, riviste e documenti relativi alla sua attività poetica ivi compresi carteggi con i più importanti protagonisti del panorama letterario del novecento, ma anche fotografie, cartoline, collezioni di dipinti e stampe, ora conservati nel Museo civico cittadino.
Per quanto riguarda la ricca biblioteca sono da segnalare i volumi (in gran parte autografati) dei poeti contemporanei; i volumi di poesia provenzale; la raccolta di riviste letterarie del ‘900 e una sezione di libri rari e di pregio editi tra il 1600 e il 1800. Nel lascito pervenuto alla biblioteca vi è anche una piccola ma preziosa raccolta di volumi appartenuti alla poetessa inglese Caroline Phillipson, amica di Garibaldi,  vissuta a San Remo alla fine del 1800, la cui collezione fu ereditata da Laurano dal nonno che fu sindaco di San Remo.
I volumi catalogati sono 2600 consultabili in sede e riguardano la parte relativa alla poesia e alla  letteratura. Le notizie bibliografiche del Fondo Laurano sono reperibili, oltre che presso la nostra sede di Biblioteca Comunale, anche attraverso la consultazione del catalogo informatizzato della Biblioteca. 
 Comune di Sanremo

martedì 22 dicembre 2020

L’immagine imprevista

Pinot Gallizio, Piero Simondo, Elena Verrone, Michèle Bernstein, Guy Debord, Asger Jorn, Walter Olmo a Cosio di Arroscia (IM) nel luglio 1957 (foto: Ralph Rumney) - Fonte: Trucioli 


In quest’estate 2011, in quel di Finalborgo, graziosa cittadina che ancora conserva alcune sue vestigia d’altri tempi, si è tenuta una mostra di notevole interesse.
Se ne è parlato meno rispetto a certe mostre-spettacolo che oggi van tanto di moda ma in un certo senso valeva molto di più.
Perché nel complesso monumentale dei Chiostri di Santa Caterina, Oratorio de’ Disciplinanti, sono stati esposti libri e dipinti di Piero Simondo.
A mostra conclusa possiamo continuare a sfogliare il bel libro, a cura di Sandro Ricaldone, che ha fatto le funzioni di catalogo, e che è godibilissimo di per sé: L’immagine imprevista. Rendiconti, opere, interviste, Il Canneto Editore, Genova 2011.
Nel volume sono raccolti alcun scritti di Simondo (Ricordo Asger Jorn, Oh, mia Bauhaus immaginista!, Cosa fu il laboratorio sperimentale di Alba, La calata degli europei ad Alba, Guarda chi c’era, guarda chi c’è), alcune riproduzioni di suoi quadri, alcune interviste.
Un bel compendio, anche per chi si avvicinasse per la prima volta al mondo di Simondo.
L’artista è nato a Cosio d’Arroscia nel 1928.
Lassù tuttora vive e lavora [purtroppo Simondo è morto ai primi dello scorso mese di novembre]. Allievo all’Accademia Albertina di Torino, poi laureatosi in filosofia, comincia ad esporre ceramiche astratte nel 1952 ad Alba.
Nel 1954 inizia a produrre i monotipi su carta, e da lì seguiranno mille altre sperimentazioni.
Rifiuta ogni commercializzazione dell’opera d’arte e dà grande importanza al lavoro pedagogico, come passaggio di conoscenze e di esperienze, lavoro che per lui man mano si concretizza nel Laboratorio sperimentale del MIBA (Movimento Internazionale per un Bauhaus imaginista), nel CIRA fondato a Torino nel 1962 (Centro di cooperazione per un Istituto Internazionale di Ricerche Artistiche) e poi nei laboratori di attività sperimentali presso l’Istituto di Pedagogia e nella docenza di Metodologia e didattica degli audiovisivi all’Università di Torino.
 

Piero Simondo, Manica a vento, 1975 - Fonte: Unione Culturale Antonicelli

Esperienze importanti, un poco oscurate dal fatto che Simondo, con Guy Debord e pochi altri, fu uno dei fondatori dell’Internazionale Situazionista, movimento radicale di fondamentale importanza nella storia del Novecento, ma da cui presto Simondo si distaccò, a causa dei dissensi rispetto alla linea proposta da Debord.
Ci dice Sandro Ricaldone: «Simondo è una figura di grande interesse, che per via dei meccanismi del mercato (cui si è sempre sottratto) e di una certa miopia selettiva degli storici dell’arte [...] non ha goduto di una notorietà diffusa».
Ed effettivamente è un artista affascinante, ed un teorico originale e stimolante, ed un uomo disarmante nel suo candore e nella sua eleganza mentale. Questo volumetto ne è una bella testimonianza.
Date retta a noi, dategli almeno un’occhiata.

Piero Simondo: L’immagine imprevista. Rendiconti, opere, interviste, a cura di Sandro Ricaldone, il canneto editore, Genova 2011

Marco Innocenti in IL REGESTO (Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo), Sanremo (IM), anno III, n° 1 (9), gennaio-marzo 2012

[Marco Innocenti è autore di diverse opere, tra le quali: Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; articoli in Sanremo e l’Europa. L’immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d’occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sull’arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006]

 

sabato 19 dicembre 2020

Le pozze tourquoise del rio Carne

Il Rio Carne a Pigna (IM)

È risaputo che invecchiando si torna bambini.
Qualche tempo fa io e la piccola Vittoria siamo andate ad esplorare il territorio pignasco.
Anni che non tornavo da quelle parti.
Dopo aver percorso da Nord a Sud la lunga processione di case, in salendo e in scendendo, siamo giunte alla casa castello che chiude il centro abitato.
Un suono amato ruscellante, annunciava un rio.
Tre giovani ragazze stavano inoltrandosi in una strada che si perdeva nel verde e nel bosco.
Istintivamente le abbiamo seguite a distanza.
Naturalmente a causa del mio andare lento per non perdere tutto ciò che ci circondava le abbiamo perse di vista.
La piccola Vittoria decideva senza saperlo che quella strada ci avrebbe condotto al Rio Carne con le sue meraviglie segrete, un luogo che sapeva desideravo scoprire.
Con fatica ma in buona compagnia di orchidee Barlie con i loro candelabri rosati, di gemme nuove sugli alberi in attesa di esplodere, di Polmonarie dalle foglie maculate, Salvie sclaree e mimose a macchiare le colline di luce dove il sole non era ancora arrivato, proseguivamo già appagate.
 


