giovedì 30 giugno 2022

Dolceacqua (IM), Castello, domenica 10 luglio 2022, ore 21: presentazione del libro "Partigiani del mare" di Sergio Favretto


È da poco uscito per i tipi di Edizioni SEB 27 di Torino “I partigiani del mare. Antifascismo e Resistenza sul confine ligure-francese”, il nuovo libro dello storico monferrino Sergio Favretto.
Il libro sarà presentato domenica 10 luglio al Castello di Dolceacqua. Sarà presente l'autore.
[...] Sergio Favretto, avvocato e già giudice onorario al Tribunale di Torino, è autore di testi di diritto amministrativo e penale, con particolare attenzione al rapporto fra arte e diritto. A fianco della sua professione ha da sempre coltivato la ricerca sulla Storia contemporanea e la Resistenza italiana, in quest’ambito ha pubblicato: Casale Partigiana (1977), Giuseppe Brusasca: radicale antifascismo e servizio alle istituzioni (2006), Resistenza e nuova coscienza civile (2009), La Resistenza nel Valenzano. L’eccidio della Banda Lenti (2012), Fenoglio verso il 25 aprile (2015). In questa stessa collana ha pubblicato i volumi Una trama sottile. Fiat: fabbrica, missioni alleate e Resistenza (2017) e Con la Resistenza. Intelligence e missioni alleate sulla costa ligure (2019). E’ relatore in convegni di storia resistenziale. Collabora con la rivista Quaderno di storia contemporanea edito dall’ISRAL di Alessandria e con il periodico indipendente on line L’incontro di Torino.
Redazione, “I partigiani del mare. Antifascismo e Resistenza sul confine ligure-francese”. Il nuovo libro dello storico Sergio Favretto: domenica 10 luglio, al Castello di Dolceacqua, la prima presentazione, CasaleNews, 27 giugno 2022

A San Biagio della Cima, si organizza la nuova edizione degli 'Itinerari di Letteratura', a cura dell’associazione “Amici di Francesco Biamonti”, in collaborazione con i comuni di San Biagio della Cima e Dolceacqua,  una serie di incontri culturali raffinati e importanti.
[...] Si continua domenica 10 luglio, al Castello di Dolceacqua, alle 21, per la presentazione di "Partigiani del mare" (SEB27 Edizioni), del casalese Sergio Favretto. Introdurrà lo storico Paolo Veziano.
Redazione, Sergio Favretto a Dolceacqua, il Monferrato.it, 23 giugno 2022

Partigiani del mare. Antifascismo e Resistenza sul confine ligure-francese, Sergio Favretto, SEB 27 Edizioni, Torino, 2022
[...] L'antifascismo vissuto e la Resistenza combattuta sulla costa ligure verso il confine francese ebbero sempre un protagonista sotteso: il mare. I flutti battenti sulle rive e le spiagge minate, il vento che accarezzava le onde o le rendeva impetuose, la luce della luna piena o l'assenza di luna, hanno determinato lo scandire delle varie operazioni contro i tedeschi e fascisti. Il mare non solo come elemento geografico e fisico irrinunciabile, ma pure come fattore tattico prezioso; luogo-valore identitario in cui ritrovarsi tutti, partigiani e militanti, popolazione civile ed ex militari, agenti delle missioni alleate, ebrei, clero, studenti, operai, agricoltori e pescatori. Nel tratto di costa fra Imperia e il confine italo-francese di Ventimiglia-Mentone, la Resistenza fu coraggiosa, coinvolgente e originale. In un intreccio di vite personali, di tensioni collettive e di caparbie volontà, si sono incontrate differenti matrici culturali e sociali espressioni di quelle terre; grazie a lunghe ricerche e alla raccolta di documenti inediti, questo libro ne ricostruisce le vicende.
Redazione, Presentazione del libro 'Partigiani del mare', Libro Co. italia

Sabato alle 18 si apre, a San Biagio della Cima, la nuova edizione degli 'Itinerari di Letteratura', a cura dell’associazione “Amici di Francesco Biamonti”, in collaborazione con i comuni di San Biagio della Cima e Dolceacqua, che torna quindi a animare l’estate incipiente con una serie di incontri culturali raffinati e importanti.
[...] Si continua domenica 10 luglio, al Castello di Dolceacqua alle 21, per la presentazione di Partigiani del mare (SEB27 Edizioni), di Sergio Favretto. Introdurrà lo storico Paolo Veziano.
[...] Un’edizione degli 'Itinerari', ampia e variegata, ma con incontri insieme interessanti, aperti a tutti i gusti, dal romanzo alla storia locale alla teoria della letteratura alla storia della letteratura, tutto all’insegna di Biamonti, di cui gli appuntamenti incrociano propensioni e ossessioni.
Redazione, San Biagio della Cima: sabato prossimo si aprono al centro polivalente gli 'Itinerari di Letteratura', Sanremo News.it, 16 giugno 2022

Ventimiglia. Dal 5 maggio, in tutte le librerie, esce il libro “Partigiani del mare. Antifascismo e Resistenza sul confine ligure-francese” di Sergio Favretto, pubblicato da Edizioni SEB27 di Torino nell’aprile 2022. Prefazione di Claudio Dellavalle, già professore ordinario di storia contemporanea all’Università di Torino [...]
Redazione, Esce il libro di Sergio Favretto sui “Partigiani del mare. Antifascismo e Resistenza sul confine ligure-francese”, Riviera 24.it, 29 aprile 2022

sabato 25 giugno 2022

I boschi di Goina


 

I veri abitanti e proprietari di questi boschi sono i vetusti Castagni.

Vere opere d'arte,  la bellezza che nasce con il passare del tempo.

Questi quasi immortali avi hanno sfamato migliaia di bocche salvando persone dalla fame per centinaia di anni.

Erano curati come figli, sotto le loro chiome e la loro ombra tutto era in ordine, dai muretti a secco, all'eliminazione delle erbe alte e dai cespugli, c'erano anche piccole casette dove si facevano seccare i frutti a fuoco lento sui graticci.

Case di gnomi infaticabili.

Il mio bisnonno di Triora piantava le patate in quella terra fertile dove arrivava il sole.

Ricordo il nonno che, quando facevamo i capricci, ci prometteva come castigo di andare a piantare anche noi le patate da quelle parti.

Certamente da bambino avrà dovuto aiutare il padre, caricandosi sulle spalle un sacco dei tuberi che sfamavano ma costavano così tanta fatica.

Nel menù degli abitanti della valle erano compresi latticini, per chi aveva capre o pecore, patate e castagne.

Castagne nel latte, castagne nel brodo, castagne secche, castagnaccio, pane di farina di castagne, torta di castagne e cachi, insomma sempre la stessa musica.

Bisnonno e famiglia stanchi di quella monotonia sarebbero scesi con quattro cose verso la costa, sperando in un cambio al meglio.

Il ritorno a quella dieta sarebbe però ritornato durante l'ultima guerra e avrebbe colpito anche mia madre.

Giunta la fine della catastrofe per tutto il resto della sua vita non ha voluto più sentir parlare di castagne.

Ora tra gli alberi scultura si aggirano fotografi alla ricerca di forme antropomorfiche e pittori che cercano di fermare sulla carta quelle forme così affascinanti.

Bici e moto distruggono i sentieri di pietra inconsapevoli della fatica fatta da chi li aveva fatti e curati.

Anche il popolo dei cacciatori osa profanare quei luoghi lasciando scarti e accendendo fuochi per scaldarsi dentro la cavità ad anfiteatro dei tronchi corrosi.

Le vecchie case di pietra ormai abbandonate dall'ultimo pastore per raggiungere il Camposanto, stanno rovinando; i castagni continueranno, invece, a gettare attorno al vecchio tronco i nuovi figli per i futuri immeritevoli abitanti della terra.

 

Gris de lin

 

lunedì 20 giugno 2022

Sanremo (IM): presentazione del libro "L'astro di Pippo Barzizza"


 

 Nell'ambito della mostra SWING CORNER OF THE FORTRESS 


Giovedì 23 giugno 2022, ore 18

SANREMO - Forte di Santa Tecla

 

Presentazione, quale evento collaterale, del libro

L'ASTRO DI PIPPO BARZIZZA

di

Freddy Colt





Questa attenzione di Ligustro alla diversa luce del giorno

Ligustro, Stampa Polpo - colore chiaro - Fonte: Ligustro

Al 1985 risalgono anche le prime prove xilografiche dell'artista [Ligustro]; una veduta dei tetti di Oneglia [Imperia], con un fiore in primo piano e il grande cerchio del sole sullo sfondo; una barca con il marinaio al timone su una nave curvo, e nuovamente l'astro che tramonta con la sua scia riflessa sull'acqua.
Si tratta di xilo su legno di "testa", come si è detto, e non di "filo", come avviene comunemente nella stampa giapponese e come il Ligustro prenderà a fare successivamente.
Ma da queste prime, essenziali e quasi scarne prove, alle ricche stampe "broccato" (Nishiki-e) negli anni Novanta la corsa sarà breve.
Ligustro, come tutti i geniali autodidatti, assumerà gli elementi della stampa giapponese rielaborandoli in una sua personale tecnica; così si fabbricherà degli strumenti propri al fine di ottenere gli effetti desiderati.
Il baren, o tampone dischetto per premere il foglio sulla matrice in legno, di sughero a diametri varianti, e non di corda; il kento, o registro marginale sulle matrici, a modulo variabile, un'idea questa che solo a prima vista pare banale "come tutte le idee innovative" che il nostro deve avere mutato dalle vecchie cassette a regolo dei caratteri tipografici, ma che gli permette di fatto di realizzare anche l'uso di decine e decine di matrici sullo stesso foglio senza ricorrere all'accumulo delle tavolette di legno.
Così dalle prime prove di policromia, rabeschi di limoni in giallo, oro, verde e violetto, Ligustro è giunto al suo primo piccolo capolavoro xilografico, Il mio mondo, 1989, un foglio di più di cinquanta centimetri, in cui ha dispiegato tutte le magie della tecnica Nishiki-e; il gofun, l'uso della polvere di conchiglia nel pigmento, il karazuri, tecnica di stampa per impressione a secco, con effetti di rilievo, il sabi-bori, tecnica di stampa che evidenzia le pennellate, il bokashi, la gradazione del colore, e si veda a questo proposito il prezioso glossarietto di Fiamma del Gaizo in fondo al catalogo alla recente mostra Arte xilografica giapponese dei secoli XVIII - XX, per il decennale del Centro Studi d'Arte Estremo Orientale di Bologna.
Durante l'ultimo decennio la creativa vena xilografica di Ligustro si è sviluppata ampiamente: da prove preziose come Il sogno di Chuang Tse: La farfalla, un foglio accompagnato dalla calligrafia. Nulla si sa e tutto si immagina, che evoca stilisticamente tanta grafica Decò, alla prima serie dei tre diversi "stati" di Jneja, con le vedute del golfo di Imperia in tre momenti del corso del sole, dall'alba alla notte.
Questa attenzione di Ligustro alla diversa luce del giorno, intesa come intonazione di cromie sullo stesso disegno, ritorna, mi sembra, anche in altre serie di varianti: Il circo, del 1998, e la Finestra del pittore dello stesso anno. Si tratta di grandi fogli, di sessanta per quaranta centimetri, in cui egli dispiega tutta la sua grande abilità di incisore e stampatore "si ricordi che in Giappone non era la stessa persona a fare queste due operazioni" e soprattutto la sua genuina natura di poeta dell'immagine. Sono, queste stampe di Ligustro, come anche Sole nella rete, 1998, Palloncini, 1998, Varco nel cielo, 1999, La danza del sole e Malinconica attesa, 2000, degli esempi potenti di come la xilografia, in quest'epoca di arte concettuale e computerizzata, non sia morta; di quanto l'immaginazione, la mano paziente dell'uomo possono dare all'espressione delle figure del mondo.
Vi è infine quella stampa che io preferisco, Geisha alla finestra con veduta di Oneglia, 1998, e che a me pare uno dei piccoli capolavori della xilografia del Novecento, e che sintetizza in un'immagine alcuni dei motivi centrali della nostra cultura figurativa: l'immagine della donna di spalle mentre si pettina, la finestra sul golfo con la luna, il fiore in primo piano e la quinta di base, il paravento di glicini, con la lucertola che pare mirare la luna argentata.
Qui si assiste, nella piena autonomia dell'illustratore "intendo illustrazione nel senso più alto" a tutta una serie di "richiami visivi", da Utamaro a Matisse, dai Nabis all'Art decò; perché questa è stata la magia di Ligustro che, nel momento in cui egli voleva rifare l'Ukiyo-e, egli ha fatto se stesso, e tutte le suggestione tecniche che andavano a confluire nella sua abilissima perizia manuale, dalle raffinatezze dei surimono all'eleganza del nishiki-e, si sono piegate all'immaginazione di un uomo dei nostri giorni.
a cura del Prof. Marco Fagioli
Redazione, La tecnica di Ligustro, Ligustro

giovedì 16 giugno 2022

Una tragica esplosione di 78 anni fa

Ruderi nella zona della Polveriera di Borgomaro - Fonte: Experience Liguria, cit. infra

