Molte sono le piante abituate a vivere sui vecchi muri della città vecchia [di Sanremo (IM)] o di Santa Tecla e fra queste si impone il Giusquiamo.
Parente stretto della Mandragora, della Belladonna e dello Stramonio, ne condivide, oltre alla comune appartenenza alla famiglia delle Solanacee, anche lo sgradevole fetore, simile a quello del tabacco, unito alle mortali prerogative di vegetale fortemente tossico per la presenza di alcaloidi dei gruppo delle tropine.
Lo conoscevano già perfettamente Babilonesi, Indiani, Persiani, Arabi ed Egiziani; questi ultimi lo descrissero a fondo nel famoso papiro scoperto e decifrato da Georg Ebers e ne raffigurarono le tecniche di somministrazione ai sofferenti di mal di denti o di cefalea, dipingendoli a testa china mentre inalavano i suffumigi di semi di Giusquiamo.
I Greci ed i Romani lo dedicarono a Giove continuando a praticarne le applicazioni terapeutiche, soprattutto come specifico contro la follia, persino come analgesico durante le operazioni chirurgiche.
Infatti, uno dei primi anestetici della Storia medica chiamato spongia somnifera, si preparava imbevendo uno straccio con Oppio, succo di Mandragora e di Giusquiamo.
Dopo ogni intervento si faceva asciugare, per tenerla pronta all’uso ed in caso di necessità, si idratava nuovamente, ponendola quindi sulle narici del paziente; per controllare se il soggetto fosse sopravvissuto, si sostituiva con la classica spugna imbevuta d’aceto caldo.
Il Giusquiamo, in dosi minime, è stato a lungo somministrato consapevolmente per combattere l’insonnia, calmare i dolori nevralgici, l’asma, le convulsioni e i tremiti, etichettandolo anche “Erba del mal di denti”, quando veniva preparato in decotto per inserirlo a gocce nelle cavità dentali doloranti.
Infine, per molte popolazioni mediterranee è stato il rimedio collaudato per combattere l’infestazione da pidocchi o altri noiosi parassiti.
Nonostante le difficoltà di dosaggio, l’olio ricavato dai semi continuò ad essere preparato sino ad epoche molto recenti per arrestare lo sviluppo dei tumori, per attenuare il dolore agli arti, alla testa, alle orecchie e per guarire la podagra.
Questi “fantastici” risultati si ottenevano, a detta dei medici di allora, spalmando l’unguento direttamente sulle parti doloranti, mentre in relazione agli usi interni delle foglie si mostrava molta maggiore prudenza perché: “le galline e gli uccelli che lo mangiano in breve tempo muoiono e l’unico rimedio a questo veleno è il latte caprino, l’acqua melata, Finocchio, seme d’Urtica, Cipolla, Senape e Rafano presi col vino”.
Parente stretto della Mandragora, della Belladonna e dello Stramonio, ne condivide, oltre alla comune appartenenza alla famiglia delle Solanacee, anche lo sgradevole fetore, simile a quello del tabacco, unito alle mortali prerogative di vegetale fortemente tossico per la presenza di alcaloidi dei gruppo delle tropine.
Lo conoscevano già perfettamente Babilonesi, Indiani, Persiani, Arabi ed Egiziani; questi ultimi lo descrissero a fondo nel famoso papiro scoperto e decifrato da Georg Ebers e ne raffigurarono le tecniche di somministrazione ai sofferenti di mal di denti o di cefalea, dipingendoli a testa china mentre inalavano i suffumigi di semi di Giusquiamo.
I Greci ed i Romani lo dedicarono a Giove continuando a praticarne le applicazioni terapeutiche, soprattutto come specifico contro la follia, persino come analgesico durante le operazioni chirurgiche.
Infatti, uno dei primi anestetici della Storia medica chiamato spongia somnifera, si preparava imbevendo uno straccio con Oppio, succo di Mandragora e di Giusquiamo.
Dopo ogni intervento si faceva asciugare, per tenerla pronta all’uso ed in caso di necessità, si idratava nuovamente, ponendola quindi sulle narici del paziente; per controllare se il soggetto fosse sopravvissuto, si sostituiva con la classica spugna imbevuta d’aceto caldo.
Il Giusquiamo, in dosi minime, è stato a lungo somministrato consapevolmente per combattere l’insonnia, calmare i dolori nevralgici, l’asma, le convulsioni e i tremiti, etichettandolo anche “Erba del mal di denti”, quando veniva preparato in decotto per inserirlo a gocce nelle cavità dentali doloranti.