Ad accoglierci infine il delicato ponte medievale a schiena d’asino senza la protezione dei parapetti.
Chissà se i muli e gli asini carichi avranno sofferto di vertigine?
Consumato dal tempo sembrava sostenuto degli intrecci delle edere.
Un ponte che era un invito un invito a proseguire per poter gettare giù uno sguardo.
 


E sotto, pozze turchesi dentro gli scogli levigati che erano simili alle valve delle conchiglie.
Un invito a rannicchiarsi lì dentro.
La scenografia intorno non poteva essere più bucolica.
I rami degli alberi ancora spogli di ontani, fichi, carpini levigati riflettevano la luce.
Avevamo ancora scovato nella nostra Valle la bellezza nascosta.
Che gioia, a me saltellava il cuore e a lei brillavano gli occhi.
Io con il passaporto della terza età e lei piccola ed avventata.
Oltre non abbiamo proseguito.
La giornata si concludeva con un cielo color Tiepolo.
Un ultimo dono che aveva colmato il cuore già pago delle due esploratrici.

Gris de lin

giovedì 17 dicembre 2020

Il Giusquiamo

Hyosciamus niger

Molte sono le piante abituate a vivere sui vecchi muri della città vecchia [di Sanremo (IM)] o di Santa Tecla e fra queste si impone il Giusquiamo.
Parente stretto della Mandragora, della Belladonna e dello Stramonio, ne condivide, oltre alla comune appartenenza alla famiglia delle Solanacee, anche lo sgradevole fetore, simile a quello del tabacco, unito alle mortali prerogative di vegetale fortemente tossico per la presenza di alcaloidi dei gruppo delle tropine.
Lo conoscevano già perfettamente Babilonesi, Indiani, Persiani, Arabi ed Egiziani; questi ultimi lo descrissero a fondo nel famoso papiro scoperto e decifrato da Georg Ebers e ne raffigurarono le tecniche di somministrazione ai sofferenti di mal di denti o di cefalea, dipingendoli a testa china mentre inalavano i suffumigi di semi di Giusquiamo.
I Greci ed i Romani lo dedicarono a Giove continuando a praticarne le applicazioni terapeutiche, soprattutto come specifico contro la follia, persino come analgesico durante le operazioni chirurgiche.
Infatti, uno dei primi anestetici della Storia medica chiamato spongia somnifera, si preparava imbevendo uno straccio con Oppio, succo di Mandragora e di Giusquiamo.
Dopo ogni intervento si faceva asciugare, per tenerla pronta all’uso ed in caso di necessità, si idratava nuovamente, ponendola quindi sulle narici del paziente; per controllare se il soggetto fosse sopravvissuto, si sostituiva con la classica spugna imbevuta d’aceto caldo.
Il Giusquiamo, in dosi minime, è stato a lungo somministrato consapevolmente per combattere l’insonnia, calmare i dolori nevralgici, l’asma, le convulsioni e i tremiti, etichettandolo anche “Erba del mal di denti”, quando veniva preparato in decotto per inserirlo a gocce nelle cavità dentali doloranti.
Infine, per molte popolazioni mediterranee è stato il rimedio collaudato per combattere l’infestazione da pidocchi o altri noiosi parassiti.
Nonostante le difficoltà di dosaggio, l’olio ricavato dai semi continuò ad essere preparato sino ad epoche molto recenti per arrestare lo sviluppo dei tumori, per attenuare il dolore agli arti, alla testa, alle orecchie e per guarire la podagra.
Questi “fantastici” risultati si ottenevano, a detta dei medici di allora, spalmando l’unguento direttamente sulle parti doloranti, mentre in relazione agli usi interni delle foglie si mostrava molta maggiore prudenza perché: “le galline e gli uccelli che lo mangiano in breve tempo muoiono e l’unico rimedio a questo veleno è il latte caprino, l’acqua melata, Finocchio, seme d’Urtica, Cipolla, Senape e Rafano presi col vino”.
 