La Polveriera di Ville San Pietro, Frazione di Borgomaro (IM), era stata costruita nel bosco in modo da sembrare un villaggio come tanti altri, con tanto di chiesa e campanile.
18 baracche potevano contenere 10.000 bombe e altre 18 servivano per immagazzinare diverse tonnellate di balistite. Tutto il materiale bellico veniva trasportato fin quassù dalla stazione di Imperia a mezzo di camion militari, per approvvigionare le postazioni in quota, ad esempio le batterie di Cima Marta.
Nonostante l’innocente apparenza di case rurali, erano state erette su basamenti di cemento, e per la maggior parte, circondate da spessi muri in pietra, che, in caso di incidente, dovevano prevenire che si instaurasse un reazione a catena ed esplodessero anche le baracche intorno.
Nel giugno del 1944 i partigiani conquistarono il corpo di guardia e scacciarono i soldati. Le popolazioni della valle Impero e di Prelà, ormai prive di tutto dopo i lunghi anni di guerra, iniziarono a prelevare tutto il materiale che poteva essere riutilizzato nella vita quotidiana, soprattutto i contenitori per l’esplosivo.
La balistite era infatti conservata in sacchetti di tela fine, a loro volta messi in controcasse di zinco che, a coppie, erano custodite in casse di legno. La balistite venne semplicemente sparsa sul terreno, i sacchetti utilizzati per confezionare lenzuola e indumenti, le casse di zinco per l’olio ché il 1944 era stata un’annata di produzione eccezionale. Persino i chiodi, merce rara in quei tempi, venivano raddrizzati per essere riutilizzati. Se nei primi momenti gli abitanti del luogo agirono con prudenza, con il passare dei mesi il loro comportamento si fece via via più disinvolto fino a rasentare la temerarietà e a provocare il disastro.
Il terreno era ormai ricoperto da uno spesso strato di balistite e il 18 novembre, per disattenzione o per la sua propria instabilità, si incendiò, provocando due colonne di fuoco altissime, visibili fino dalla costa. Morirono in 42, chi sul colpo, chi in seguito alle gravi ustioni riportate.
Questa storia contrasta fortemente con quello che oggigiorno resta da vedere; una piccola carrozzabile erbosa e pacifiche radure tra gli alberi dove sorgevano le baracche.
La natura, come sempre, si è ripresa quello che l’uomo ha tentato di toglierle e pietosamente nasconde le tracce di guerre e disgrazie, anche se basta spostare erbacce e rovi per trovare i basamenti in cemento, alcuni fusi dall’immane calore dell’incendio.
Solo il deposito n. 21 è rimasto parzialmente in piedi, scampando chissà come a quell’inferno di fuoco.
[...] Grazie allo storico Alfredo Mela, all’archeologo Gian Piero Martino dell’Associazione Culturale A Lecca, al Sindaco di Borgomaro Adolfo Ravani, a Giorgio Gonella della sezione di Ceva dell’ANA, all’Associazione Wepesto.
Redazione, L'invasione digitale alla Polveriera di Borgomaro, Experience Liguria  

Il 18 novembre 1944 una colonna di fuoco superò in altezza le nubi che sovrastavano le montagne dell’Alta Valle Impero. Quintali di balistite, destinata a propellente per i cannoni del Vallo Alpino, trasformò la Polveriera, liberata dai partigiani, in un inferno. I sacchi e le casse svuotati dall’esplosivo, riversato sul terreno, erano ottimi contenitori per olive e olio in un’annata di produzione straordinaria.
A pochi minuti di cammino, la cava di colombina riposava sotto un manto di terra ed erba, nascosta agli occhi degli aerei nemici.
Dopo più di 70 anni le memorie di un intero villaggio abitato da migliaia di bombe, munizioni e cariche esplosive torneranno alla luce.
La storia farà ancora un passo indietro, nella cava medievale che fornì le pietre per le case e per le macine da frantoio, con il racconto del Sig. Pastorino il cui padre lavorò la colombina proprio in quel luogo.
Nel finale visiteremo il museo temporaneo creato dal Comune e dagli abitanti nelle scuole di Ville San Pietro con i cimeli rinvenuti nella Polveriera e nelle case: spesso le bombe, disinnescate, e le casse di esplosivo venivano riutilizzati per compiti di vita quotidiana, quindi conservati in solai e cantine.
Nicola Ferrarese, La Polveriera e la Cava delle Macine, Invasioni digitali, 29 aprile 2017  
 
Per cause imprecisate il 18 salta in aria il capannone della polveriera di Ville San Pietro in Valle Impero: Giacomo Campoverde (Perasco) fu Giacomo, nato a Imperia il 18-2-1920, uno dei quattro garibaldini del distaccamento "Jumbo" a guardia dell'esposivo, rimane carbonizzato con alcuni civili, tra cui Pierina Garibaldi e suo marito. Non è la sola mitraglia a mietere la vita dei garibaldini.
Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, ed. Amministrazione Provinciale di Imperia, Milanostampa, 1977
 

domenica 12 giugno 2022

Figure di antifascisti imperiesi, esuli negli anni Venti

Imperia: portici della Calata G.B. Cuneo nel porto di Oneglia

6.4 Pochi, ma grandi nomi dell’antifascismo imperiese
Non mancarono, però, anche nell’Imperiese esuli particolarmente inseriti nelle maglie dell’antifascismo militante, che seppero creare una rete solida e in contatto con i dirigenti dei partiti in esilio, dai quali ricevevano direttive e a cui rendevano conto del proprio operato, che non cessarono di lavorare in favore della causa italiana accanto a quella europea, tanto che molti di essi sarebbero poi tornati in Italia per inserirsi nella cospirazione.
Tra questi vi fu Leonardo Dulbecco, comunista di Porto Maurizio, che aveva alle spalle una militanza di vent’anni nel Psi, prima di optare per la frazione intransigente alla scissione di Livorno, già segretario della locale Camera del Lavoro, fervente antifascista negli anni culminanti della lotta di classe e poi nel 1922 con la salita al potere del fascismo, quando si distinse per la sua propaganda contro il costituendo regime assieme ai suoi compagni più fidati.
In occasione delle prime elezioni fasciste, infatti, il gruppo di Dulbecco, Carlo Serrati, Giovanni Amoretti “Moretto”, Felice Musso organizzò una distribuzione clandestina di liste elettorali con candidati antifascisti, una provocazione che costò loro la subitanea ritorsione da parte fascista. Amoretti e Serrati, che gestivano assieme un’azienda produttrice d’olio, videro messo a fuoco il proprio magazzino, e così fu della piccola ditta “l’Olearia” di Dulbecco, il quale dovette anche subire una campagna scandalistica che colpì la sua immagine pubblica, condotta in primo luogo dal giornale "Il Littorio", che lo accusò di bancarotta fraudolenta e riuscì persino a farlo incriminare e subire una condanna a tre anni di carcere.
Fu allora che Dulbecco prese la via dell’esilio, fuggendo clandestinamente assieme alla famiglia, cercando rifugio dapprima in Svizzera e in Belgio e poi, non riuscendo ad ottenere i documenti, nel 1926 raggiungendo la Francia, stabilendosi ad Antibes, dove la rete di conoscenze imperiese e antifascista gli trovò un lavoro presso un ristorante e gli fece avere i documenti per poter restare in territorio francese. Da Antibes Dulbecco mantenne i contatti con i compagni imperiesi, facendo loro giungere informazioni e volantini di propaganda stampati oltralpe, e si inserì nella rete antifascista del Midi, restando in contatto con i compaesani Amoretti e Musso, ma anche legandosi a Italo Oxilia, figura cardinale dell’organizzazione socialista e giellista di tutto il Sud, in contatto diretto con Parigi. La sua avventura in Francia sarebbe durata ben poco tempo, perché egli morì nel 1931, all’età di quarantatré anni <334.
Felice Musso, ex sindaco socialista di Castelvecchio, all’avvento del fascismo dovette lasciare il paese perché perseguitato e si rifugiò nella vicina Nizza, come tanti compaesani. La famiglia lo raggiunse piuttosto tardi, nel 1930, la moglie Giuseppina, la figlia Ornella e il figlio Lorenzo, il quale si inserì subito nell’organizzazione socialista al fianco del padre e dei vecchi compagni imperiesi <335.
Giuseppe Amoretti, il “Moretto” comunista di Oneglia, lasciò Imperia anch’egli dopo il dissesto finanziario della sua attività di commercio in olio, e grazie alla dote della moglie poté rilevare un negozio di commestibili nel cuore della Vieille Ville, intrico di vicoli dove dal secolo precedente gli italiani si erano installati con le loro botteghe, alimentari, ristoranti. Egli si inserì dapprima nel movimento comunista italiano a Nizza, ottenendo ruoli di responsabilità, in stretto contatto con Felice Musso e i compagni imperiesi, poi si integrò sempre più nelle organizzazioni del Pcf, mantenendo rapporti con l’emigrazione antifascista e con la sinistra locale <336.
A Ventimiglia intanto operava in collaborazione con il gruppo antifascista locale un sarzanese, fuggito dal Levante perché ricercato dopo i fatti di Sarzana, ex ardito del popolo e già socialista rivoluzionario: Ercole Gallinella. Nel 1923 Gallinella si era trasferito a Ponente per non incorrere nelle rappresaglie degli accaniti fascisti lunigianensi, ma non aveva cessato di impegnarsi nella causa antifascista. Egli continuò ad esercitare il suo mestiere anche a Ventimiglia, aprendo un negozio di barbiere, che di fatto divenne un recapito per gli antifascisti di passaggio tra l’Italia e la Francia, un approdo per portaordini e informatori, ma soprattutto un luogo di riferimento per organizzare espatri clandestini, in collegamento con comunisti francesi <337.
Frattanto a Sanremo si manteneva in rapporto con gli esuli e operava con grande dedizione l’intellettuale e giornalista Giuseppe Amoretti, figura forse non rappresentativa della migrazione imperiese ma celeberrima per la sua fama nazionale. Sanremese, egli si formò a Torino dove condusse gli studi universitari e poi a Milano, Trieste, Alessandria, dove lavorò come redattore di svariati giornali antifascisti come "L’Ordine Nuovo", il Lavoratore Comunista, l’Unità tra il 1922 e il 1924, subendo arresti e attirando su di sé l’attenzione della polizia fascista nonché quella del partito comunista, che lo inserì nei quadri dell’organizzazione e investì sulla sua figura politica. A Milano giunse ai vertici del partito negli anni della clandestinità, collaborando alla direzione accanto a Palmiro Togliatti e Camilla Ravera e poi nel Centro interno. Inviato a Roma per tentare di ricostituire il disciolto Pcd’I, dopo aver compiuto viaggi clandestini all’estero, a Berna e a Basilea, essendo egli in contatto con le maglie del fuoriuscitismo, fu infine scoperto e condannato dal Tribunale Speciale nel 1928 a tredici anni di reclusione. La sua emigrazione in Francia si sarebbe svolta negli anni della crisi come accadde per la maggior parte dei dirigenti comunisti, quando, dopo l’indulto del 1934, fu dimesso dal sanatorio di Pianosa e l’anno seguente raggiunse Marsiglia, dove nel frattempo si era rifugiata la fidanzata Anna Michela Bessone, presso uno zio là installatosi per ragioni di lavoro e si inserì negli ambienti della sinistra comunista <338.
6.5 Antifascisti imperiesi nelle colonie francesi
Vi fu poi una minoranza che scelse, come capitò in altre reti migratorie liguri, la via dell’Africa francese. Filippo Antonio Anfosso, comunista di Camporosso, fervente propagandista, era emigrato solo, celibe, a ventidue anni, nel 1923 in Francia, a Nizza e poi a Mentone, dove trovò lavoro come cameriere. Nel 1927 da Marsiglia era poi salpato per Tangeri, in Marocco, dove si era nuovamente impiegato come cameriere presso un albergo dove lavoravano molti connazionali, il Grand Hôtel Saint-Georges, indirizzato dalle reti di solidarietà della colonia immigrata. Sul finire degli anni Venti si trasferì in Algeria, dove sposò Lucia Destonesse, mise su famiglia e mantenne rapporti epistolari con i genitori rimasti in Liguria, inviando loro anche aiuti in denaro, mentre continuò a perseguire il proprio impegno antifascista <339.
Anche Nino Siccardi, comunista divenuto poi celebre partigiano della zona imperiese, dopo una prima esperienza migratoria nel Midi, a Saint-Raphaël, Cannes e Marsiglia tra il 1929 e il 1930, dove fece il distillatore di mosti d’uva, prese rotte nuove e persino inconsuete per gli antifascisti liguri, cambiando luoghi e mestieri negli anni della grande crisi, adattandosi di volta in volta alla contingenza del momento. Si ritrovò così ad attraversare negli anni Trenta la Siria, la Spagna, il Marocco francese, per poi rimpatriare e tornare a viaggiare per lavoro, trovando impiego imbarcandosi come macchinista <340.
I migranti imperiesi degli anni Trenta avrebbero teso invece a rientrare con l’inizio del conflitto e alcuni di essi parteciparono alla lotta di liberazione. Forse il fatto di aver compiuto la propria formazione civica sotto il regime influì sulle scelte che si presentarono agli esuli con l’avvento della guerra; e ciò tanto più nella zona di confine e di occupazione, dove l’insofferenza per l’italianizzazione forzata di Mentone rendeva la permanenza italiana assai difficile <341.
[NOTE]
334. AIsrecIm: IID3: f. Leonardo Dulbecco.
335. AIsrecIm: IID4: f. Lorenzo Musso.
336. Cpc: b. 105, f. Giuseppe Amoretti.
337. Assp: b. 106, f. 4 Ercole Gallinella.
338. Cpc: b. 105, f. Giuseppe Amoretti.
339. Cpc: b. 127, f. Filippo Antonio Anfosso.
340. AIsrecIm: IIDB: f. Nino Siccardi.
341. Cpc: b. 2794, ff. Angela Liprandi, Annita Laura Liprandi, Arturo Mario Dino Antonio Liprandi; b. 2795, ff. Giovanni Battista Liprandi, Giusto Antonio Liprandi, Liutprando Liprandi; b. 4291, f. Linda Revoir; b. 4794, f. Nino Siccardi. Dpp: f. Filiberto Armando Novella. Sull’occupazione italiana in Francia: Jean-Louis Panicacci, L’occupation italienne. Sud-Est de la France, juin 1940-septembre 1943, Presses Universitaires de Rennes, Rennes, 2010.
Emanuela Miniati, La Migrazione Antifascista dalla Liguria alla Francia tra le due guerre. Famiglie e soggettività attraverso le fonti private, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova in cotutela con Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, anno accademico 2014-2015 

