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Uno scorcio di San Giovanni
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Sempre la zona di San Giovanni allo stato attuale
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Ne
La strada di San Giovanni un narratore ormai adulto rievoca il paesaggio della Liguria di Ponente fra la fine degli anni Venti e l'inizio del decennio successivo. La voce del narratore recupera lo sguardo del bambino che s'affaccia dal balcone della dimora di famiglia situata «a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a frontiera fra due continenti». «In su» attende il mondo naturale delle alture collinose di San Giovanni «tra muri a secco e pali di vigne», mentre «in giù» s'apre un paesaggio di mare e di case affastellate. A San Giovanni, località dell'entroterra che sovrasta Sanremo, i Calvino erano proprietari di una «campagna» racchiusa in una valle dove l'avanzata della modernità ancora non era giunta. Tuttavia è il mondo in basso ad attirare l'attenzione del bambino: «il porto non si vedeva, nascosto dall'orlo dei tetti delle case alte di piazza Sardi e piazza Bresca, e ne affiorava solo la striscia del molo e le teste delle alberature e dei battelli; e anche le vie erano nascoste e mai riuscivo a far coincidere la loro topografia con quella dei tetti, tanto irriconoscibili mi apparivano di quassù proporzioni e prospettive».
Dall'alto appaiono le sagome della città marittima, un intreccio di linee e superfici senza profondità dove una distesa irregolare di tetti preclude la cognizione del reticolato interno delle vie. San Remo appare come un collage di figure accostate l'una contro l'altra: «là il campanile di San Siro, la cupola a piramide del teatro comunale Principe Amedeo, qua la torre di ferro dell'antica fabbrica d'ascensori Gazzano […], le mansarde della cosiddetta «casa parigina», un palazzo d'appartamenti d'affitto». L'occhio inquieto dell'osservatore immobile percorre dal basso verso l'alto il digradare del territorio: «al di là si levava, come una quinta, […] la riva di Porta Candelieri, […] e s'aggrappava la vecchia casbah della Pigna, grigia e porosa come un osso dissotterrato, con segmenti neri catramati o gialli e cespi d'erba, sormontata […] da un giardino pubblico ben ordinato e un po' triste, che saliva con le sue siepi e spalliere la collina: fino al ballo d'un dopolavoro montato su palafitte, al palazzotto del vecchio ospedale, al santuario settecentesco della Madonna della Costa, dalla dominante mole azzurra». (RR III, pp. 8-9).
[...] Ne
La strada di San Giovanni ogni mattina d'estate il figlio accompagna il padre sino alla campagna per contribuire ai lavori campestri. Il ricordo segue le svolte della strada che porta «in su»: «si usciva nella scalinata di Salita San Pietro, a ciottoli e mattoni», «percorrevamo un tratto di carrozzabile» e «si andava fino al ponte di Baragallo in una periferia mezzo campestre ma già presa d'assalto dalla città», i due poi lasciano la carrozzabile e costeggiano un torrente, salendo su per «luoghi più raccolti e familiari» (RR III, pp. 16-18). L'ultimo tratto del sentiero è in piano e sotto si apre la valle che accoglie «la campagna»: Poi la mulattiera s'addentrava verso San Giovanni per un bel tratto in piano; il mare, era alle nostre spalle; di là dal torrente la riva di Tasciaire era squarciata da un lungo e vasto dirupo, prodotto da un'antica frana, azzurro nella pietra scheggiata color terra. Da una certa svolta in poi già si vedeva in fondo alla valle aprirsi di sbieco la valletta di San Giovanni, nitida da poterla distinguere fascia per fascia - dove gli olivi non annuvolavano la vista -, e chi vi lavorava, e il fumo dai tetti rossi dei casoni». (RR III, p. 19).
«Di fascia in fascia» il territorio è sezionato in diversi livelli che procedono ordinati fino al fondovalle. Il nitore delle linee contrasta con il verde sfumato degli ulivi e i tetti mostrano un colore acceso. Lo sguardo dall'alto dà forma a un paesaggio screziato da una quiete laboriosa. Non appena l'osservatore abbandona la sua immobilità e riprende la marcia per addentrarsi nella campagna, le immagini si dissolvono: «mi toccherebbe qui di raccontare ancora ogni passo e ogni gesto e ogni mutamento d'umore all'interno del podere, ma tutto ora nella memoria prende una piega più imprecisa, come se, finita la salita con il suo rosario di immagini, io venissi ogni volta assorbito in una specie di limbo attonito». L'avvicinamento non comporta un incremento di conoscenza, ma induce un senso di smarrimento ed estraneità. Lo stordimento «durava finché non veniva l'ora di dare mano alle ceste e riprendere la strada per tornare» (RR III, p. 21): l'osservatore non può configurare un'immagine dall'interno del paesaggio.