Hyosciamus albus

Si arrivò addirittura a pensare che il Giusquiamo fosse una delle erbe adoperate dalle streghe per procurarsi gli stordimenti e le allucinazioni necessarie a raggiungere il massimo della forma nei loro misteriosi e satanici riti collettivi.
Forse si trattava di una fuga mentale dalla realtà, una sorta di estasi simile a quello che nelle cronache giornalistiche della nostra epoca si compiono con il nutrito armamentario di droghe leggere e pesanti.
Nel suo Libro dei veleni l’autore Gustav Shenk documenta quanto gli accadde dopo aver aspirato le fumigazioni di semi di Giusquiamo: “Mi si strinsero i denti, e fui preso da un cieco furore. Tremavo, ero terrorizzato, ma a tratti pervaso da senso di benessere; i miei piedi si alleggerivano, si espandevano separandosi dal corpo come le altre parti ognuna per suo conto. La testa era diventata enorme e temevo mi cadesse addosso. Improvvisamente provai la sensazione di librarmi. Nello stesso istante provai una piacevolissima sensazione di volare, ma contemporaneamente avevo paura di morire perché il mio corpo si era sfaldato”.
Nelle epoche successive affiorarono più oscuri e cervellotici utilizzi messi in opera da moltitudini di cultori di negromanzia. Per compiere sortilegi e fatture contro qualche nemico circolavano diverse e complicate ricette: si maceravano in un recipiente di coccio Giusquiamo, Alloro e Giglio mescolati a latte di pecora, mettendo la mistura nella pelle di un agnello.
L’immancabile risultato doveva essere quello di privare del latte tutti gli ovini dei dintorni.
Se si voleva indirizzare la maledizione verso le mandrie di altre specie di animali bastava cambiare tipo di latte e mettere l’intruglio nella pelle della bestia corrispondente.
Per indurre febbri o altri malanni nei nemici la procedura era più complessa ed articolata perché in estate, durante la luna calante, si dovevano pestare foglie di Giusquiamo ed Alloro per sotterrarle dentro una concimaia: dopo poco meno di un mese, sempre in regime di luna ridotta, si estraevano dal letame i lombrichi nati nel frattempo che andavano essiccati, polverizzati e fatti mangiare con un sotterfugio alla vittima designata.
Nei periodi siccitosi, uno dei riti praticati per far ritornare la pioggia era quello di trovare una vergine disposta a farsi cospargere di un decotto a base di Giusquiamo ed immergersi per alcune ore nel laghetto più vicino.
Per la letteratura dotta, una delle illustri vittime del Giusquiamo fu il padre di Amleto avvelenato, secondo Shakespeare, dal succo versatogli nell’orecchio.
Secondo Mattioli gli unici animali a mangiare il Giusquiamo, rimanendo indenni, erano i maiali: “Mangiando li porci selvatici (secondo che scrive Heliano) stupefannosi tutti. Ma corrono per istinto naturale subito all’acqua e mangiano quivi dei granchi e così si liberano”.
Infatti la loro denominazione derivata direttamente dall’antico nome greco, hyos-kiamos, (Fava di porco) è strettamente collegata al maiale, come il nostro battesimo volgare di “Erba porcina”.
I Romani, lo chiamavano anche, secondo Scribonio, altercum perché faceva perdere il bene dell’intelletto e provocava accessi di furia incontrollabile.
Nel suo ambiente naturale il Giusquiamo si presenta con un aspetto invitante e decorativo già al momento della fioritura, quando per alcuni mesi continua a ricoprire i suoi steli di fiori giallo chiari o venati di porpora a seconda della specie.
Anche nel secco mantiene la sua originale eleganza dovuta ai lunghi rami bianchi abbelliti dai calici persistenti, nei quali sono racchiuse le capsule dei semi, una strana struttura vegetale adatta alla realizzazione di composizioni ikebana.
Fra le insolite particolarità biologiche del Giusquiamo si nota la sua notevole diffusione dovuta certamente alla enorme quantità di semi prodotti da una singola pianta (sino a 10.000).

Hyosciamus niger

L’Hyosciamus niger incuriosisce inoltre perché appare improvvisamente in una determinata zona ed in breve vi si diffonde, salvo scomparire altrettanto rapidamente dopo alcuni anni senza un apparente motivo.
Lo aveva constatato direttamente Vincenzo Nam, autore della Flora di Alassio quando scrisse: “Non è pianta di questo territorio bensì della regione montana; solo dopo molti anni trovai anche in Alassio un esemplare a fianco della carrozzabile prima di giungere a Porto Salvo il 6 maggio 1923, e suppongo che ne abbiano portato i semi le pecore che ogni anno vengono a svernare da noi”.
Resta da segnalare, infine, un uso colpevolmente disonesto messo in pratica da molti birrai artigianali nei secoli scorsi, i quali erano soliti mescolare alla birra prodotta per la vendita, grandi quantità di semi di Giusquiamo allo scopo di aumentarne il potere inebriante.
Nelle foglie, nei semi e nella radice dei nostri Hyosciamus sono contenuti due alcaloidi, la josciamina e la scopolamina; quest’ultima si trasforma parzialmente in atropina con l’essiccamento o con il riscaldamento.
Le altre sostanze presenti in tutte le parti della pianta sono amido, gomma, mucillagine, zucchero, sali di potassio, calcio e magnesio oltre ad un olio grasso ed un glucoside amaro chiamato joscipicrina.
Questo notevole magazzino farmaceutico viene tuttora sfruttato dall’industria per l’estrazione dei diversi princìpi adoperati in molti prodotti medicinali.
Il Giusquiamo è attualmente giudicato dagli specialisti come un valido sostituto della Belladonna con in più il vantaggio di provocare allucinazioni meno dannose, ma di indurre un sonno molto profondo.
Si indica come specifico nelle tossi spasmodiche, nella tosse asinina, nelle manifestazioni isteriche, epilettiche, nelle convulsioni, nella corea e nelle nevralgie soprattutto dei trigemino.
Come abbiamo detto, il Giusquiamo presenta caratteristiche ornamentali di buon livello, soprattutto se si assecondano le sue caratteristiche di specie ruderale e lo si inserisce nelle fessure dei vecchi muri.
La produzione di semi è talmente ampia che se ne possono prelevare quanti se ne vuole nelle parti in pietra esposti al sole degli edifici più antichi.
La lunga e grande produzione di fiori gialli origina sottili ed eleganti spighe che nel secco assumono un rilevante carattere decorativo per composizioni floreali.

Alfredo Moreschi in IL REGESTO (Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo), Sanremo (IM), anno II, n° 4 (8), ottobre-dicembre 2011

 

martedì 15 dicembre 2020

È un lavoro lento. Io sono una persona lenta

Un'opera di Eleonora Siffredi - Fonte: Comune di Sanremo (IM)

La mostra “Opere ritrovate” che il 19 giugno [2015] si è aperta nelle sale del Museo di Villa Luca a Coldirodi (oggi amministrativamente una frazione di Sanremo, ma in realtà un borgo a sé stante, un tempo denominato la Colla, con sue proprie caratteristiche) ci ha dato la possibilità di tornare a vedere (dopo le varie esposizioni in Liguria, a Venezia, a Parma) una raccolta di lavori di Eleonora Siffredi.
Così, in una porzione del piano superiore dell’edificio che ospita la severa raccolta di quadri e libri del sacerdote Stefano Paolo Rambaldi (che fu in rapporti epistolari con Pellico, Gioberti, D’Azeglio e Manzoni, fra le altre cose), ecco questa mostra che si presenta con la leggerezza e l’impalpabilità delle nuvole.