Tuttavia Terzi viene ancora segnalato nel 1931 dal Ministero degli Interni come possibile frequentatore di un centro antifascista a Ventimiglia, ubicato presso il negozio di un parrucchiere sarzanese, tale Ercole Gallinella, ma il Prefetto spezzino risponde alla nota ministeriale, affermando che, pur essendoci sospetti sulle attività dell’ex sindaco di Sarzana, dalle perquisizioni domiciliari e familiari eseguite dalle forze dell’Ordine, non è mai risultato nulla.
M. Cristina Mirabello, Pietro Arnaldo Terzi, Progetto “Le vie della Resistenza (1943-1945)”, I.S.R. Istituto spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea

"Gallinella, prima, credo che lui sia scappato da Sarzana e andato in Francia, poi si è stabilito a Ventimiglia dove ha aperto questo negozio di barbiere. In questa barberia tanti sarzanesi andavano a trovare rifugio e dopo la guerra, al giovedì che era giorno di mercato, tanti sarzanesi andavano in questo negozio, si trovavano lì, e parlavano il dialetto sarzanese" <86.
[...] Fu in particolare Mentone a raccogliere i sovversivi in fuga dalla Val di Magra in modo sempre più organizzato e tra Mentone e Ventimiglia si creò una piccola rete di assistenza per organizzare le fughe e assicurare contatti tra fuoriusciti e antifascisti rimasti in patria, che faceva capo al negozio di un barbiere sarzanese socialista, Ercole Gallinella, fuggito dalle rappresaglie squadriste ai tempi dei primi processi locali <105.
[...] Un caso particolare fu poi quello di un barbiere spezzino socialista, Gallinella, che fece perdere le sue tracce trasferendosi a Ventimiglia e facilitando gli espatri clandestini antifascisti. Altre famiglie si divisero, alcuni scelsero di emigrare in Francia, i più politicizzati, altri di cambiare città in Italia, per non imbattersi nelle continue irruzioni della polizia <157.
[NOTE]
86. Intervista a Giuseppe Meneghini cit.
105. Cpc: b. 4231, ff. Adino Rasi, Enrico Rasi, Tintino Persio Rasi; b. 3950, ff. Amilcare Picedi, Balilla Guerrino Picedi, Guido Picedi. Intervista a Giuseppe Meneghini, Antonio Luciani, Werter Bianchini cit.
157. Cpc: bb. 3102, 3104, 3106, fam. Martini; Assp: b. 106, f. 4, Gallinella Ercole; Cpc: bb. 196, 2896, fam. Maccario-Arnecchi; b. 4741, fam. Semeria.

Emanuela Miniati, Op. cit.

[...] Andrea Ventura, autore de “I primi antifascisti. Sarzana, estate 1921”, una fine ricerca storica incentrata sui “Fatti di Sarzana”, nel suo intervento ha introdotto il periodo storico di riferimento approfondendo alcune caratteristiche del fascismo e dell’antifascismo, il primo nato come un fenomeno violento e maschilista che indirizzava la propria barbarie principalmente sulle classi operaie e sulle donne (significativo che la prima vittima in assoluto della violenza fascista fu Teresa Galli, un’operaia che prese parte a un corteo di protesta di lavoratori), volendo stroncare il protagonismo che in quegli anni assunsero i movimenti dei lavoratori che rivendicavano miglioramenti salariali e delle condizioni di lavoro nelle fabbriche e nelle campagne. Quanto alle motivazioni che portarono allo sviluppo di una coscienza antifascista, tra le più diverse spiccavano la ribellione alle prepotenze perpetrate dai fascisti e l’avversione allo stato permanente di guerra generato dal fascismo. Venendo ai “Fatti di Sarzana”, Ventura ha ricordato che la loro eccezionalità consistette nella circostanza che le forze dell’ordine locali reagirono alle squadre fasciste, gli aggressori, anziché abbandonare la popolazione a se stessa, comportamento che in quel periodo costituiva la norma. Ovviamente le forze dell’ordine guidate dal capitano Jurgens agirono con motivazioni differenti rispetto agli Arditi del Popolo, che a loro volta si opposero alle squadracce; tra loro il sarzanese Ercole Gallinella, barbiere costretto a fuggire a Ventimiglia dove continuò la professione, con la sua bottega punto di riferimento per gli antifascisti che dovettero emigrare in Francia, grazie alla collaborazione logistica dell’avvocato Arnaldo Terzi, il “Sindaco di Sarzana del 21 Luglio 1921”, marchio che oggi gli rende onore ma che nel ventennio gli rese difficile la vita, fino a quando gli fu tolta in un campo di sterminio nazista. [...]
Redazione, Sarzana, consegnata a Garibaldo Benifei l’onoreficienza civica ‘XXI Luglio 1921’, Città della Spezia, 1 agosto 2013

In quel periodo il partito aveva, insomma, serie difficoltà a svolgere la propria attività alla luce del sole tanto da dover trovare e cambiare di continuo dei luoghi sicuri. Questa situazione veniva ben descritta in un documento intitolato “nel 1923 in un ufficio clandestino del partito” redatto dalla stessa Camilla Ravera e reperito presso il “Gramsci”.
"Nella primavera del ’23 l’ufficio di direzione del partito era stato riorganizzato a Milano. A Roma la polizia fascista aveva invaso perquisito e devastato i locali della direzione, arrestato i compagni che là lavoravano e i dirigenti del partito su cui era riuscita a mettere le mani. Analoghe devastazioni e retate di compagni aveva compiuto nelle maggiori città d’Italia. I compagni dirigenti sfuggiti a quella prima ondata poliziesca fascista s’erano ritrovati a Milano e avevano fatto un piano di riorganizzazione e di lavoro rispondente alla situazione. Con l’aiuto di un amico ingegnere, che mise a disposizione del partito un suo insospettato locale di lavoro, si organizzò a Milano un ufficio clandestino della direzione. E ad Angera, sul lago Maggiore, un secondo ufficio cautelato al massimo, perché vi risiedeva il compagno Togliatti. Era una piccola villa che, all’aspetto, testimoniava un lungo abbandono; circondata da un simpatico giardino dove le piante e i fiori da tempo vivevano e crescevano in piena libertà. Da Milano, il compagno Amoretti ed io vi arrivavamo due o tre volte la settimana per portare a Togliatti le notizie raccolte nell’ufficio milanese, le informazioni ricevute dai nostri “fenicotteri” (i compagni che ristabilivano i collegamenti con le organizzazioni periferiche nelle varie province) [...]" [...]
Benedetta Mancino, Camilla Ravera e Margherita Sarfatti: due parabole umane a confronto, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Molise, 2014

«Rinviammo una persona nuova con tutte le istruzioni possibili e tale da poter agire». (Franco Ferri suggerisce in nota che dovrebbe trattarsi di Giuseppe Amoretti: probabilmente la notizia gliel’avrà data Ravera. Il vero paradosso è che nel resoconto analitico della vicenda [cfr. infra, Ravera/2 al cap. v] questa seconda missione a Roma successiva a quella fallimentare di Ester Zamboni non c’è affatto. Dunque parrebbe trattarsi di una invenzione a uso e consumo di Togliatti allarmato per l’inettitudine con cui avevano lasciato arrestare Gramsci
[...] A parte qualche inesattezza, la sintesi Pillon (1967) fornisce qualche altro elemento:
a) «l’Ufficio Io» del PC dI, che Pillon chiama anche «Ufficio illegale» ma che forse dev’essere l’«Ufficio tecnico» di cui Ravera parla piú volte nelle pagine del Diario, aveva «minuziosamente predisposto» il «piano per far espatriare Gramsci». «Disgraziatamente era stato impossibile - seguita Pillon-Ravera -; quando Camilla Ravera era giunta a Roma, ai primi di novembre, aveva trovato chiusi tutti gli abituali recapiti del partito». Giuseppe Amoretti e Felice Platone li avevano chiusi perché erano «convinti che tutti i dirigenti del partito, compreso Gramsci, fossero a Genova ad una riunione clandestina del Comitato centrale. Invece Gramsci, già pedinato dalla polizia, non aveva potuto recarvisi ed era tornato a casa, dove la milizia lo aveva stretto d’assedio».
[...] b) «Appena rintracciato Amoretti, Camilla Ravera si era subito precipitata in via Morgagni. Era una gravissima imprudenza, una mossa estremamente pericolosa: ella era infatti il personaggio piú clandestino della segreteria del Pcd’I, giacché a lei era affidata l’attività “illegale” dell’organizzazione. Eppure, in quella circostanza non c’era altro da fare: bisognava pur sapere cosa fosse successo a Gramsci».
c) «Amoretti e la Ravera trovarono la casa di via Morgagni circondata dai fascisti. Come entrare? Per queste incombenze occorreva impiegare una donna, ma Camilla Ravera non doveva correre un tale rischio: era ricercata con mandato di cattura. Proprio in quel momento era arrivata da Milano - inviata dall’Ufficio Io - Esther Zamboni, con l’ordine di far fuggire Gramsci. Non era conosciuta dalla polizia e superò lo sbarramento della milizia senza difficoltà».
[...] d) «Gramsci non volle uscire con lei: sapeva che se lo avesse fatto lo avrebbero fermato, e avrebbero arrestato anche Esther Zamboni. Era assurdo compiere un simile tentativo. Se si fosse presentato un momento piú propizio… Ma il momento piú propizio non si presentò. Piú volte Amoretti tornò nella piccola via periferica fuori Porta Pia: implacabili, i militi fascisti erano sempre là» [...]
Luciano Canfora, Spie, URSS, antifascismo. Gramsci 1926-1937, Salerno Editrice, Roma, 2012

venerdì 10 giugno 2022

Vicende di esuli antifascisti che passarono la frontiera con la Francia da Ventimiglia e dintorni

Una vista sino a Cap Ferrat dalle colline dietro Bordighera (IM)