[...] Se il paesaggio è una apparizione spirituale e intangibile, allora si comprende meglio perché a San Giovanni le immagini si corrodono e svaniscono non appena il giovane protagonista fa il suo ingresso nella campagna: la visione unitaria del luogo dipende dal distacco d'un soggetto che osserva da un punto situato in alto, altrove o al di fuori.
[...] Il signor Palomar osserva Roma dall'alto del suo terrazzo e l'impressione ricevuta ricorda la descrizione di San Remo ne
La strada di San Giovanni: «che là sotto, incassate, esistano delle vie e delle piazze, che il vero suolo sia quello a livello del suolo, lui lo sa in base ad altre esperienze; ora come ora, da quel che vede di quassù, non potrebbe sospettarlo». (RR II, p. 919). I profondi meandri della città non sono conoscibili, la forma urbana traspare «in questo sali e scendi di tetti, tegole vecchie e nuove, coppi ed embrici, comignoli esili e tarchiati, pergole di cannucce e tettoie d'eternit ondulata, ringhiere, balaustre, pilastrini che reggono vasi, serbatoi d'acqua in lamiera, abbaini, lucernari di vetro, e su ogni cosa s'innalza l'alberatura delle antenne televisive, dritte o storte, smaltate o arrugginite, in modelli di generazioni successive, variamente ramificate e cornute e schermate, ma tutte magre come
scheletri e inquietanti come totem». (RR II, pp. 919-920).
Come nel panorama della città marittima le figure sono giustapposte l'una accanto all'altra in una densa proliferazione di forme che si stringono sulla pagina. «Di quassù» appare la vera immagine della «crosta terrestre», ineguale e frastagliata, ma «compatta, anche se solcata da fratture non si sa quanto profonde, crepacci o pozzi o crateri, i cui orli in prospettiva appaiono ravvicinati come scaglie di una pigna». E nemmeno ha senso immaginare che cosa nasconda la profondità perché «già tanto ricca e varia è la vista in superficie che basta e avanza a saturare la mente di informazioni e significati».
Francesco Migliaccio, Il luogo dello sguardo. Paesaggio e scrittura in Calvino, Celati e Biamonti, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Torino, Anno accademico 2014/2015
Il racconto di Italo Calvino che qui pubblichiamo in anteprima, La strada di San Giovanni
, fa parte di un volume che porta lo stesso titolo e che raccoglie cinque esercizi di memoria scritti tra il 1962 e il 1977 e comparsi in ordine sparso su riviste, giornali, volumi collettanei. "[...] e non so bene se sto parlando di un' età in cui non uscivo mai dal giardino o d' una età in cui scappavo sempre fuori in giro, perché ora le due età si sono fuse in una, e questa età è una cosa sola con i luoghi, che non sono più luoghi né nulla, il porto non si vedeva, nascosto dall' orlo dei tetti delle case alte di piazza Sardi e piazza Bresca, e ne affiorava solo la striscia del molo e le teste delle alberature dei battelli; e anche le vie erano nascoste e mai riuscivo a far coincidere la loro topografia con quella dei tetti, tanto irriconoscibili mi apparivano di quassù proporzioni e prospettive: là il campanile di San Siro, la cupola a piramide del teatro comunale Principe Amedeo, qua la torre di ferro dell'antica fabbrica d'ascensori Gazzano (i nomi, ora che le cose non esistono più, si impongono insostituibili e perentori sulla pagina per essere salvati), le mansarde della cosiddetta casa parigina, un palazzo d'appartamenti d' affitto, proprietà di cugini nostri, che a quel tempo (ora mi fermo verso il '30) era un avamposto isolato delle lontane metropoli finito sul dirupo del torrente San Francesco... Al di là si levava, come una quinta, il torrente era nascosto giù in fondo, con le canne, le lavandaie, il lerciume dei rifiuti sotto il ponte del Roglio, la riva di Porta Candelieri, dov' era uno scosceso terreno ortivo allora di nostra proprietà, e s'aggrappava la vecchia casbah della Pigna, grigia e porosa come un osso dissotterrato, con segmenti neri catramati o gialli e cespi d'erba, sormontata al posto del quartiere di San Costanzo, distrutto dal terremoto dell'87 da un giardino pubblico ben ordinato e un po' triste, che saliva con le sue siepi e spalliere la collina: fino al ballo d' un dopolavoro montato