Sono quadri, quelli che vediamo in questa esposizione?
Diremmo di sì, per lo meno in quell’accezione aperta e un po’ turbata che ci fa ritenere quadri i polimaterici di Prampolini o gli assemblages di Rauschenberg. 

Anzi, Siffredi esce assai poco dalla bidimensionalità, e comunque chiede uno sguardo unidirezionale, quello appunto della pittura.
Insomma, a queste opere non ci puoi girare attorno, come invece si può fare con le sculture o con gli edifici.
O, volendo, puoi farlo, come per ogni cosa, ci puoi anche passeggiare davanti e di dietro, guardarle dall’alto e dal basso: “qui oggetto è l’aria (materia anch’essa) che vi passa attraverso”, come scrisse Sandro Bajini.
Osservi queste trine, questi ricami, queste cuciture: sono cose raccolte qui e là, materiali di scarto, oggetti deteriorati dal tempo – e strappati al tempo.
Sembrano i resti fossili dei pensieri inconsci, le tracce di un sogno.

Siffredi dichiara che “ci vuole sempre un particolare su cui lavorare aggiungendo o togliendo, bruciando o cucendo”.
Il risultato è un apparente disordine, composto da formelle, pezzi di cartone, vecchi tessuti lacerati, che si trasforma in una sorta di architettura fragile e incantata.
Questi quadri hanno la magica bellezza delle ragnatele.
E se dovessimo indicarne un padre spirituale, saremmo prevedibili e ovvi, ma il nome che ci viene in mente è quello di Kurt Schwitters.
Naturalmente altri rapporti si possono scovare, altri predecessori o compagni di strada si possono indicare.
Così, quasi per gioco, un po’ avventatamente, possiamo provare a stabilire qualche connessione.
La poetica siffrediana trova un antecedente nei procedimenti di Burri, certo, che nei suoi sacchi strappati e ricuciti, nelle sue plastiche trasformate dal fuoco, trova il modo di realizzare raffinati equilibri spaziali e cromatici.
Da un punto di vista puramente visivo certi esiti possono ricordare Gaudì: taluni particolari di Casa Calvet o del Tempio della Sagrada Familia, per esempio.
O ancora si possono trovare parentele con i montaggi di frammenti della realtà attuati da Tony Cragg e con i graffiti di Cy Twombly, con le pitture di Antoni Tàpies e con l’operare di Domenico Bianchi, dove può capitare che alcuni piccoli lavori diventino - con un procedimento da musicista - motivi su cui basare ulteriori rielaborazioni.
Il cerchio metallico di Cose perdute a noi ha ricordato Self portrait as Enzo and as Twig di Douglas Beasley.
Nella Siffredi è fondamentale questo continuo costruirsi e sfaldarsi, questo decadere e questo risorgere dalle ceneri.
 

Ventimiglia (IM): Chiesa di San Francesco, part.

C’è una chiesa sconsacrata a Ventimiglia, la chiesa di San Francesco, nella zona alta della città, il cui interno risulta tutto come scalpellato. Le nicchie dove dovrebbero trovarsi le statue dei santi sono vuote. Le pareti sembrano rose dal lavorìo dei secoli. Andate a vederla. È come un quadro di Eleonora Siffredi.
Se andiamo a cercarci i primi lavori, talvolta ancora figurativi, dell’artista (una piccola grafica, un grande quadro con fiori) troveremo opere accurate, precise, meticolose. Eppure il segno è inconfondibile, si vede subito che la mano è la stessa - è lo stesso il pensiero che muove la mano, la capacità di rielaborazione, lo stile.
A Villa Luca è esposta una Composizione, datata in catalogo 2012 (ma la stessa opera, esposta, è indicata come Tappeto e datata 2013: le datazioni dei vari pezzi vanno prese cum grano salis, nella fluidità creativa della Siffredi, che lascia probabilmente germinare le opere con il tempo, prima nei suoi pensieri e poi nel loro farsi). Questo quadro è composto da sedici piccoli quadrati di carta, sedici tasselli, disposti l’uno accanto all’altro in quattro file.
Un ordine geometrico pacato, fermo, che dà a quella materia dilavata e decomposta una sorta di ritrovata purezza, di sommessa musicalità. Una semplicità assoluta, raggiunta come in una maturazione continua, così come cresce un albero o si leviga una roccia per l’azione del vento.
«È un lavoro lento. Io sono una persona lenta».

Marco Innocenti in IL REGESTO (Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo), Sanremo (IM), anno VII, n° 1 (25), gennaio-marzo 2016

[Marco Innocenti è autore di diversi lavori, tra i quali: Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; articoli in Sanremo e l’Europa. L’immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d’occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sull’arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006] 