Tre componenti del gruppo del Merizzo decidono di intraprendere il rischioso viaggio verso la Francia, per poi da lì passare in Spagna: essi sono Edoardo Bassignani, Giovanni Giampietri e Leone Borrini, il primo a provare l'impresa e a raggiungere la Francia nel dicembre 1936, mentre Bassignani e Giampietri tentano l'espatrio nel gennaio 1937.
[...] Bassignani e Giampietri il 22 gennaio raggiungono Sanremo, dove incontrano Sante Vinciguerra, nativo del Merizzo ma che vive nella cittadina ligure, indirizzativi da Leone Borrini. Vinciguerra li affida ad una guida, Angelo Gorga “Ventimiglia”, che li conduce fino al confine indicando loro la via da seguire per raggiungere il territorio francese. I due però commettono un errore, credendo di essere già giunti nel territorio francese scambiano i carabinieri italiani per gendarmi francesi, e raccontano loro i motivi dell'espatrio clandestino, riferendo del riuscito tentativo di Borrini, di come questi li avesse convinti ad espatriare, e dell'aiuto ricevuto dal Vinciguerra, e vengono arrestati. Giampietri, Bassignani, Vinciguerra e Gorga vengono assegnati al confino di polizia il 23 febbraio dalla Commissione Provinciale di Imperia, Giampietri e Bassignani per tre anni, mentre Gorga e Vinciguerra per due, quest'ultimo beneficiando di un atto di clemenza il 22 giugno in ragione dell'età. Negli stessi giorni di giugno vengono arrestati gli altri sette partecipanti alla cena
[...] Nato a Fivizzano il 18 novembre 1897, Mario Mariani già all'età di dieci anni si trasferisce con la famiglia in Liguria, a Bordighera.
[...] La migliore fonte a cui attingere per fare luce sulla vita di Malachina è proprio Malachina stesso, nelle dichiarazioni che rilascia a seguito del suo arresto, avvenuto a Sanremo il 20 luglio 1940, mentre tentava di rientrare in Italia. L'8 agosto viene interrogato negli uffici della Questura di Apuania <216
[...] Pontremolese, nato il 30 gennaio 1902, Emilio Martinelli proviene da una famiglia impegnata a livello politico e sociale: il padre era stato infatti segretario della Lega dei contadini rossi di Pontremoli prima dell'avvento del fascismo. <276 Contadino di professione, secondo le carte risulta emigrato per Cannes con regolare passaporto l'11 ottobre 1924. <277 Si stabilisce a Mandelieu, in Costa Azzurra, dove si trova un nutrito gruppo di emigrati lunigianesi, tra cui Egidio Montani, uno dei nostri tredici volontari, e il già noto Luigi Campolonghi, che proprio qui fonda la Fratellanza Franco-Lunigianese, un'associazione di impronta antifascista, che vede l'adesione di Martinelli, Montani e altri fuorusciti soprattutto pontremolesi. <278 La sua appartenenza all'associazione non sfugge alle fonti fiduciarie fasciste in terra francese, che lo segnalano come «socio fondatore a Mandelleu [sic] di una cooperativa lunigianese di impronta antifascista», ma che il Martinelli stesso «non diede personalmente mai luogo a particolari appunti con la sua condotta e attività politica», segnalandolo rientrante nel regno il 6 agosto 1932. <279 Trovandosi iscritto nel Bollettino delle ricerche e in Rubrica di frontiera, viene sottoposto ad una perquisizione personale e dei bagagli rivelatasi «infruttuosa»; Martinelli soggiorna brevemente a Pontremoli, visto che viene segnalato in uscita dall'Italia già il 30 agosto. Riguardo alla sua partecipazione al conflitto spagnolo sappiamo che si arruola nnell'ottobre 1936 come sergente nella XII Brigata Internazionale nel battaglione Garibaldi, e poi nell'omonima Brigata come responsabile della sezione telefonisti. La sua presenza in Spagna è confermata anche da fonte francese, venendo segnalato come «communiste notoire en effet» e confermato che «il a combattu en Espagne dans les rangs des Brigades Internationales du 9 Octobre 1936 au 12 Septembre 1937, et pourrait être à l'occasion un élément de troubles». <280
[...] La memorialistica ci parla di un episodio accaduto nel settembre 1929 che rappresenta una svolta per Bertolini. Mentre si trova nella zona dell'Arsenale militare a La Spezia, un gruppo di camicie nere si avventa su alcuni operai ritenuti colpevoli di volantinaggio di manifestini clandestini, pestandoli selvaggiamente: Bertolini interviene e riesce a far cessare il pestaggio, ma compromette la sua posizione. <312 Di lì a breve, Bertolini prende la decisione di espatriare. Assieme ad un certo Corradini, di «idee socialiste», il 1º giugno 1930 espatria clandestinamente in Francia con una barca a remi rubata partendo da Ventimiglia, venendo denunciato e condannato per furto ed espatrio clandestino a quattro mesi di reclusione in contumacia. <313 Residente a Nizza, trova impiego presso “La Frigidaire”, una fabbrica di frigoriferi che incarica Bertolini di trovare una soluzione per installare nelle automobili una cella frigorifera che funzioni con il motore acceso. La casa automobilistica Citroën inoltre incarica Bertolini di elaborare nuove plance di legno per le autovetture più lussuose. <314 Nel 1933 è fra i partecipanti ad una conferenza comunista tenutasi il 28 gennaio, in cui interviene «l'anarchico Baldini Mario reduce da Mosca»; la conferenza è interrotta da un'irruzione della polizia francese, e per Bertolini viene richiesta l'iscrizione in Rubrica di Frontiera, per «perquisizione e viglianza», in caso di rientro in Italia. <315
[...] La Francia meridionale prevale innanzitutto per un motivo prettamente geografico, cioè la prossimità al confine italiano; oppure gli emigrati possono seguire rotte già disegnate da parenti o compaesani espatriati in precedenza, basti pensare al gruppo pontremolese di Mandelieu o allo stesso Coduri, che raggiunge Brignoles nel 1920, dove già si trovavano alcuni parenti. <327 Per Renato Bertolini e Mario Mariani la prossimità geografica è fattore fondamentale: il primo espatria clandestinamente in barca da Ventimiglia e si stabilisce prima nella vicina Nizza e poi a Marsiglia; il secondo, residente a Bordighera, fa la spola fra l'Italia e la Francia, principalmente a Nizza e Marsiglia, ma viene anche segnalata la sua presenza nel piccolo Principato di Monaco.
[NOTE]
216 Apuania è il nuovo comune nato nel 1938 dalla fusione di Massa, Carrara e Montignoso.
276 G. Chiappini (a cura di), Antifascisti della Lunigiana nella guerra civile spagnola, cit., p. 47
277 Carabinieri di Pontremoli alla Questura di Apuania, 22 marzo 1939, in ASM, cit., b. 100 fasc. Martinelli Emilio
278 M. Tassi, Luigi Campolonghi, cit., p. 66
279 Nota del 5 agosto 1932, ACS, MI, DGPS, DPP, cit., b. 793, fasc. Martinelli Emilio
280 Comunicazione dei Services de Armistices, Détachement de Liasion de Nice, 13 ottobre 1942, in ASM, cit., b. 100, fasc. Martinelli Emilio
312 AA.VV., Antifascismo e Resistenza alla Spezia (1922-1945), ISRSP, La Spezia 1987, p. 51
313 Copia della nota della Prefettura di La Spezia al Console d'Italia a Bruxelles, 7 marzo 1931 e Prefettura di Massa-Carrara al MI, DGPP, AGR, CPC, 8 giugno 1933, in ACS, MI, CPC, cit., b. 575, fasc. Bertolini Renato
314 G. Chiappini (a cura di), Antifascisti della Lunigiana nella guerra civile spagnola, cit., p. 28
315 Copia del Telespresso Nº 3952 del Consolato d'Italia a Nizza al Ministero dell'Interno, 22 marzo 1933, in ACS, MI, CPC, cit., b. 575, fasc. Bertolini Renato
327 Sia Mandelieu che Brignoles si trovano nell'odierna regione Provence-Alpes-Côte d'Azur.
Federico Bedogni, Volontari antifascisti lunigianesi nella guerra civile spagnola, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, 2018

Egidio Sellan è sottoposto a procedimento per cospirazione nel 1928 insieme ad altri 8 imputati residenti a Trieste, in Istria e nel Goriziano «per avere, in Monfalcone in epoca anteriore e sino al 7.10.1927, concertato fra loro e con altri, appartenendo a segreta associazione comunista, di commettere fatti diretti a suscitare la guerra civile e la insurrezione armata contro i Poteri dello Stato». Rinviati una prima volta a giudizio in maggio, con sentenza n. 108 della Commissione Istruttoria, il 9 agosto vengono assolti dalla stessa, con un diverso giudice relatore, per mancanza di indizi. Nel frattempo i nove sono stati in carcere dal 7.10.1927 al 23.8.1928 <356.
Subito dopo Egidio espatria clandestinamente: la sua partenza, insieme al compagno di fede Giovanni Silvestri, viene segnala ai primi di novembre 1928 ma le autorità, nonostante l’immediato allarme per l’allontanamento dei due, non riescono ad impedirne la fuga attraverso la frontiera di Ventimiglia. Sellan si stabilisce a Grasse sulla Costa Azzurra <357.
[NOTE]
356 Cfr. Ministero della Difesa 1928, pp. 1009-1010. La fonte indica data e luogo di nascita errati nel caso di Sellan (come per altri quattro degli imputati di questo processo). Sul processo, cfr. inoltre: Patat, p. 282.
357 Acs, Cpc, b. 4736, f. 5184, Sellan Egidio, lettera della R. Prefettura della Provincia di Trieste, Divisione Gab. P.S. al Cpc, prot. n. 9470-28 del 3 gennaio 1929.

(a cura di) Gian Luigi Bettoli, La Guerra di Spagna attraverso la vita e le lettere degli antifascisti e dei garibaldini del Pordenonese, Associazione "Casa del Popolo di Torre", Pordenone, 2008, lavoro qui ripreso da Friuli Occidentale. La storia, le storie

Nizza

Verso la metà del 1935 Etrusco Benci chiede nuovamente un passaporto valido per la Francia e il Belgio e il 24/9/1935 passa il valico di Ventimiglia ed entra in Francia. Va a vivere a Nizza (Alpes Maritimes) e qui partecipa alle manifestazioni antifasciste sotto i nomi falsi di De Rossi e Curia: è vicino ai socialisti massimalisti come Duilio Balduini e Renzo Picedi, legati al Bureau di Londra, che pubblicano in Francia "L'Avanti!"; tiene conferenze e frequenta i corsi di cultura organizzati dalla LIDU. Lascia la Francia il 12/6/1936, diretto in Catalogna con uno dei primi gruppi di volontari, e viene arruolato nella Colonna Lenin (organizzata dal POUM).
(a cura di) Ilaria Cansella e Francesco Cecchetti, Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola. Le biografie, Isgrec, 2011