Infine, per molte popolazioni mediterranee è stato il rimedio collaudato per combattere l’infestazione da pidocchi o altri noiosi parassiti.
Nonostante le difficoltà di dosaggio, l’olio ricavato dai semi continuò ad essere preparato sino ad epoche molto recenti per arrestare lo sviluppo dei tumori, per attenuare il dolore agli arti, alla testa, alle orecchie e per guarire la podagra.
Questi “fantastici” risultati si ottenevano, a detta dei medici di allora, spalmando l’unguento direttamente sulle parti doloranti, mentre in relazione agli usi interni delle foglie si mostrava molta maggiore prudenza perché: “le galline e gli uccelli che lo mangiano in breve tempo muoiono e l’unico rimedio a questo veleno è il latte caprino, l’acqua melata, Finocchio, seme d’Urtica, Cipolla, Senape e Rafano presi col vino”.
Hyosciamus albus |
Si arrivò addirittura a pensare che il Giusquiamo fosse una delle erbe adoperate dalle streghe per procurarsi gli stordimenti e le allucinazioni necessarie a raggiungere il massimo della forma nei loro misteriosi e satanici riti collettivi.
Forse si trattava di una fuga mentale dalla realtà, una sorta di estasi simile a quello che nelle cronache giornalistiche della nostra epoca si compiono con il nutrito armamentario di droghe leggere e pesanti.
Nel suo Libro dei veleni l’autore Gustav Shenk documenta quanto gli accadde dopo aver aspirato le fumigazioni di semi di Giusquiamo: “Mi si strinsero i denti, e fui preso da un cieco furore. Tremavo, ero terrorizzato, ma a tratti pervaso da senso di benessere; i miei piedi si alleggerivano, si espandevano separandosi dal corpo come le altre parti ognuna per suo conto. La testa era diventata enorme e temevo mi cadesse addosso. Improvvisamente provai la sensazione di librarmi. Nello stesso istante provai una piacevolissima sensazione di volare, ma contemporaneamente avevo paura di morire perché il mio corpo si era sfaldato”.
Nelle epoche successive affiorarono più oscuri e cervellotici utilizzi messi in opera da moltitudini di cultori di negromanzia. Per compiere sortilegi e fatture contro qualche nemico circolavano diverse e complicate ricette: si maceravano in un recipiente di coccio Giusquiamo, Alloro e Giglio mescolati a latte di pecora, mettendo la mistura nella pelle di un agnello.
L’immancabile risultato doveva essere quello di privare del latte tutti gli ovini dei dintorni.
Se si voleva indirizzare la maledizione verso le mandrie di altre specie di animali bastava cambiare tipo di latte e mettere l’intruglio nella pelle della bestia corrispondente.
Per indurre febbri o altri malanni nei nemici la procedura era più complessa ed articolata perché in estate, durante la luna calante, si dovevano pestare foglie di Giusquiamo ed Alloro per sotterrarle dentro una concimaia: dopo poco meno di un mese, sempre in regime di luna ridotta, si estraevano dal letame i lombrichi nati nel frattempo che andavano essiccati, polverizzati e fatti mangiare con un sotterfugio alla vittima designata.
Nei periodi siccitosi, uno dei riti praticati per far ritornare la pioggia era quello di trovare una vergine disposta a farsi cospargere di un decotto a base di Giusquiamo ed immergersi per alcune ore nel laghetto più vicino.
Per la letteratura dotta, una delle illustri vittime del Giusquiamo fu il padre di Amleto avvelenato, secondo Shakespeare, dal succo versatogli nell’orecchio.
Secondo Mattioli gli unici animali a mangiare il Giusquiamo, rimanendo indenni, erano i maiali: “Mangiando li porci selvatici (secondo che scrive Heliano) stupefannosi tutti. Ma corrono per istinto naturale subito all’acqua e mangiano quivi dei granchi e così si liberano”.
Infatti la loro denominazione derivata direttamente dall’antico nome greco, hyos-kiamos, (Fava di porco) è strettamente collegata al maiale, come il nostro battesimo volgare di “Erba porcina”.
I Romani, lo chiamavano anche, secondo Scribonio, altercum perché faceva perdere il bene dell’intelletto e provocava accessi di furia incontrollabile.
Nel suo ambiente naturale il Giusquiamo si presenta con un aspetto invitante e decorativo già al momento della fioritura, quando per alcuni mesi continua a ricoprire i suoi steli di fiori giallo chiari o venati di porpora a seconda della specie.