[...]
Cara Eleonora,
ho davanti agli occhi i tuoi lavori recenti. Dicono ciò che le ‘cose’ nascondono e proteggono. Parlano chiaro e sottovoce perché non devono raccontare nulla, solo d’esser lì, segni del mondo che si stanno formando e ci appaiono compiuti negli istanti in cui li vediamo, prima ancora di avere un nome, storia o qualche utilità. Mi piacciono molto. Auguri per la tua mostra e un grande abbraccio da Guido.
Guido Strazza
Cara Nora,
penso che la chiesa di S. Andrea - a Parma - (adattata a spazio espositivo) sia una scelta felice per una mostra delle tue opere recenti (sia le grandi composizioni bianche, sia le altre strutture ‘filiformi’). Trovo ottima l’idea di riunire in un unico pannello le opere di piccolo formato (preziose, vibranti di materia) come felice ‘controcanto’ (o contrasto con il resto della mostra. L’insieme delle opere bianche - vero e proprio ‘omaggio al bianco’ - riesce ad evitare ogni monotonia. Ciò perché il ‘tuo’ bianco varia da opera a opera, sia nel tono, sia nella sapiente modulazione della materia. In quel candore, a volte, una sola piccola nota di colore (dissonante) conferisce ( o ristabilisce) un equilibrio che già si avvale di una severa architettura sottostante. Inserti di materiali vari (come frammenti di vecchi merletti, cuciture ‘a vista’, qualche combustione) fanno ormai parte del tuo personale linguaggio espressivo. Le altre composizioni verticali filiformi (con il ‘tuo’ segno di corde, tondini metallici, ecc.) hanno una levità che potrebbe farle oscillare nel vento (come in Calder). Una mostra, insomma, specchio del tuo recente lavoro, alla quale auguro visitatori attenti e sensibili, come merita il tuo appassionato operare. Enzo
Enzo Maiolino
Parrebbe che l’operare di Eleonora Siffredi, consista nel mettere in atto una mimesi dei processi creativi naturali. E’ come una tessitura, un ordito che nel tempo, e con il tempo, prende forma. E’ una pittura che ha la preziosità dalle scaglie, dei miceli, delle meduse… Anzi, non è più una pittura. Non è dentro una cornice. E’ uno spazio, una strada che attraversa il mondo, un diario.
Ci sono opere gigantesche, ampie campiture, pulsanti di sottili emozioni, di suoni impercettibili, di memorie. Forse sono stendardi, o forse vele, le grandi istallazioni oscillanti che l’artista prepara, confondendo apporti del caso ed estrema meticolosità artigianale. Forse sono sipari che si aprono su “realtà altre”. Forse sono pareti, diagrammi, geologiche stratificazioni.
Attraverso processi di assemblaggio, sedimentazione, composizione, scomposizione le micro e le macro strutture si rapprendono, appaiono, quasi si fossero formate da sole, come misteriosi vegetali, come galassie. Sono tessiture diafane e cangianti, tappeti erbosi pulsanti di vita. Ma non c’è palpitare di fronde, non c’è poesia della natura: vive, in queste narrazioni, il segreto di un’ardua operazione mentale.
Marco Innocenti
Eleonora Siffredi, nata a Sanremo nel 1944, vive attualmente a Sanremo.
Dopo la maturità artistica si è diplomata a Milano in Decorazione Pittorica presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha svolto attività di insegnamento presso i Licei Artistici di Milano, Treviso, Venezia.
Del suo lavoro hanno scritto: S. Bajini, G. Beringheli, F.Biamonti, F. Cervini, C. Claudiano, S. Delfino, A. Dragone, W. Gorni, M. Innocenti, E. Maiolino, G. Strazza, B. Tarozzi, M. Zanelli.
Mostre personali: Mantova 1994, galleria Giulio Romano; Ventimiglia 1995, Chiesa San Francesco; Bordighera 1997, Biblioteca Internazionale; Venezia 1998, Fondazione Querini Stampalia; Bassano del Grappa 1998, Chiesa dell’Angelo; San Remo 2001, Biblioteca Civica; Venezia 2003, Galleria Laurens, San Remo 2005, Chiesa San Germano, Bordighera 2008, Accademia Riviera dei fiori G. Balbo.
Chiara Salvini, ... cara Eleonora... auguri per la tua mostra ed un grande abbraccio..., Nel delirio non ero mai sola, 14 giugno 2015

domenica 13 dicembre 2020

Il violinista Eddy Brown con la moglie Beth Lydy a Bordighera per trovare il maestro Giuseppe Balbo

Da sinistra, la signora Beth Lydy, quarto, Eddy Brown, ultimo, il maestro Giuseppe Balbo: alla II^ Mostra di Pittura Americana a Bordighera (IM) nel 1953 - © Archivio Balbo

Ho conosciuto Eddy Brown e sua moglie Lyda che ero ancora un bambino, ma già grande da ricordarli, alla fine degli anni ’60, quando, in vacanza in Italia, venivano a trovare Giuseppe Balbo, zio prediletto di mio padre [in Bordighera (IM)]. La cucina di mia nonna si movimentava, gli amici americani dello zio Beppe erano un’occasione di festa. Poco americani, per l’idea che avevo dell’America. Lui era un signore anziano, col basco e gli occhiali, lei una bella signora, con un sorriso regale. Non sapevo proprio chi fossero, in tanti venivano a trovare Balbo, ma avvertivo attorno a loro l’ammirazione riservata ai grandi talenti. E poco americani erano veramente, naturalmente cosmopoliti. Eddy Brown, violinista, nato ad Indianapolis nel 1895 da padre austriaco e madre russa, è stato un bambino prodigio, a nove anni accolto al Reale Conservatorio di Budapest, e a quattordici, dopo il diploma, al Conservatorio di San Pietroburgo, la culla dei giganti della musica russa. Nel 1916 inizia un’intensa attività concertistica in giro per il mondo, finchè nel ’26 incontra e sposa Beth Lydy, cantante lirica ed attrice col nome d’arte di Lyda Betti. Figlia di un insegnante, incaricato dell’istruzione in una riserva Sioux, cresce “dolcemente selvaggia” insieme ai bambini dalla tribù degli Oglaga, dove viveva ancora il leggendario capo Nuvola Rossa, per poi studiare Bel Canto in Italia. La coppia inizia una fortunata collaborazione artistica e di produzione di spettacoli musicali, finchè nel 1930 vengono ingaggiati dal gruppo radiofonico WOR, per avvicinare gli americani alla musica classica. I loro programmi suscitano tanto interesse nel pubblico da spingerli a creare una stazione radio dedicata, la WQXR di New York, che esiste ancora oggi. Dopo la guerra il rinato interesse del pubblico per la Lirica fa nascere in loro l’idea di fondare una scuola in Italia. Conoscono Bordighera negli anni della sua fioritura artistica, in occasione della Prima Mostra di pittori Americani, nel 1952, si mescolano alla folla nella premiazione delle Cinque Bettole, e ha inizio l’amicizia con Giuseppe Balbo, che coinvolgono nella loro avventura come direttore del teatro sperimentale.
 