Gli stessi organi di sorveglianza fascisti intuirono il traffico d’armi che aveva come fulcro il gruppo di Port-Bou; il 21 novembre del ’36, il Direttore Capo della Divisione Politica ricevette una relazione dal console italiano a Nizza: «Caro Di Stefano», scriveva il diplomatico «pregomi informarti che il nostro Bagnari mi ha ieri sera parlato di armi e munizioni che sarebbero clandestinamente esportati dall’Italia, attraverso la frontiera terrestre di Ventimiglia, e che una volta giunte a Mentone proseguirebbero per la Spagna. Tale notizia il Bagnari l’ha appresa a Mentone dal noto Bisio Onorio (già membro della colonna italiana, N.d.A), che pare non abbia più voglia di ritornare a Barcellona e che preferisca invece restare a Mentone, dove dovrebbe sopraintendere al traffico in favore della Spagna e alla propaganda verso il Regno. Il Biso avrebbe detto al Bagnari che paga mille lire ai contrabbandieri per ogni quintale di armi e munizioni consegnate a Mentone. Sapendo che il Bagnari eserciterebbe il contrabbando del formaggio, gli avrebbe proposto di occuparsi del trasporto delle armi e munizioni a un prezzo inferiore». <187 Effettivamente Onorio Biso, assieme al figlio Sirio, aveva lasciato il fronte a fine ottobre: Rosselli aveva incaricato i due di occuparsi della propaganda in favore della Sezione Italiana a Mentone, sul confine italo-francese, e di mantenere i contatti con il comitato di Port-Bou. <188 Si è quindi visto come la presenza italiana nella Barcellona e nella Catalogna del ’36-’37 non si limitasse ad una piccola colonna attiva sul fronte aragonese, ma fosse molto più diffusa.
[...] La contiguità territoriale facilitava sicuramente i passaggi verso la Francia, ma le difficoltà rimanevano; per averne un’idea si legga il seguente documento, una sorta di vademecum dell’emigrante clandestino:
"Prima di tutto non parta con pochi soldi, qui nessuno le farebbe credito. Poi si compri un paio di scarpe con le suole di gomma quelle lo salvano nel sdrucciolare, e non fanno rumore. […] Non dica niente a nessuno se qualche curioso domanda, dica che è un rappresentante della Cassa di Genova. […] Cerchi di partire con un bel cielo sereno, se ci sono nuvole non si può orizzontare e è facile che perdi. La strada arriverà fino a un certo punto poi la perde. Quando la strada mulattiera finirà vedrà una capanna senza tetto di lì si deve farsi la strada da lei arrampicandosi su per la muraglie scogli e cespugli fino che troverà la strada militare prosegui quella lì, che va in giro a zic zac e su su fin che arrivi alla vetta. Vedrà una gran vallata a dritta vedrà un paesello con un campanile e più giù verso il mare Mentone. […] Non abbi paura se di notte sente qualche rumore si butta in terra e ascolti, ma sarà più immaginazione come toccò a me, ma stii sicuro che lì non c’è nessuno. Le guardie sono su a Colletto sulle montagne di dritta ma distante. […] Una volta nella vallata di sinistra cioè nel confine francese incontrerà soldati e contadini e donne le dia il buongiorno e marci fino al paesetto che nessuno le domanderà nulla". <202
Poche righe che ben rappresentano i potenziali rischi cui si andava incontro.
[...] Un’altra interessante testimonianza al riguardo è quella del comunista pisano Guelfo Benvenuti. Scampato, nel giugno del ’21, ad un tentativo di omicidio da parte di una ventina di fascisti, dovette nascondersi per alcuni mesi a casa di amici, per poi, nell’agosto del ’22, espatriare clandestinamente in Francia. Qui sotto la prima lettera che lo stesso, non appena giunto a Marsiglia, inviò alla fidanzata:
"Marsiglia, 25 agosto 1922, carissima Eginia. Sono giunto finalmente ieri sera a Marsiglia dopo una dolorosa via crucis, ma non importa, ormai sono arrivato; ma sento il bisogno di raccontarti quanto ho sofferto; Lunedì ti scrissi una cartolina da Genova, poi proseguii per il confine, dove giungemmo la sera verso le dieci, qui cominciò il calvario: trovammo un contrabbandiere e in quattro ci si mise in cammino verso la Francia, ma fatti pochi chilometri un nugolo di guardie in borghese ci circondò e ci arrestarono immediatamente; e condotti in una lurida prigione a Ventimiglia dove non mancavano insetti di tutte le specie. Al mattino fortunatamente mentre gli arrestati avevano raggiunto la ventina fummo tutti interrogati e solo quattro di noi furono messi in libertà io compreso perché noi dicemmo la verità e gli altri che raccontarono bugie furono regolarmente ammanettati uno attaccato all’altro e spediti a casa. Allora io tornai indietro e insomma Martedì dovevamo tentare per mare, ma il mare cattivo ce lo impedì; allora infine Mercoledì sera c’imbarcammo una ventina di persone fra marinai e fuggiaschi su una piccola barca dove si stava come le acciughe, con un mare… ebbene tre ore in mare, tre ore d’inferno. Verso il tocco siamo sbarcati in Francia e dopo altre tribolazioni sono giunto ieri sera a Marsiglia. Degli altri miei compagni non se so più nulla e non è difficile che li abbiano riagguantati e ricondotti a casa; in Francia mi squagliai andando a piedi fino a Montecarlo a di là col treno fui portato a destinazione; ebbene ora mi trovo in casa di Albina, dove ho trovato un ricevimento proprio da gente buona e Lunedì vado a lavorare; ebbene amore io ho vinto la prima battaglia e spero di vincerne altre, tutto ho fatto per raggiungere il fine: il bene nostro… in questo momento piango come un bambino ma è un po’ di debolezza passeggera, cerca di volermi tanto bene io farò di tutto perché presto possiamo vivere insieme, quindi cerca di non pensare troppo alla mia lontananza, che io col cuore e con la mente sono più tuo di prima; e non ci pensare che le insidie e i vizzi di questa immensa città non sapranno vincermi, ben sapendo lo scopo del mio diciamo così esilio. […] Guelfo. <205
[...] Giuseppe Raffaelli, marmista nato nel 1892 a Montignoso (MS) già organizzatore degli Arditi nella zona di Carrara, una volta tornato in Italia nel ‘43 avrebbe dichiarato ai Carabinieri di Massa: «Nel 1923, per le mie idee, fui fatto segno di persecuzioni da parte dei fascisti, per cui mi decisi ad espatriare nel maggio di detto anno, passando la frontiera clandestinamente a Ventimiglia». <226 Il Raffaelli era stato tra i primi ad arruolarsi nella Sezione Italiana.
[...] Nel capitolo precedente si è accennato brevemente all’origine del rapporto, risalente agli anni degli studi fiorentini, tra Camillo Berneri e Carlo Rosselli. Le vite dei due intellettuali, indirizzate su dei binari paralleli già dai primi anni venti, avrebbero continuato a seguirli anche durante gli anni successivi: tra i primi oppositori al fascismo fiorentino furono entrambi costretti alla scelta dell’esilio. Quando Rosselli arrivò a Parigi, Berneri era ormai scappato dall’Italia da più di tre anni. Il 25 aprile del ’26 aveva infatti inviato, da Ventimiglia, una cartolina all’amico Cesare Zaccaria: quella fu la sua ultima traccia in Italia. <288
[NOTE]
187 ACS, DPP, FM pacco 124, fascicolo 5. Nota Consolato Generale d’Italia di Nizza, 21/11/1936
188 ACS, DPP, pacco 50, fascicolo 1. Relazione informatore C20/67, 25/10/1936.
202 Questa lettera anonima, intercettata dalla polizia, risale al maggio del 1933. Citata in: Un’emigrazione economica, in: “Storia e Dossier…” cit., p. 9.
205 Guelfo Benvenuti. Lettere di un fuoruscito operaio, Comune di Pisa, Pisa 1989, pp. 35-36.
226 ACS, CPC b. 4194, f. 57714 Raffaelli Giuseppe. Verbale interrogatorio presso la Prefettura di Massa, 24/01/1943.
288 Citato in: De Maria, op. cit., p. 31.

Enrico Acciai, Viaggio attraverso l’antifascismo. Volontariato internazionale e guerra civile spagnola: la Sezione Italiana della Colonna Ascaso, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia di Viterbo, 2010 

Nel marzo del 1939 Martini si recò a Nizza: aveva appuntamento alla frontiera in località Ponte San Luigi con i propri genitori che non vedeva da circa tre anni. Riuscì ad incontrarli grazie alla cortesia del Commissario italiano di frontiera e di quello francese: rimasero insieme circa due ore e fu l’ultima occasione in cui vide sua madre, che morì due anni dopo.
Giuliano Pajetta, venuto a conoscenza del viaggio di Martino nel sud della Francia, gli affidò alcuni incarichi di partito: partecipare a delle riunioni a Villeurbane (Lione), a Tolone, Nizza ed in altre città del Midi.
Eva Pavone, I Martini, una famiglia di antifascisti, QF. Quaderni di Farestoria, Anno XVI - N. 2, maggio-agosto 2014

giovedì 2 giugno 2022

Ventimiglia (IM): presentazione del libro di Renato Erasmo


Ventimiglia (IM), Civica Biblioteca, Piazzetta Bassi, 1

Giovedì 9 giugno 2022   - ore 17

 Presentazione del libro

       "Il silenzio di Rocco"

di Renato Erasmo

Intervengono Corrado Ramella, Lorenzo Trucchi, Adriano Maini




Si allegano, altresì, alcune immagini riferite al corteo sindacale unitario che ebbe luogo in Ventimiglia (IM) mercoledì 19 novembre 1969  per lo sciopero generale nazionale sulla casa,  un evento centrale di quell'"Autunno Caldo", ormai entrato nella Storia. Questo non solo per evidente riferimento alle tematiche sottese all'incontro pubblico in questione, ma anche perché - singolare coincidenza - sull'automobile che la apriva a guidare con il microfono la manifestazione c'era un giovane Lorenzo Trucchi, all'epoca segretario della Camera del Lavoro della città di confine, che sarà presente, come preannunciato, alla illustrazione del documento in parola.

mercoledì 1 giugno 2022

E si raggiungeva anche qui la mulattiera di San Giovanni

San Giovanni, Frazione di Sanremo (IM): Chiesa di San Giovanni Battista

Uno scorcio di San Giovanni

Sempre la zona di San Giovanni allo stato attuale

Ne La strada di San Giovanni un narratore ormai adulto rievoca il paesaggio della Liguria di Ponente fra la fine degli anni Venti e l'inizio del decennio successivo. La voce del narratore recupera lo sguardo del bambino che s'affaccia dal balcone della dimora di famiglia situata «a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a frontiera fra due continenti». «In su» attende il mondo naturale delle alture collinose di San Giovanni «tra muri a secco e pali di vigne», mentre «in giù» s'apre un paesaggio di mare e di case affastellate. A San Giovanni, località dell'entroterra che sovrasta Sanremo, i Calvino erano proprietari di una «campagna» racchiusa in una valle dove l'avanzata della modernità ancora non era giunta. Tuttavia è il mondo in basso ad attirare l'attenzione del bambino: «il porto non si vedeva, nascosto dall'orlo dei tetti delle case alte di piazza Sardi e piazza Bresca, e ne affiorava solo la striscia del molo e le teste delle alberature e dei battelli; e anche le vie erano nascoste e mai riuscivo a far coincidere la loro topografia con quella dei tetti, tanto irriconoscibili mi apparivano di quassù proporzioni e prospettive».
Dall'alto appaiono le sagome della città marittima, un intreccio di linee e superfici senza profondità dove una distesa irregolare di tetti preclude la cognizione del reticolato interno delle vie. San Remo appare come un collage di figure accostate l'una contro l'altra: «là il campanile di San Siro, la cupola a piramide del teatro comunale Principe Amedeo, qua la torre di ferro dell'antica fabbrica d'ascensori Gazzano […], le mansarde della cosiddetta «casa parigina», un palazzo d'appartamenti d'affitto». L'occhio inquieto dell'osservatore immobile percorre dal basso verso l'alto il digradare del territorio: «al di là si levava, come una quinta, […] la riva di Porta Candelieri, […] e s'aggrappava la vecchia casbah della Pigna, grigia e porosa come un osso dissotterrato, con segmenti neri catramati o gialli e cespi d'erba, sormontata […] da un giardino pubblico ben ordinato e un po' triste, che saliva con le sue siepi e spalliere la collina: fino al ballo d'un dopolavoro montato su palafitte, al palazzotto del vecchio ospedale, al santuario settecentesco della Madonna della Costa, dalla dominante mole azzurra». (RR III, pp. 8-9).
[...] Ne La strada di San Giovanni ogni mattina d'estate il figlio accompagna il padre sino alla campagna per contribuire ai lavori campestri. Il ricordo segue le svolte della strada che porta «in su»: «si usciva nella scalinata di Salita San Pietro, a ciottoli e mattoni», «percorrevamo un tratto di carrozzabile» e «si andava fino al ponte di Baragallo in una periferia mezzo campestre ma già presa d'assalto dalla città», i due poi lasciano la carrozzabile e costeggiano un torrente, salendo su per «luoghi più raccolti e familiari» (RR III, pp. 16-18). L'ultimo tratto del sentiero è in piano e sotto si apre la valle che accoglie «la campagna»: Poi la mulattiera s'addentrava verso San Giovanni per un bel tratto in piano; il mare, era alle nostre spalle; di là dal torrente la riva di Tasciaire era squarciata da un lungo e vasto dirupo, prodotto da un'antica frana, azzurro nella pietra scheggiata color terra. Da una certa svolta in poi già si vedeva in fondo alla valle aprirsi di sbieco la valletta di San Giovanni, nitida da poterla distinguere fascia per fascia - dove gli olivi non annuvolavano la vista -, e chi vi lavorava, e il fumo dai tetti rossi dei casoni». (RR III, p. 19).
«Di fascia in fascia» il territorio è sezionato in diversi livelli che procedono ordinati fino al fondovalle. Il nitore delle linee contrasta con il verde sfumato degli ulivi e i tetti mostrano un colore acceso. Lo sguardo dall'alto dà forma a un paesaggio screziato da una quiete laboriosa. Non appena l'osservatore abbandona la sua immobilità e riprende la marcia per addentrarsi nella campagna, le immagini si dissolvono: «mi toccherebbe qui di raccontare ancora ogni passo e ogni gesto e ogni mutamento d'umore all'interno del podere, ma tutto ora nella memoria prende una piega più imprecisa, come se, finita la salita con il suo rosario di immagini, io venissi ogni volta assorbito in una specie di limbo attonito». L'avvicinamento non comporta un incremento di conoscenza, ma induce un senso di smarrimento ed estraneità. Lo stordimento «durava finché non veniva l'ora di dare mano alle ceste e riprendere la strada per tornare» (RR III, p. 21): l'osservatore non può configurare un'immagine dall'interno del paesaggio.
[...] Se il paesaggio è una apparizione spirituale e intangibile, allora si comprende meglio perché a San Giovanni le immagini si corrodono e svaniscono non appena il giovane protagonista fa il suo ingresso nella campagna: la visione unitaria del luogo dipende dal distacco d'un soggetto che osserva da un punto situato in alto, altrove o al di fuori.
[...] Il signor Palomar osserva Roma dall'alto del suo terrazzo e l'impressione ricevuta ricorda la descrizione di San Remo ne La strada di San Giovanni: «che là sotto, incassate, esistano delle vie e delle piazze, che il vero suolo sia quello a livello del suolo, lui lo sa in base ad altre esperienze; ora come ora, da quel che vede di quassù, non potrebbe sospettarlo». (RR II, p. 919). I profondi meandri della città non sono conoscibili, la forma urbana traspare «in questo sali e scendi di tetti, tegole vecchie e nuove, coppi ed embrici, comignoli esili e tarchiati, pergole di cannucce e tettoie d'eternit ondulata, ringhiere, balaustre, pilastrini che reggono vasi, serbatoi d'acqua in lamiera, abbaini, lucernari di vetro, e su ogni cosa s'innalza l'alberatura delle antenne televisive, dritte o storte, smaltate o arrugginite, in modelli di generazioni successive, variamente ramificate e cornute e schermate, ma tutte magre come
scheletri e inquietanti come totem». (RR II, pp. 919-920).
Come nel panorama della città marittima le figure sono giustapposte l'una accanto all'altra in una densa proliferazione di forme che si stringono sulla pagina. «Di quassù» appare la vera immagine della «crosta terrestre», ineguale e frastagliata, ma «compatta, anche se solcata da fratture non si sa quanto profonde, crepacci o pozzi o crateri, i cui orli in prospettiva appaiono ravvicinati come scaglie di una pigna». E nemmeno ha senso immaginare che cosa nasconda la profondità perché «già tanto ricca e varia è la vista in superficie che basta e avanza a saturare la mente di informazioni e significati».
Francesco Migliaccio, Il luogo dello sguardo. Paesaggio e scrittura in Calvino, Celati e Biamonti, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Torino, Anno accademico 2014/2015