Anche nel secco mantiene la sua originale eleganza dovuta ai lunghi rami bianchi abbelliti dai calici persistenti, nei quali sono racchiuse le capsule dei semi, una strana struttura vegetale adatta alla realizzazione di composizioni ikebana.
Fra le insolite particolarità biologiche del Giusquiamo si nota la sua notevole diffusione dovuta certamente alla enorme quantità di semi prodotti da una singola pianta (sino a 10.000).
Forse si trattava di una fuga mentale dalla realtà, una sorta di estasi simile a quello che nelle cronache giornalistiche della nostra epoca si compiono con il nutrito armamentario di droghe leggere e pesanti.
Nel suo Libro dei veleni l’autore Gustav Shenk documenta quanto gli accadde dopo aver aspirato le fumigazioni di semi di Giusquiamo: “Mi si strinsero i denti, e fui preso da un cieco furore. Tremavo, ero terrorizzato, ma a tratti pervaso da senso di benessere; i miei piedi si alleggerivano, si espandevano separandosi dal corpo come le altre parti ognuna per suo conto. La testa era diventata enorme e temevo mi cadesse addosso. Improvvisamente provai la sensazione di librarmi. Nello stesso istante provai una piacevolissima sensazione di volare, ma contemporaneamente avevo paura di morire perché il mio corpo si era sfaldato”.
Nelle epoche successive affiorarono più oscuri e cervellotici utilizzi messi in opera da moltitudini di cultori di negromanzia. Per compiere sortilegi e fatture contro qualche nemico circolavano diverse e complicate ricette: si maceravano in un recipiente di coccio Giusquiamo, Alloro e Giglio mescolati a latte di pecora, mettendo la mistura nella pelle di un agnello.
L’immancabile risultato doveva essere quello di privare del latte tutti gli ovini dei dintorni.
Se si voleva indirizzare la maledizione verso le mandrie di altre specie di animali bastava cambiare tipo di latte e mettere l’intruglio nella pelle della bestia corrispondente.
Per indurre febbri o altri malanni nei nemici la procedura era più complessa ed articolata perché in estate, durante la luna calante, si dovevano pestare foglie di Giusquiamo ed Alloro per sotterrarle dentro una concimaia: dopo poco meno di un mese, sempre in regime di luna ridotta, si estraevano dal letame i lombrichi nati nel frattempo che andavano essiccati, polverizzati e fatti mangiare con un sotterfugio alla vittima designata.
Nei periodi siccitosi, uno dei riti praticati per far ritornare la pioggia era quello di trovare una vergine disposta a farsi cospargere di un decotto a base di Giusquiamo ed immergersi per alcune ore nel laghetto più vicino.
Per la letteratura dotta, una delle illustri vittime del Giusquiamo fu il padre di Amleto avvelenato, secondo Shakespeare, dal succo versatogli nell’orecchio.
Secondo Mattioli gli unici animali a mangiare il Giusquiamo, rimanendo indenni, erano i maiali: “Mangiando li porci selvatici (secondo che scrive Heliano) stupefannosi tutti. Ma corrono per istinto naturale subito all’acqua e mangiano quivi dei granchi e così si liberano”.
Infatti la loro denominazione derivata direttamente dall’antico nome greco, hyos-kiamos, (Fava di porco) è strettamente collegata al maiale, come il nostro battesimo volgare di “Erba porcina”.
I Romani, lo chiamavano anche, secondo Scribonio, altercum perché faceva perdere il bene dell’intelletto e provocava accessi di furia incontrollabile.
Nel suo ambiente naturale il Giusquiamo si presenta con un aspetto invitante e decorativo già al momento della fioritura, quando per alcuni mesi continua a ricoprire i suoi steli di fiori giallo chiari o venati di porpora a seconda della specie.
Anche nel secco mantiene la sua originale eleganza dovuta ai lunghi rami bianchi abbelliti dai calici persistenti, nei quali sono racchiuse le capsule dei semi, una strana struttura vegetale adatta alla realizzazione di composizioni ikebana.
Fra le insolite particolarità biologiche del Giusquiamo si nota la sua notevole diffusione dovuta certamente alla enorme quantità di semi prodotti da una singola pianta (sino a 10.000).
L’Hyosciamus niger incuriosisce inoltre perché appare improvvisamente in una determinata zona ed in breve vi si diffonde, salvo scomparire altrettanto rapidamente dopo alcuni anni senza un apparente motivo.