su palafitte, al palazzotto del vecchio ospedale, al santuario settecentesco della Madonna della Costa, dalla dominante mole azzurra. Richiami di madri, canti di ragazze o di beoni, secondo l'ora e il giorno, si staccavano da queste pendici sopraurbane, e calavano sul nostro giardino, chiari attraverso un cielo di silenzio; mentre chiusa tra le scaglie rosse dei tetti la città confusamente suonava i suoi sferragli di tram e di martelli, e la tromba solitaria nel cortile della caserma De Sonnaz, e il ronzio della segheria Bestagno, e a Natale la musica delle giostre alla marina. Ogni suono, ogni figura rimandava ad altri, più presentiti che uditi o veduti, e così via. Anche la strada di mio padre portava lontano. Lui del mondo vedeva solo le piante e ciò che aveva attinenza con le piante, e di ogni pianta diceva ad alta voce il nome, nel latino assurdo dei botanici, e il luogo di provenienza la sua passione era stata per tutta la sua vita quella di conoscere e acclimatare piante esotiche e il nome volgare, se ce n'era uno, in spagnolo o in inglese o nel nostro dialetto, e in questo nominare le piante metteva la passione di dar fondo a un universo senza fine, di spingersi ogni volta alle frontiere estreme d' una genealogia vegetale, e da ogni ramo o foglia o nervatura aprirsi una via come fluviale, nella linfa, nella rete che copre la verde terra. E il coltivare, perché questa era anche la sua passione, la sua prima passione, anzi, nel coltivare la nostra campagna di San Giovanni, là egli andava tutte le mattine uscendo per la porta del beudo con il cane, mezz' ora di strada a piedi del suo passo, quasi tutta in salita, metteva un' ansia perpetua come non tanto il far rendere quei pochi ettari gli stesse a cuore, ma il fare quanto poteva per portare avanti un compito della natura che aveva bisogno dell' aiuto umano, coltivare tutto il coltivabile, porsi come anello d' una storia che continua, dal seme, dalla talea da trapianto, dalla marza da innesto fino al fiore al frutto alla pianta e via di nuovo senza principio e senza termine nello stretto confine della terra (il podere o il pianeta). [...] Capite come le nostre strade divergevano, quella di mio padre e la mia. Ma anch io, cos'era la strada che cercavo se non la stessa di mio padre scavata nel folto d'un'altra estraneità, nel sopramondo (o inferno) umano, cosa cercavo con lo sguardo negli androni male illuminati nella notte (l'ombra d'una donna, a volte, vi spariva) se non la porta socchiusa, lo schermo del cinematografo da attraversare, la pagina da voltare che immette in un mondo dove tutte le parole e le figure diventassero vere, presenti, esperienza mia, non più l'eco di un'eco di un'eco? Parlarci era difficile. Entrambi d'indole verbosa, posseduti da un mare di parole, insieme restavamo muti, camminavamo in silenzio a fianco a fianco per la strada di San Giovanni. Per mio padre le parole dovevano servire da conferma alle cose, e da segno di possesso; per me erano previsioni di cose intraviste appena, non possedute, presunte. Il vocabolario di mio padre si dilatava nell' interminabile catalogo dei generi, delle specie, delle varietà del regno vegetale ogni nome era una differenza colta nella densa compattezza della foresta, la fiducia d'avere così allargato il dominio dell' uomo e nella terminologia tecnica, dove l'esattezza della parola accompagna lo sforzo d' esattezza dell'operazione, del gesto. E tutta questa nomenclatura babelica s'impastava in un fondo idiomatico altrettanto babelico, cui concorrevano lingue diverse, mescolate secondo i bisogni e i ricordi [...] Dovevamo accompagnare nostro padre a San Giovanni a turno, una mattina io e una mattina mio fratello (non in tempo di scuola, perché allora nostra madre non permetteva che fossimo distratti, ma nei mesi delle vacanze, proprio quando avremmo potuto dormire fino a tardi), e aiutarlo a portare a casa le ceste di frutta e di verdura. (Parlo di quando eravamo già più grandi, giovinetti, e nostro padre vecchio; ma l'età di nostro padre pareva sempre uguale, tra i sessanta e i settanta, un'accanita infaticabile vecchiaia). Estate e inverno, lui si alzava alle cinque, si vestiva rumorosamente dei