Il racconto di Italo Calvino che qui pubblichiamo in anteprima,
La strada di San Giovanni, fa parte di un volume che porta lo stesso titolo e che raccoglie cinque esercizi di memoria scritti tra il 1962 e il 1977 e comparsi in ordine sparso su riviste, giornali, volumi collettanei.
"[...] e non so bene se sto parlando di un' età in cui non uscivo mai dal giardino o d' una età in cui scappavo sempre fuori in giro, perché ora le due età si sono fuse in una, e questa età è una cosa sola con i luoghi, che non sono più luoghi né nulla, il porto non si vedeva, nascosto dall' orlo dei tetti delle case alte di piazza Sardi e piazza Bresca, e ne affiorava solo la striscia del molo e le teste delle alberature dei battelli; e anche le vie erano nascoste e mai riuscivo a far coincidere la loro topografia con quella dei tetti, tanto irriconoscibili mi apparivano di quassù proporzioni e prospettive: là il campanile di San Siro, la cupola a piramide del teatro comunale Principe Amedeo, qua la torre di ferro dell'antica fabbrica d'ascensori Gazzano (i nomi, ora che le cose non esistono più, si impongono insostituibili e perentori sulla pagina per essere salvati), le mansarde della cosiddetta casa parigina, un palazzo d'appartamenti  d' affitto, proprietà di cugini nostri, che a quel tempo (ora mi fermo verso il '30) era un avamposto isolato delle lontane metropoli finito sul dirupo del torrente San Francesco... Al di là si levava, come una quinta, il torrente era nascosto giù in fondo, con le canne, le lavandaie, il lerciume dei rifiuti sotto il ponte del Roglio, la riva di Porta Candelieri, dov' era uno scosceso terreno ortivo allora di nostra proprietà, e s'aggrappava la vecchia casbah della Pigna, grigia e porosa come un osso dissotterrato, con segmenti neri catramati o gialli e cespi d'erba, sormontata al posto del quartiere di San Costanzo, distrutto dal terremoto dell'87 da un giardino pubblico ben ordinato e un po' triste, che saliva con le sue siepi e spalliere la collina: fino al ballo d' un dopolavoro montato su palafitte, al palazzotto del vecchio ospedale, al santuario settecentesco della Madonna della Costa, dalla dominante mole azzurra. Richiami di madri, canti di ragazze o di beoni, secondo l'ora e il giorno, si staccavano da queste pendici sopraurbane, e calavano sul nostro giardino, chiari attraverso un cielo di silenzio; mentre chiusa tra le scaglie rosse dei tetti la città confusamente suonava i suoi sferragli di tram e di martelli, e la tromba solitaria nel cortile della caserma De Sonnaz, e il ronzio della segheria Bestagno, e a Natale la musica delle giostre alla marina. Ogni suono, ogni figura rimandava ad altri, più presentiti che uditi o veduti, e così via. Anche la strada di mio padre portava lontano. Lui del mondo vedeva solo le piante e ciò che aveva attinenza con le piante, e di ogni pianta diceva ad alta voce il nome, nel latino assurdo dei botanici, e il luogo di provenienza la sua passione era stata per tutta la sua vita quella di conoscere e acclimatare piante esotiche e il nome volgare, se ce n'era uno, in spagnolo o in inglese o nel nostro dialetto, e in questo nominare le piante metteva la passione di dar fondo a un universo senza fine, di spingersi ogni volta alle frontiere estreme d' una genealogia vegetale, e da ogni ramo o foglia o nervatura aprirsi una via come fluviale, nella linfa, nella rete che copre la verde terra. E il coltivare, perché questa era anche la sua passione, la sua prima passione, anzi, nel coltivare la nostra campagna di San Giovanni, là egli andava tutte le mattine uscendo per la porta del beudo con il cane, mezz' ora di strada a piedi del suo passo, quasi tutta in salita, metteva un' ansia perpetua come non tanto il far rendere quei pochi ettari gli stesse a cuore, ma il fare quanto poteva per portare avanti un compito della natura che aveva bisogno dell' aiuto umano, coltivare tutto il coltivabile, porsi come anello d' una storia che continua, dal seme, dalla talea da trapianto, dalla marza da innesto fino al fiore al frutto alla pianta e via di nuovo senza principio e senza termine nello stretto confine della terra (il podere o il pianeta). [...] Capite come le nostre strade divergevano, quella di mio padre e la mia. Ma anch io, cos'era la strada che cercavo se non la stessa di mio padre scavata nel folto d'un'altra estraneità, nel sopramondo (o inferno) umano, cosa cercavo con lo sguardo negli androni male illuminati nella notte (l'ombra d'una donna, a volte, vi spariva) se non la porta socchiusa, lo schermo del cinematografo da attraversare, la pagina da voltare che immette in un mondo dove tutte le parole e le figure diventassero vere, presenti, esperienza mia, non più l'eco di un'eco di un'eco? Parlarci era difficile. Entrambi d'indole verbosa, posseduti da un mare di parole, insieme restavamo muti, camminavamo in silenzio a fianco a fianco per la strada di San Giovanni. Per mio padre le parole dovevano servire da conferma alle cose, e da segno di possesso; per me erano previsioni di cose intraviste appena, non possedute, presunte. Il vocabolario di mio padre si dilatava nell' interminabile catalogo dei generi, delle specie, delle varietà del regno vegetale ogni nome era una differenza colta nella densa compattezza della foresta, la fiducia d'avere così allargato il dominio dell' uomo e nella terminologia tecnica, dove l'esattezza della parola accompagna lo sforzo d' esattezza dell'operazione, del gesto. E tutta questa nomenclatura babelica s'impastava in un fondo idiomatico altrettanto babelico, cui concorrevano lingue diverse, mescolate secondo i bisogni e i ricordi [...] Dovevamo accompagnare nostro padre a San Giovanni a turno, una mattina io e una mattina mio fratello (non in tempo di scuola, perché allora nostra madre non permetteva che fossimo distratti, ma nei mesi delle vacanze, proprio quando avremmo potuto dormire fino a tardi), e aiutarlo a portare a casa le ceste di frutta e di verdura. (Parlo di quando eravamo già più grandi, giovinetti, e nostro padre vecchio; ma l'età di nostro padre pareva sempre uguale, tra i sessanta e i settanta, un'accanita infaticabile vecchiaia). Estate e inverno, lui si alzava alle cinque, si vestiva rumorosamente dei suoi panni di campagna, s' allacciava i gambali (vestiva sempre pesante, in qualunque stagione portava giacca e gilè, soprattutto perché gli servivano moltissime tasche per le varie forbici da potare e coltelli da innesto e matasse di spago o di raffia che aveva sempre con sé; solo d'estate al posto della cacciatora di fustagno e del berretto a visiera col passamontagna metteva una tenuta di tela gialla sbiadita dei tempi del Messico e un casco coloniale da cacciatore di leoni), entrava in camera nostra per svegliarci, con bruschi richiami e scuotendoci per un braccio, poi scendeva le scale con le suole chiodate sui gradini di marmo, girava per la casa deserta (nostra madre s'alzava alle sei, poi nostra nonna, e per ultime la cameriera e la cuoca), apriva le finestre della cucina, faceva scaldare il caffelatte per sé, la zuppa per il cane, parlava col cane, preparava le ceste da portare a San Giovanni vuote, o con dentro sacchi di semente o d' insetticida o di concime (i rumori ci arrivavano attutiti nella semincoscienza, perché dopo la sveglia di nostro padre eravamo ripiombati di colpo nel sonno), e già apriva l'uscio del beudo, era in strada, tossendo e scatarrando, estate e inverno. Al nostro dovere mattutino eravamo riusciti a strappare una tacita dilazione: anziché accompagnarlo finivamo per raggiungere nostro padre a San Giovanni, mezz' ora o un' ora dopo, cosicché i suoi passi che s'allontanavano per la salita di San Pietro erano il segno che ancora ci restava un rottame di sonno cui aggrapparci. Ma subito veniva a darci una seconda sveglia nostra madre. Su, su, è tardi, babbo è già andato da un pezzo!, e apriva le finestre sulle palme mosse dal vento del mattino, ci tirava le coperte, Su, su, che babbo vi aspetta per portare le ceste! (No, non è la voce di mia madre che ritorna, in queste pagine risuonanti della rumorosa e lontana presenza paterna, ma un suo dominio silenzioso: la sua figura si affaccia tra queste righe, poi subito si ritrae, resta nel margine; ecco che è passata nella nostra stanza, non l'abbiamo sentita uscire, ed il sonno è finito per sempre). Devo alzarmi in fretta, salire fino a San Giovanni prima che mio padre si sia messo sulla strada del ritorno, carico. Tornava sempre carico. Era un punto d'onore per lui non fare mai il viaggio a mani vuote. E poiché per San Giovanni non passava la carrozzabile non c'era altro modo di portar giù i prodotti della campagna che a forza di braccia, (di braccia nostre, perché le ore dei giornalieri costano e non si possono buttar via, e le donne quando vanno al mercato sono già cariche della roba da vendere). [...] (Che la vita fosse anche spreco, questo mia madre non l'ammetteva: cioè che fosse anche passione. Perciò non usciva mai dal giardino etichettato pianta per pianta, dalla casa tappezzata di bouganvillea, dallo studio col microscopio sotto la campana di vetro e gli erbari. Senza incertezze, ordinata, trasformava le passioni in doveri e ne viveva. Ma ciò che muoveva mio padre ogni mattina su per la strada di San Giovanni e me giù per la mia via più che dovere di proprietario operoso, disinteresse d'innovatore di metodi agricoli, e per me, più che le definizioni di doveri che via via mi sarei imposto, era passione feroce, dolore a esistere cosa se non questo poteva spingere lui a arrampicarsi per i gerbidi e i boschi e me a addentrarmi in labirinto di muri e carta scritta? confronto disperato con ciò che resta fuori di noi, spreco di sé opposto allo spreco generale del mondo). Mio padre non faceva mai risparmio di forze, ma solo di tempo: non evitava la salita più erta se era la più breve. A San Giovanni da casa nostra si poteva arrivare in molti modi a seconda di quali tratti di mulattiera e scorciatoie e ponti si sceglievano: il percorso che mio padre seguiva era certamente frutto d'una prolungata esperienza e di miglioramenti e rettifiche successive; ma ormai era diventato come le scale di casa, un seguito di passi da compiersi a occhi chiusi, che nel pensiero occupano solo l' intervallo d'un secondo, come se l'impazienza abolisse lo spazio e la fatica. Bastava pensasse: 'Ora vado a San Giovanni' (aveva ricordato a un tratto che una fascia di topinambur non era stata irrigata, che un semenzaio di melanzane doveva già mostrare le prime foglie), e già si sentiva trasportato lì, già la sgridata ai manenti o ai giornalieri che gli ribolliva dentro prorompeva dal petto in una valanga d'improperi a uomini e donne, dove l'oscenità aveva perso ogni calore di complicità ed era divenuta austera e squadrata come un muro di pietra. "Prìncipi caduti in rovina". Questa impazienza, quest'insofferenza a trovarsi altrove che nella sua campagna, lo prendeva talvolta anche a mezzo della giornata, quand'era già disceso dalla solita ispezione mattutina a San Giovanni e s'era cambiato con i vestiti da città, il colletto duro, il gilè con la catena d'argento, in testa il fez rosso, comprato in Tripolitania, che teneva in casa e in ufficio per riparare la testa calva, e a un tratto, in mezzo ad altre faccende, gli veniva in mente perché sempre il pensiero che l'occupava era quello d'un lavoro di San Giovanni non portato a termine o non eseguito come si doveva o d'un operario che per mancanza d'ordini forse stava in ozio, ed ecco lo vedevamo levarsi dalla scrivania, salire in camera sua, scendere bardato di tutto punto dal casco ai gambali, slegare il cane e prendere per la porta del beudo, magari nell'ora più calda d'un pomeriggio estivo, guardando fisso davanti a sé, in mezzo al sole. Dal beudo si usciva nella scalinata di Salita San Pietro, a ciottoli e mattoni. Vi si incontravano i vecchi dell'Ospizio Giovanni Marsaglia, col berretto grigio e le iniziali rosse, (tra loro, si sapeva, erano anche principi russi caduti in rovina, lord che avevano scialacquato patrimoni in Riviera), le monache e le bambine in fila delle colonie milanesi, i parenti dei malati che salivano al Nuovo Ospedale. [...] Così si andava fino al ponte di Baragallo in una periferia mezzo campestre ma già presa d' assalto dalla città, dove alle tracce della vita agricola più antica (un vecchio frantoio d'olive, che scrosciava acqua e muschio sulle ruote arrugginite; una cantina con le tine e i torchi, violacea), si affiancavano garages, magazzeni di fioristi, segherie, depositi di mattoni, una centrale elettrica tutta vetrate che incombeva illuminata vuota e ronzante nelle mattine avanti l'alba, e là in fondo il massiccio parallelepipedo delle case popolari, primo e unico lotto d'un progettato villaggio, opera del Regime iniziata di slancio e rimasta senza seguito, ma sufficiente a ricordare che la civiltà delle masse già occupava l'Europa. Al ponte di Baragallo lasciavamo la carrozzabile che continuava verso la Madonna della Costa (là passavamo soltanto quando si andava a trovare lo zio Quirino detto Titin, nella casa ottocentesca dei Calvino che affiorava col vecchio intonaco rosa dalla nuvola grigia degli olivi in cima alla collina, dove erano state le fornaci di mattoni dei miei bisavoli), e si costeggiava il torrente. Qualche cosa era cambiato all'improvviso, e il primo segno era questo: che fino a Baragallo la gente che s'incontrava era come sempre la gente per la strada che nemmeno ci si guarda; dopo Baragallo incontrandosi tutti si salutavano, anche tra sconosciuti, con una Bona ad alta voce o con un' espressione generica di riconoscimento dell'esistenza altrui come: Andamu andamu o Semu careghi, ancoei, o un commento al tempo che fa, Mi digu ch'a va a cioeve, messaggi di riguardo e amicizia pieni di discrezione, pronunciati com' erano senza fermarsi, quasi tra sé, alzando appena gli occhi. Anche mio padre dopo Baragallo cambiava, smetteva quell'impazienza nervosa nel passo che aveva mostrato fin lì, quella scontentezza nello sgridare il cane, nel dargli strattoni se lo teneva alla catena; ora il suo sguardo correva attorno più sereno, il cane di solito veniva slegato, ed ammonito con parole e fischi e schiocchi più bonari e quasi affettuosi. Questo senso di ritrovarmi in luoghi più raccolti e familiari prendeva me pure, ma sentivo insieme anche il disagio di non potermi più credere il passante anonimo della carrozzabile; di qui in poi ero u fiu du prufessù sottoposto al giudizio di tutti gli occhi altrui. "Un lungo e vasto dirupo". Oltre un assito si scontravano strillando i maiali (vista insolita da noi) allevati da una famiglia di piemontesi che avevano messo su una cascina come nei paesi loro. (Già per via avevamo incontrato il carro col vecchio Spirito a cassetta che andava a consegnare i bidoni del latte ai clienti). Dall'altro lato la strada dava sul torrente scosceso, e affacciate a una specie di parapetto-canale c'era la fila delle donne che lavavano i panni. Più in là si poteva scegliere tra due strade, a seconda se si riattraversava o no il torrente su un antico ponte a schiena d'asino. Non passando il ponte, si prendeva per certi tratti di beudo e scorciatoie fiancheggianti fasce coltivate, e si raggiungeva la mulattiera di San Giovanni attraverso una salita a gradini, recente di costruzione (o riattamento) che andava su così diritta ed assolata ed era erta da mozzare il fiato. (Dopo quest' ultima guerra, una mano aveva scritto su di un muro in cima alla salita in enormi lettere di catrame una parola laida, a scherno della pazienza e del sudore di chi va su carico, forse per risvegliare un istinto di ribellione, o solo per chiedere conferma alla propria mancanza di speranze). Poi la mulattiera s'addentrava verso San Giovanni per un bel tratto in piano; il mare era alle nostre spalle; di là dal torrente la riva di Tasciaire era squarciata da un lungo e vasto dirupo, prodotto da un'antica frana, azzurro nella pietra scheggiata e color terra. Da una certa svolta in poi già si vedeva in fondo alla valle aprirsi di sbieco la valletta di San Giovanni, nitida da poterla distinguere fascia per fascia dove gli olivi non annuvolavano la vista e chi vi lavorava, e il fumo dai tetti rossi dei casoni. Questo percorso era preferito per la discesa; salendo eravamo più attratti dall' altro: passato il ponte, la salita era quella della mulattiera di Tasciaire, ripida e soleggiata anch'essa, ma ritorta e varia, e selciata di vecchie pietre logore e sbilenche, da apparire in confronto comoda e familiare. Ci se ne distaccava a un certo punto per inoltrarsi in un lungo beudo che percorreva a mezza costa la vallata, ai piedi di quell' enorme dirupo che si vedeva dall' altra riva. Il beudo era sopraelevato sulle fasce e per non mettere un piede in fallo bisognava guardare bene ai propri passi e talvolta appoggiare una mano al muro storto e panciuto. Il cane di solito trovava la sua via sicura nel canaletto, zampettando nell'acqua. Alberi di fico sporgevano qua e là dalle fasce e un'ombra verde proteggeva il beudo; alcuni casolari ne erano proprio a ridosso e camminando quasi ci si entrava dentro, mescolandosi alle vite di quelle famiglie, tutti sul lavoro dall'alba, donne e uomini e ragazzi a rivoltare la terra della fascia a sordi colpi di magaiu (il bidente a tre becchi), o, sempre col magaiu, facendo girar l'acqua nel loro, cioè abbattendo i rincalzi di terra del beudo e ribadendone altri per condurre il rivolo a serpeggiare in mezzo ai semenzai. Più in là il beudo si perdeva in una macchia di canne fitte e fruscianti, ed eravamo arrivati al torrente. Occorreva guadarlo, con salti a zig-zag tra gli scogli bianchi, secondo un disegno a noi ben noto ma sempre soggetto a cambiamenti, quando le giornate piovose ingrossavano la corrente e facevano sparire qualche appoggio. Risalendo dal torrente si tagliava per passaggi privati, tra le fasce, fino a una scorciatoia che era un mezzo torrente anch'essa, e si raggiungeva anche qui la mulattiera di San Giovanni, ma in un punto molto più avanti che per l'altra via. Mio padre, più ci avvicinavamo a San Giovanni, più era preso da una nuova tensione, che non era solo un ultimo scatto dell'impazienza di trovarsi nel solo luogo che sentiva suo, ma anche come il rimorso d'esserne stato per tante ore lontano, la certezza che in quelle ore qualcosa si fosse perso e guastato, l'urgenza di cancellare tutto quello che nella sua vita non era San Giovanni, e insieme il senso che San Giovanni, non essendo tutto il mondo ma solo un angolo del mondo assediato dal resto, sarebbe stato sempre la sua disperazione. Ma bastava che dall'alto d'una fascia qualcuno che poteva o che dava il solfato alle viti lo interpellasse: Prufessù, pe' piaxè, a vureiva faghe ina dumanda, e gli chiedesse un consiglio sulle miscele dei concimi, sull'epoca migliore per gli innesti, sugli insetticidi o le sementi nuove del consorzio agrario, e mio padre, rasserenato, calmo, esclamativo, un po' verboso, si fermava a spiegargli il perché e il percome. Insomma, non aspettava altro che il segno che in questo suo mondo fosse possibile una convivenza civile, mossa da una passione di miglioramento, guidata da una ragione naturale; ma subito tornavano a stringerlo da vicino le prove di come tutto fosse insidiato e precario e lo riprendeva la furia. E uno di questi segni ero io, il mio appartenere all'altra parte del mondo, metropolitana e nemica, era il dolore che questa sua ideale civiltà di San Giovanni non la si poteva fondare con i suoi figli e fosse per ciò senza un futuro. [...] Il petto di mio padre ansava non di fatica ma d' improperi e rimproveri: eravamo arrivati a San Giovanni, ora entravamo nel nostro. "Litigio di balzi e latrati" Mi toccherebbe qui di raccontare ancora ogni passo e ogni gesto e ogni mutamento d' umore all'interno del podere, ma tutto ora nella memoria prende una piega più imprecisa, come se, finita la salita col suo rosario di immagini, io venissi ogni volta assorbito in una specie di limbo attonito, che durava finché non veniva l' ora di dare mano alle ceste e riprendere la strada per tornare. Ho già detto che soprattutto in questo aiutare nostro padre a portare le ceste consisteva il nostro dovere quotidiano. Ossia, avremmo dovuto aiutarlo in tutto, per imparare come si governa una campagna, per assomigliare a lui, come è giusto che i figli assomiglino al padre, ma presto s'era capito da una parte e dall'altra che non avremmo imparato niente, e l'idea di educarci all'agricoltura era stata tacitamente dimessa, o rimandata a un'età di nostra maggiore saggezza, come ci fosse concesso un supplemento d' infanzia. Quindi il portare le ceste era l'unica cosa sicura, l' unico dovere accettato come innegabilmente necessario. Non era un compito privo, direi, d'un suo piacere: ben bilanciato il carico, una gerla di vimini sulle spalle, un cesto infilato a un braccio meglio se l'altro braccio era sgombro, per alternare il peso mi davo alla strada a testa bassa, con una specie di furia, un po' come mio padre; e intanto, sgravato d'ogni dovere d'attenzione per il mondo intorno e di scelta dei miei movimenti, impegnate tutte le energie nello sforzo di reggere il carico a buon fine e nel posare i passi lungo un percorso immutabile come un binario, la mente poteva vagare libera e protetta. Ci davamo dentro in questa mansione di camallo, con un impegno sproporzionato, io, mio fratello, e lo stesso nostro padre; perché anche per lui sembrava che non fossero più tanto l'inventiva delle coltivazioni, l'esperimento, il rischio ad attirarlo, di San Giovanni, quanto il trasportare e accumulare roba, questa fatica da formiche, una questione di vita o di morte (e di fatto quasi lo era: erano cominciati gli anni interminabili della guerra; la nostra famiglia, nella generale penuria, era entrata, grazie al podere di San Giovanni, in una fase d'economia agricola indipendente o come si diceva allora autarchica), e se non c'eravamo noi ad accompagnarlo scendeva carico in maniera esagerata come un mulo era l'immagine rituale, ostentata, forse anche per farci pesare la nostra diserzione; ma pure se lo accompagnava uno dei figli o entrambi, scendevamo tutti egualmente carichi, sbilenchi, muti, guardando terra, assorti ognuno nel proprio pensiero, impenetrabili. La nostra cupezza contrastava con la ricchezza del contenuto delle ceste. Questo era nascosto (secondo l'abitudine contadina di gelosa diffidenza degli sguardi altrui) da uno strato di larghe foglie di vite o di fico, ma la copertura instabile col dondolio del passo si disperdeva per via e ne sporgevano le trombe verdi degli zucchini, le pere coscia di monaca, i grappoli d'uva Saint-Jeannet, i fichifiori, la peluria dura del chayote, le spine verdiviola dei carciofi, le pannocchie di mais dulce o sweet corn da sgranocchiare bollite, le patate, i pomodori, i bottiglioni del latte e del vino, e alle volte uno stecchito coniglio già scuoiato, il tutto disposto in modo che le cose dure non ammaccassero le molli, e vi restasse il posto per il cespo d'origano o di maggiorana o di basilico. (Insignificanti allora queste ceste ai miei occhi distratti, come sempre al giovane appaiono banali le basi materiali della vita, e invece, adesso che al loro posto c'è soltanto un liscio foglio di carta bianca, cerco di riempirle di nomi e nomi, stiparle di vocaboli, e spendo nel ricordare e ordinare questa nomenclatura più tempo di quanto non facessi per raccogliere e ordinare le cose, più passione... non è vero: credevo mettendomi a descrivere le ceste di toccare il punto culminante del mio rimpianto, invece niente, ne è uscito un elenco freddo e previsto: invano cerco di accendergli dietro un alone di commozione con queste frasi di commento: tutto rimane come allora, quelle ceste erano già morte allora e lo sapevo, parvenza d'una concretezza che non esisteva già più, e io ero già quello che sono, un cittadino delle città e della storia ancora senza città né storia e di ciò sofferente, un consumatore e vittima dei prodotti dell'industria candidato consumatore, vittima appena designata, e già le sorti, tutte le sorti erano decise, le nostre e quelle generali, però cos'era questo rovello mattutino di allora, il rovello che ancora continua in queste pagine non completamente sincere? Forse tutto avrebbe potuto essere diverso, non molto diverso ma quel tanto che conta se quelle ceste non mi fossero state già talmente estranee, se il crepaccio tra me e mio padre non fosse stato così fondo? Forse tutto quello che sta avvenendo avrebbe preso un'altra china, nel mondo, nella storia della civiltà, le perdite non sarebbero state così assolute, i guadagni così incerti?). "Le bianche capre svizzere" La tavola dove si posava la frutta e la verdura e si riempivano le ceste da portare giù, era sotto il fico, a fianco dell' antico casolare di Cadorso, (dove viveva la famiglia dei manenti) con ancora la traccia sbiadita, sopra la porta, del simbolo massonico che i vecchi Calvino mettevano sulle loro case. La vigna occupava la parte più bassa della campagna, con le piante da frutto tra i filari; più in su era la piantagione dei grape-fruit, e sopra ancora gli ulivi. Là, all'ombra delle verdi alte piante degli avogado-pears o aguacate, pupilla degli occhi di mio padre, era la casa costruita da lui, la villa in cui vivemmo poi i tempi più brutti della guerrra; con a pianterreno la cantina modello e la stalla per le bianche capre svizzere. La nostra proprietà s'interrompeva sulla piazza della chiesa di San Giovanni (dove ogni 24 di giugno si drizzava l'albero della cuccagna e suonava la banda civica) e riprendeva dopo un tratto di mulattiera, comprendendo tutta una valletta, occupata nella parte più bassa da una piantagione di foglie di palma per corone da morto, più in su tutta a verdura e frutta, col casolare detto Cason Bianco (dove tenemmo per un certo tempo le pecore), e una sorgente nascosta tra rocce verdi di capelvenere, e una caverna di tufo, e una grotta di roccia, e una peschiera, e altre meraviglie che non erano più per me meraviglie, e ora lo sono ritornate, ora che al posto di tutto questo si estende squallida geometrica e feroce una piantagione di garofani con i muri squadrati, le terrazze tutte con la stessa inclinazione, la distesa grigia degli steli nel reticolato di stecchi e fili, le opache vetrate delle serre, le vasche di cemento cilindriche, e tutto quello che c' era prima è scomparso, tutto quello che pareva ci fosse e già non era che un' illusione o un eccezionale rinvio. La vallata di San Giovanni, in ombra durante parte del giorno, era a quel tempo considerata inadatta alle colture industriali di fiori e perciò aveva ancora l'aspetto antico della campagna. [...] Dove grida mio padre di portare la manica e dar l'acqua, che c'è tutto secco? Da una fascia viene il suono del bidente del vecchio Sciaguato che batte e ribatte nella terra. Qualcosa si muove su quegli alberi: la figlia di Mumina s'è arrampicata per riempire un cesto di ciliege. Io accorro con la gomma arrotolata sulla spalla, ma non vedo mio padre tra i filari e sbaglio fascia. Devo portare il gancio per piegare i rami del ciliegio, la macchina del solfato, il nastro adesivo per gli innesti, ma non conosco la mia terra, mi perdo. (Ora sì, dall'alto degli anni, vedo ogni fascia, ogni sentiero, ora potrei indicare la strada a me che corro tra i filari, ma è tardi, ormai tutti se ne sono andati). Vorrei che fossero pronte subito le ceste, per tornare a casa e andare al mare. Il mare è lì, in uno spacco triangolare della valle, a vu; ma è come se fosse miglia e miglia lontano, il mare estraneo a mio padre e a tutta la gente che si muove per le nostre strade mattutine. Ora stiamo tornando. Io cammino curvo sotto la mia gerla. Il sole è alto; dalla carrozzabile più vicina, sulla collina di San Giacomo, romba un camion; qui nella valle il grigio degli olivi e il fruscio del torrente smorzano i colori e i suoni. Sull'altro versante sale dalla terra un fumo: qualcuno ha acceso un debbio. Mio padre dice cose sulla mignolatura degli olivi. Io non ascolto. Guardo il mare e penso che tra un'ora sarò alla spiaggia. Alla spiaggia le ragazze lanciano palloni con le braccia lisce, si tuffano nel luccichio, gridano, schizzano, su tanti sandolini e pedalò".
Italo Calvino
Redazione, La strada di San Giovanni, la Repubblica, 18 maggio 1990 
 