Lo aveva constatato direttamente Vincenzo Nam, autore della Flora di Alassio quando scrisse: “Non è pianta di questo territorio bensì della regione montana; solo dopo molti anni trovai anche in Alassio un esemplare a fianco della carrozzabile prima di giungere a Porto Salvo il 6 maggio 1923, e suppongo che ne abbiano portato i semi le pecore che ogni anno vengono a svernare da noi”.
Resta da segnalare, infine, un uso colpevolmente disonesto messo in pratica da molti birrai artigianali nei secoli scorsi, i quali erano soliti mescolare alla birra prodotta per la vendita, grandi quantità di semi di Giusquiamo allo scopo di aumentarne il potere inebriante.
Nelle foglie, nei semi e nella radice dei nostri Hyosciamus sono contenuti due alcaloidi, la josciamina e la scopolamina; quest’ultima si trasforma parzialmente in atropina con l’essiccamento o con il riscaldamento.
Le altre sostanze presenti in tutte le parti della pianta sono amido, gomma, mucillagine, zucchero, sali di potassio, calcio e magnesio oltre ad un olio grasso ed un glucoside amaro chiamato joscipicrina.
Questo notevole magazzino farmaceutico viene tuttora sfruttato dall’industria per l’estrazione dei diversi princìpi adoperati in molti prodotti medicinali.
Il Giusquiamo è attualmente giudicato dagli specialisti come un valido sostituto della Belladonna con in più il vantaggio di provocare allucinazioni meno dannose, ma di indurre un sonno molto profondo.
Si indica come specifico nelle tossi spasmodiche, nella tosse asinina, nelle manifestazioni isteriche, epilettiche, nelle convulsioni, nella corea e nelle nevralgie soprattutto dei trigemino.
Come abbiamo detto, il Giusquiamo presenta caratteristiche ornamentali di buon livello, soprattutto se si assecondano le sue caratteristiche di specie ruderale e lo si inserisce nelle fessure dei vecchi muri.
La produzione di semi è talmente ampia che se ne possono prelevare quanti se ne vuole nelle parti in pietra esposti al sole degli edifici più antichi.
La lunga e grande produzione di fiori gialli origina sottili ed eleganti spighe che nel secco assumono un rilevante carattere decorativo per composizioni floreali.
Lo aveva constatato direttamente Vincenzo Nam, autore della Flora di Alassio quando scrisse: “Non è pianta di questo territorio bensì della regione montana; solo dopo molti anni trovai anche in Alassio un esemplare a fianco della carrozzabile prima di giungere a Porto Salvo il 6 maggio 1923, e suppongo che ne abbiano portato i semi le pecore che ogni anno vengono a svernare da noi”.
Resta da segnalare, infine, un uso colpevolmente disonesto messo in pratica da molti birrai artigianali nei secoli scorsi, i quali erano soliti mescolare alla birra prodotta per la vendita, grandi quantità di semi di Giusquiamo allo scopo di aumentarne il potere inebriante.
Nelle foglie, nei semi e nella radice dei nostri Hyosciamus sono contenuti due alcaloidi, la josciamina e la scopolamina; quest’ultima si trasforma parzialmente in atropina con l’essiccamento o con il riscaldamento.
Le altre sostanze presenti in tutte le parti della pianta sono amido, gomma, mucillagine, zucchero, sali di potassio, calcio e magnesio oltre ad un olio grasso ed un glucoside amaro chiamato joscipicrina.
Questo notevole magazzino farmaceutico viene tuttora sfruttato dall’industria per l’estrazione dei diversi princìpi adoperati in molti prodotti medicinali.
Il Giusquiamo è attualmente giudicato dagli specialisti come un valido sostituto della Belladonna con in più il vantaggio di provocare allucinazioni meno dannose, ma di indurre un sonno molto profondo.
Si indica come specifico nelle tossi spasmodiche, nella tosse asinina, nelle manifestazioni isteriche, epilettiche, nelle convulsioni, nella corea e nelle nevralgie soprattutto dei trigemino.
Come abbiamo detto, il Giusquiamo presenta caratteristiche ornamentali di buon livello, soprattutto se si assecondano le sue caratteristiche di specie ruderale e lo si inserisce nelle fessure dei vecchi muri.
La produzione di semi è talmente ampia che se ne possono prelevare quanti se ne vuole nelle parti in pietra esposti al sole degli edifici più antichi.
La lunga e grande produzione di fiori gialli origina sottili ed eleganti spighe che nel secco assumono un rilevante carattere decorativo per composizioni floreali.
Alfredo Moreschi in IL REGESTO (Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo), Sanremo (IM), anno II, n° 4 (8), ottobre-dicembre 2011