Franco Alfano e Giuseppe Balbo - © Archivio Balbo

L’Accademia di Bel Canto trova la partecipazione di Mario Colombo, direttore dell’associazione lirica concertistica italiana e del Maestro Franco Alfano, compositore a cui si deve, alla morte di Puccini, il completamento della Turandot, nominato direttore generale dei corsi. Lo scopo dell’Accademia è offrire agli allievi una preparazione che permetta di affermarsi nel competitivo mondo dello spettacolo, con una “serietà da Conservatorio”, ma con un approccio più moderno, con corsi trimestrali intensivi volti a rafforzare anche le doti drammatiche. La severa Villa Agnese, una bella casa in pietra, in passato dimora della Regina Madre d’Inghilterra, diventa un Campus, ospitando uno stuolo di giovani allieve americane che portano un’estera ventata di giovinezza sognante ma determinata. I grandi, eleganti saloni della villa sono gli spazi ideali per concerti, scene d’opera e lezioni d’assieme, affidate ad insegnanti prestigiosi, di grande fama, un cast scelto accuratamente che ottiene una vasta risonanza sulla stampa internazionale.
All’inizio dei corsi, il 15 giugno ’53, Franco Alfano rivolge questo messaggio di benvenuto ai suoi allievi: “alle giovani forze canore che stanno per iniziare la sì bella ma dura carriera del Teatro, il primo, forse l’unico consiglio è l’aver fede sempre in quell’ideale d’Arte che qualunque materiale interesse non dovrebbe MAI offuscare. Fede e coraggio insieme, perchè invidie, disinganni, colpi mancini, sono continuamente in agguato , per avversare il loro cammino ascensionale verso quella meta agognata e quasi mai raggiunta che è la perfezione, faro che non bisognerebbe mai perdere di vista, anche se lontano. E poi: studiare sempre, insino alla più tarda età, ed essere disciplinati e rispettosi, ed infine mantenere la parola data – anche e sopratutto se non consacrata in un contratto! E se d’ordinario i consigli altrui sono raramente messi in pratica – valgano almeno queste mie parole a ricordare loro questo bel momento della loro vita, che più tardi sarà certo rievocato con commozione, e … non senza un intimo rimpianto.”
 

Prova d'assieme - © Archivio Balbo

Alla fine dei corsi gli allievi affronteranno una commissione d’esame che deciderà del loro debutto.
Dopo un trimestre di preparazione e di organizzazione il debutto si concretizza in una serata di gala il 15 agosto, nel nuovo Teatro all’aperto, dove viene rappresentata la Cavalleria Rusticana, con l’orchestra dell’Opera di Monte Carlo diretta dal Maestro Aldo Bonifanti, la regia del M° Marchiori della Scala e le scenografie realizzate dagli artisti di Bordighera. Notizie sull’Accademia appaiono sui principali periodici specializzati, destando l’interesse degli ambienti musicali americani ed europei, che riconoscono l’importanza di una scuola che rinnovi l’insegnamento della musica allineandolo alle esigenze attuali dello spettacolo, nel rispetto dei canoni classici ma con un’attenzione maggiore alle esigenze del pubblico, ponendo la musica classica alla portata di tutti. É intenzione di Brown allargare l’insegnamento ai corsi di Violino, Piano, Composizione, Balletto, Pittura e Scultura, far erigere l’Accademia a Ente Morale senza fine di lucro, lasciandola in dotazione alla Riviera dei Fiori come collegamento preferenziale tra lo show business statunitense e le tradizioni italiane, ma trova difficoltà burocratiche e poco interesse nelle autorità locali.
La morte improvvisa di Alfano, nel ’54, rende impossibile continuare i corsi con la dovuta attenzione del mondo accademico italiano, e pone termine all’esperimento.
Eddy e Lyda Brown, pur cercando negli anni di riallacciare i rapporti con Bordighera, nel ’56 vengono invitati ad occupare la cattedra di Direttori Artistici del College Conservatory of Cincinnati, e portano avanti quanto hanno iniziato con l’Accademia realizzando, a Cincinnati, un concorso per cantanti lirici, l’American Opera Auditions. 

Alcuni degli allievi formatisi a Bordighera iniziano una fortunata carriera lirica. Ricordiamo le soprano Marcelle Bolman, Norma Conklin ed il baritono Richard Gordon, ritratto da Sergio Gagliolo in una posa leggendaria (all’altra Accademia, nel vecchio Palazzo del Parco) durante la quale con un acuto rompe un vaso di cristallo. 

Eddy Brown, Giuseppe Balbo e Beth Lydy - © Archivio Balbo

Anche se breve, l’esperimento di Brown lascia un ricordo intenso in molti dei giovani di allora, artisti in formazione che si sono confrontati con mondi così lontani e così simili, ma anche persone amanti della cultura e dell’arte, e perchè no, anche solo turisti curiosi che si ritrovavano in un ambiente cosmopolita, frizzante, mondano, ricco di stimoli. Per pochi anni la piccola cittadina di Bordighera è stata un polo culturale internazionale, ha visto crescere intellettuali ed artisti di rilievo, è stata al centro dell’attenzione. 

Giuseppe Balbo, La cantante, 1950 - © Archivio Balbo

Qualcosa di quegli anni è rimasto. Nel piccolo vediamo nascere iniziative quasi spontanee, erbe selvatiche in un orticello stento, unite dall’amore della bellezza, della cultura. Forse la vera lezione dell’accademia dovrebbe essere rimbocchiamoci le maniche e seguiamo i nostri sogni.
 