In questa lettura de 'La strada di San Giovanni' - la prosa del 1962 che dà il titolo alla raccolta di scritti apparsa postuma nel 1990 <1 - la questione della natura del recupero memoriale nella declinazione calviniana viene indagata a partire dalla sua natura fondamentalmente descrittiva, tesa a privilegiare i luoghi: lo spazio - più che il tempo - sembra infatti rappresentare la cifra personale della memoria per Calvino, «uno degli scrittori più “visuali” della nostra letteratura» <2.
'La strada di San Giovanni' è un testo dedicato al paesaggio ligure, che viene ricostruito attraverso il racconto del rapporto col padre condotto nell’ambito di una ricerca continua della memoria <3.
[...] Ne 'La strada di San Giovanni' il percorso è innanzitutto metafora di un processo di avvicinamento-allontanamento (dal padre, dalla giovinezza, dalla memoria), modo per salvare ciò che non esiste più. La sua descrizione vera e propria inizia circa a metà del testo: «A San Giovanni da casa nostra si poteva arrivare in molti modi...» <28. Condotta con dovizia di particolari, essa serve a ricreare nei suoi tratti non banali né scontati un ambiente umano, antropologico oltre che naturale:
"parlando di cose noi descriviamo anche sempre paesaggi umani; parliamo, anche senza volerlo, di rapporti tra uomini, cioè tra entità che si costituiscono, per quel che ne sappiamo, dentro una rete di scambi, di comunicazione, di interazioni, che è anch’essa fatta di cose materiali e in continuo mutamento" <29. Per via si potevano infatti incontrare i vecchi dell’Ospizio Giovanni Marsaglia (si noti, anche qui, la cura per il dettaglio preciso, per il nome che, evocato, potrebbe dare accesso a una delle camere della memoria), le monache, le bambine in fila delle colonie milanesi, i parenti dei malati che salivano al Nuovo Ospedale... su su, fino ad una umanità che poco ha a che fare con la realtà cittadina di Sanremo: quei contadini che, «incontrandosi...si salutavano, anche tra sconosciuti... con un’espressione generica di riconoscimento dell’esistenza altrui» <30.
[...] Nel corso di questa lettura si è più volte fatto riferimento, oltre che ai contenuti della descrizione e alle sue finalità, alle modalità e agli strumenti con cui il ricordo è ri-attivabile (l’atto del nominare, la tendenza a descrivere dettagliatamente gli oggetti ...). La questione del “modo” in cui si descrive - una delle questioni di fondo della sua produzione - è stata esplicitamente affrontata da Calvino all’interno di un breve scritto del 1985 dal titolo 'Ipotesi di descrizione di un paesaggio' <33.
[NOTE]
1 La raccolta include cinque testi - sorta di “esercizi di memoria” - indicati da Calvino in un appunto autografo dal titolo 'Passaggi obbligati'. Il primo, quello che dà il titolo al volume, era apparso per la prima volta in «Questo e altro» (numero 1 del 1962).
2 MARCO BELPOLITI, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996, p. X.
3 Calvino apre così la prosa intitolata 'Ricordo di una battaglia': «Non è vero che non ricordo più niente, i ricordi sono ancora là, nascosti nel grigio gomitolo del cervello, nell’umido letto di sabbia che si deposita nel fondo del torrente dei pensieri [...]. Da anni non ho più smosso questi ricordi, rintanati come anguille nelle pozze della memoria» (in ITALO CALVINO, La strada di San Giovanni, Milano, Mondadori («Oscar»), 2002, p. 59).
28 ITALO CALVINO, La strada di San Giovanni, cit., p. 16.
29 GIUSEPPE DEMATTEIS, Dal Marco Polo di Italo Calvino al linguaggio delle cose nella geografia d’oggi, in Italo Calvino la letteratura, la scienza, la città, Atti del Convegno nazionale di studi di Sanremo (28-29 novembre 1986), a cura di Giorgio Bertone, Genova, Marietti, 1988, pp. 94-100, cit. da p. 98.
30 ITALO CALVINO, La strada di San Giovanni, cit., p. 19.
33 ITALO CALVINO, Ipotesi di descrizione di un paesaggio, in AA.VV, Esplorazioni sulla via Emilia. Scritture nel paesaggio, Milano, Feltrinelli, 1986, pp. 11-12