Marco Balbo © Archivio Balbo Archivio Balbo

 

sabato 12 dicembre 2020

Mary Gennaro Varale a Bordighera

Foto: Giancarlo Traverso

Mary Gennaro o meglio Mary Varale è oggi un nome sconosciuto a tanti ed il tempo, si sa, nel suo cammino, piano piano cancella il ricordo. Il nove dicembre sono 57 anni che Mary ci ha lasciato. Con suo marito Vittorio, formavano una coppia conosciuta in tutta Italia. 

Abitavano in una villetta all'inizio di via Gerolamo Rossi, al n°8. Ora la casa non è più la stessa a seguito di ristrutturazioni avvenute nel tempo. I coniugi Varale, una coppia conosciuta in tutta Italia, venivano saltuariamente a  Bordighera (seconda casa) fino all'ottobre del '58 provenienti da Milano. Lui, Vittorio Varale era noto giornalista sportivo che si occupava in prevalenza di ciclismo ed in seguito di alpinismo. Lei, invece, Maria Gennaro Varale conosciuta come Mary Varale, "La signora di Milano" é stata la più grande alpinista-donna di tutti i tempi, nata per la montagna, iscritta al CAI di Belluno nel 1924, quando aveva 29 anni e poi in dieci anni di questa passione, ha scalato in solitaria od in cordata 217 cime. Il marito, Vittorio nel 1933 la descrive così, "una donna col viso segnato dal sole e dal vento, con la sua inseparabile giacchetta rossa, i capelli raccolti in un fazzoletto colorato ed i pantaloni  sdrucidi dallo sfregamento del tessuto sulla roccia".  

Divertente, quel ricordo che lei amava spesso raccontare: "Quando nel 1925, giunsi sulla vetta della torre Winkler insieme alla mia guida Tita Piaz, dopo un momento di respiro, chiesi come saremmo scesi e lui senza rispondermi mi passa una corda, fissata ad un anello nella roccia, sotto la mia gamba e mi ordina 'Si butti giù!', ed io, che come donna avrei avuto il permesso di avere paura, mi avvicinai al bordo della vetta e con le spalle rivolte nel vuoto, mi lasciai andare in un precipizio di 300 metri". 

Nel 1935, a causa di una premiazione mancata per il suo gruppo di cordata, abbandona le arrampicate. Famosa è la sua lettera di protesta, spedita al CAI di Belluno dove accusa il CONI e scrive ".....sono profondamente disgustata della persecuzione contro di me da quei buffoni della sede centrale....In questa compagnia di ipocriti e di buffoni io non posso più stare, mi dispiace forse perdere la compagnia dei cari amici di Belluno, ma non farò più niente in montagna che possa rendere onore al Club Alpino dal quale mi allontano disgustata....". 

La sua passione per la montagna non era fatta solo di scalate, strapiombi, ma anche di lunghe passeggiate nei boschi, nei prati, alla ricerca di funghi e frutti di bosco, condividendo la vita dei montanari, nel governare il bestiame, raccogliere il fieno,sistemare le stalle. Pochi mesi dopo, un'artrite precoce le fa desistere da ogni suo ripensamento, che lentamente le renderà dura la vita in futuro. Un anticonformista per il periodo in cui ha vissuto, quando l'ideale di donna era una moglie fedele e madre prolifica.  

Quando non era in montagna, era un'elegante signora di Milano, con la gonna appena sotto il ginocchio, capelli corti, usava indossare anche i pantaloni, fumava per strada e fischiava per richiamare il suo cane. Ha scritto per la rivista "Vita femminile", evidenziando il suo carattere forte e spronando le donne ad uscire dal luogo comune del sesso debole. 

Durante la guerra abitano periodicamente a Bordighera, dove Mary s'innamora del mare, che non è da mettere sullo stesso piano dell'amore che prova per la montagna, ma almeno in parte, osservando il movimento delle onde, riesce a ritrovare la calma e tranquillità che solo le vette rocciose riuscivano a trasmettere. 

Verso la fine del 1958, un ictus cerebrale, a causa del troppo fumo, la costringe su di una carrozzella, senza la parola, a dipendere per tutto da tutti. I coniugi si trasferiscono a Bordighera in pianta stabile. Vittorio abbandona la sua professione e dedica tutto il suo tempo a sua moglie. Mary muore a Genova, dopo l'ultimo ricovero ospedaliero, il 9 dicembre del 1963. 

Nel 2002 il CAI di Bordighera, sotto la presidenza di Siro Torelli, organizza una mostra, con foto, filmati e cimeli su Mary Varale, grazie al grande aiuto del CAI di Belluno e della Biblioteca Civica della stessa città, nella persona del suo direttore Giovanni Grazioli. Nel  2010 esce un film di 32 minuti dedicato a lei, "Con le spalle nel vuoto", dove si vede, l'attrice che la interpreta, sulla carrozzella con accanto il marito nei pressi della chiesetta di Sant'Ampelio dove Mary amava andare e verso la fine delle riprese, nella sua casa in via Gerolamo Rossi. Sepolta a Bordighera, nel campo A, nell'ultimo colombario, singolare è la dedica sulla sua lapide "Vittorio ti aspetto" e la risposta del marito, morto dieci anni dopo, ora accanto a lei "Eccomi, diletta Mary, vicino a te, per sempre."

Giancarlo Traverso

 

Mare sempre mare, mostra di fotografie di Carla Bongioanni

Carla Bongioanni,  2019. Fonte: Unione Culturale Democratica.

Apre Martedì 15 Dicembre 2020 alle ore 16,30, nella sede dell’Unione Culturale Democratica e della Sezione ANPI di Bordighera (IM), in Via al Mercato, 8, la Mostra di fotografie di Carla Bongioanni Mare sempre mare.

L’esposizione rimarrà aperta al pubblico tutti i giorni, dalle ore 16,00 alle ore 18,00, fino a Domenica 27 Dicembre 2020.