Lucinda Spera, Memoria dei luoghi e luoghi della memoria nelle pagine autobiografiche di Italo Calvino in Tempo e memoria nella lingua e nella letteratura italiana - Atti del XVII Congresso A.I.P.I. Ascoli Piceno, 22-26 agosto 2006 - Vol. IV: Poesia, autobiografia, cultura, Associazione Internazionale Professori d'Italiano, 2009

Si trattava di quei «luoghi» e di quella «proprietà» che fino a quel momento avevano lasciato indifferente l'adolescente Calvino, quando il padre lo trascinava con sé nelle sue sortite mattutine verso il podere di San Giovanni, lungo un itinerario in salita che partiva dalla porta della cucina e si inoltrava all'interno di un paesaggio agli antipodi rispetto a quello che per il padre rappresentava soltanto un'estranea e insignificante «appendice», rispetto al percorso in discesa che dall'ingresso principale di Villa Meridiana scendeva verso la città e il suo lungomare: «per me il mondo, la carta del pianeta andava da casa nostra in giù, il resto era spazio bianco, senza significato; i segni del futuro mi aspettavo di decifrarli laggiù». <28
E invece la guerra, con il suo «mutamento ambientale» e il conseguente «cambiamento d'orizzonti» che la scelta partigiana aveva reso necessariamente consapevole, lo aveva portato a uscire dalla stessa porta del padre per andare a decifrare i «segni del futuro» lungo quegli stessi itinerari nelle campagne e nei «boschi dell’entroterra» che il padre, «vecchio instancabile cacciatore», <29 conosceva «palmo a palmo» ed entro i quali andava «battendo vallata per vallata la montagna giorni e notti, dormendo in quei rudimentali essicatoi per castagne, costruiti di sassi e rami […] fino in Piemonte, fino in Francia, senza mai uscire dal bosco». <30
[NOTE]
28 La strada di San Giovanni, in CALVINO, Romanzi e racconti, III, cit., p. 7 (ma già pubblicato nel 1962, anno di composizione, sul n. 1 di «Questo e altro» e nel volume I maestri del racconto italiano, a cura di Elio Pagliarani e Walter Pedullà, Rizzoli, Milano, 1964).
29 Come lo aveva definito Calvino nel questionario per «Il Caffè», IV, 1, gennaio 1956 (CALVINO, Saggi, cit., II, p. 2709).
30 ID., Romanzi e racconti, cit., III, p. 10.

Alessandro Ottaviani, «Qualcosa di gelosamente mio»: paesaggi della Resistenza nella narrativa di Italo Calvino in (a cura di) Giannino Balbis e Valter Boggione, Pavese, Fenoglio, Calvino: il mestiere di vivere, il mestiere di scrivere - Atti del convegno, Liceo Calasanzio di Carcare (SV), 4 e 5 aprile 2014 -, Matisklo Edizioni, 2015