L'ingresso sarà consentito con le stesse norme che regolano l'accesso alle librerie, con mascherina e massimo due visitatori per volta.

Mare sempre mare
Ho conosciuto Carla all'uscita di un bar. Era triste, desiderava di essere ascoltata, io ero lì che vagavo senza tempo. In modo diverso entrambe avevamo bisogno di aiuto. Così è nata la nostra amicizia.
Giancarlo, il mio compagno, osservatore attento, ne comprese la sensibilità, come più tardi anche il "maestro" Maiolino. Carla aveva bisogno di realizzarsi, doveva trovare il mezzo più idoneo al suo temperamento. Perché non la fotografia? Perché non il mare, sempre presente e da lei tanto amato? Sono passati ormai tredici anni da quel giorno, con alti e bassi nel suo vivere, abbandoni e riprese nel suo operare. Ne è nata una ricerca intensa e appassionata. Un mattino si era spinta oltre il possibile, chissà! Era arrivata bagnata e felice. Stato di grazia! Le sue fotografie sono le voci del mare. Il silenzio di una grigia lavagna dove lo sguardo si abbandona. Lo sciabordio dell'acqua sulla battigia, dove si formano e si riformano preziosi merletti, come eseguiti da esperte mani femminili. È nella quiete e nelle trasparenze dei fondali che si scoprono forme e suggestioni misteriose. Ma è dalla voce potente quando si fa minaccioso che Carla subisce maggiormente il fascino del mare, desiderosa di "immergersi" per esserne un tutt'uno.
Con le fotografie esposte in questa mostra Carla Bongioanni vuole presentare il frutto della sua ricerca personale e non la perfezione tecnica su cui non ha puntato, pur comprendendone l'importanza.
Eleonora Siffredi  

Carla Bongioanni è nata nel 1970 a Gravedona (Como). Vive e lavora a Bussana di Sanremo.  

Giorgio Loreti

Unione Culturale Democratica -  Sezione ANPI - Bordighera (IM), Via al Mercato, 8 [ Tel. +39 348 706 7688 - Email: nemo_nemo@hotmail.com ]

giovedì 10 dicembre 2020

Passeurs

Uno scorcio della frontiera di Ponte San Luigi tra Mentone e Ventimiglia (IM)

“Guardò fuori, c’era una fetta di luna, ma anche nuvolaglia grigiastra in cielo, che forse avrebbe rlcoperto quel noioso pezzo di luna. Indicò agli  uomini quattro sentieri diversi, che facendo giri si ritrovavano tutti ai piedi del colle più alto, che avrebbero dovuto salire.” (Guido Seborga “Una notte al confine”, Corriere Mercantile, 12 agosto 1959) 
 

…..“sono le una - disse - direi che si potrebbe partire”……Uscirono nella notte in tre ore andando forte si poteva giungere al passo,….vide in fondo valle Grimaldi, il ponte Saint Louis;…sentì di fronte a sè l’alto pezzo nero della montagna ,.. ”( Guido Seborga, “Contrabbandiere”, Corriere della Liguria, 22 settembre 1956)

 

“Tutti dicono che Stella è anche una buona ”guida” per i passaggi di frontiera senza i documenti regolari, via monte perché è più sicura della via mare dove un guardacoste può più facilmente mettere in difficoltà e individuare i clandestini. I liguri chiamano feni­cotteri” quei meridionali che in gruppo, senza docu­menti e carte di lavoro, cercano di espatriare…” (G. Seborga, “I Barboni del mare”, Corriere Mercantile, 17 novembre 1960)

 

Giovanni non è soltanto abile in mare, ma anche sulle colline e in montagna nessuno gli sta dietro; e co­nosce i passaggi e i colli meglio di ogni altro. Pro­prio per queste qualità….” (Guido Seborga, ” Storia di uomini del paese vecchio”, 8 aprile 1959)

 

“…ma i fenicotteri non hanno tempo per pensare a queste cose, devono emigrare …e la guida o le guide..conoscono tutti i luoghi meglio di chiunque, …I valichi sono di preferenza superati di notte, in quelle notti senza luna, favorevoli ai passaggi clandestini, è così ampio il retroterra, neppure un’intera armata potrebbe controllarlo tutto,… (Guido Seborga, “Il passaporto delle ginestre”, Corriere Mercantile,11 novembre 1959)

 

Seborga in questi racconti narra episodi e situazioni legati alla  fine degli anni 50 durante l’immigrazione dei calabresi in Liguria e i loro tentativi di passare in Francia. La loro condizione era quella di disperati che non conoscono il territorio e non sanno come muoversi.

Il ciclo della storia sembra ripetersi con  uomini,  situazioni e tempi diversi : gli oppositori al regime negli anni del fascismo, i nostri meridionali che cercano lavoro in Francia, gli espatriati algerini e tunisini, rappresentano realtà sociali e culturali differenti ma i passaggi e gli attraversamenti sono quelli noti agli esperti della montagna da secoli.

Seborga e Biamonti raccontano di uomini che accompagnano i fuggiaschi oltre confine con abilità e conoscenza del territorio. Sono i passeurs, coloro che guidano gli emigranti clandestini oltre frontiera (secondo la definizione del dizionario francese-italiano). Oggi questa stirpe è ormai quasi scomparsa, ma i migranti da soli o con altre guide forse più improvvisate e con meno scrupoli e esperienza tentano il passaggio illegale spinti dalla loro situazione angosciosa.

 

“Prese una mulattiera che saliva in una gola buia e raggiunse un dosso di pietrischi. Lo aggirò e riprese a salire per le fasce di Aùrno.

<Ne abbiamo fatto del cammino insieme, - pensava salendo, - ne abbiamo conosciuti nomadi e viandanti. Eravamo due passeurs onesti, lui di mestiere io a tempo perso. Non abbiamo mai lasciato nessuno di qua del confine >. “ (Francesco Biamonti, Vento Largo, Einaudi 1991)

 

Laura Hess, 22 aprile 2011