suoi panni di campagna, s' allacciava i gambali (vestiva sempre pesante, in qualunque stagione portava giacca e gilè, soprattutto perché gli servivano moltissime tasche per le varie forbici da potare e coltelli da innesto e matasse di spago o di raffia che aveva sempre con sé; solo d'estate al posto della cacciatora di fustagno e del berretto a visiera col passamontagna metteva una tenuta di tela gialla sbiadita dei tempi del Messico e un casco coloniale da cacciatore di leoni), entrava in camera nostra per svegliarci, con bruschi richiami e scuotendoci per un braccio, poi scendeva le scale con le suole chiodate sui gradini di marmo, girava per la casa deserta (nostra madre s'alzava alle sei, poi nostra nonna, e per ultime la cameriera e la cuoca), apriva le finestre della cucina, faceva scaldare il caffelatte per sé, la zuppa per il cane, parlava col cane, preparava le ceste da portare a San Giovanni vuote, o con dentro sacchi di semente o d' insetticida o di concime (i rumori ci arrivavano attutiti nella semincoscienza, perché dopo la sveglia di nostro padre eravamo ripiombati di colpo nel sonno), e già apriva l'uscio del beudo, era in strada, tossendo e scatarrando, estate e inverno. Al nostro dovere mattutino eravamo riusciti a strappare una tacita dilazione: anziché accompagnarlo finivamo per raggiungere nostro padre a San Giovanni, mezz' ora o un' ora dopo, cosicché i suoi passi che s'allontanavano per la salita di San Pietro erano il segno che ancora ci restava un rottame di sonno cui aggrapparci. Ma subito veniva a darci una seconda sveglia nostra madre. Su, su, è tardi, babbo è già andato da un pezzo!, e apriva le finestre sulle palme mosse dal vento del mattino, ci tirava le coperte, Su, su, che babbo vi aspetta per portare le ceste! (No, non è la voce di mia madre che ritorna, in queste pagine risuonanti della rumorosa e lontana presenza paterna, ma un suo dominio silenzioso: la sua figura si affaccia tra queste righe, poi subito si ritrae, resta nel margine; ecco che è passata nella nostra stanza, non l'abbiamo sentita uscire, ed il sonno è finito per sempre). Devo alzarmi in fretta, salire fino a San Giovanni prima che mio padre si sia messo sulla strada del ritorno, carico. Tornava sempre carico. Era un punto d'onore per lui non fare mai il viaggio a mani vuote. E poiché per San Giovanni non passava la carrozzabile non c'era altro modo di portar giù i prodotti della campagna che a forza di braccia, (di braccia nostre, perché le ore dei giornalieri costano e non si possono buttar via, e le donne quando vanno al mercato sono già cariche della roba da vendere). [...] (Che la vita fosse anche spreco, questo mia madre non l'ammetteva: cioè che fosse anche passione. Perciò non usciva mai dal giardino etichettato pianta per pianta, dalla casa tappezzata di bouganvillea, dallo studio col microscopio sotto la campana di vetro e gli erbari. Senza incertezze, ordinata, trasformava le passioni in doveri e ne viveva. Ma ciò che muoveva mio padre ogni mattina su per la strada di San Giovanni e me giù per la mia via più che dovere di proprietario operoso, disinteresse d'innovatore di metodi agricoli, e per me, più che le definizioni di doveri che via via mi sarei imposto, era passione feroce, dolore a esistere cosa se non questo poteva spingere lui a arrampicarsi per i gerbidi e i boschi e me a addentrarmi in labirinto di muri e carta scritta? confronto disperato con ciò che resta fuori di noi, spreco di sé opposto allo spreco generale del mondo). Mio padre non faceva mai risparmio di forze, ma solo di tempo: non evitava la salita più erta se era la più breve. A San Giovanni da casa nostra si poteva arrivare in molti modi a seconda di quali tratti di mulattiera e scorciatoie e ponti si sceglievano: il percorso che mio padre seguiva era certamente frutto d'una prolungata esperienza e di miglioramenti e rettifiche successive; ma ormai era diventato come le scale di casa, un seguito di passi da compiersi a occhi chiusi, che nel pensiero occupano solo l' intervallo d'un secondo, come se l'impazienza abolisse lo spazio e la fatica. Bastava pensasse: 'Ora vado a San Giovanni' (aveva ricordato a un tratto che una fascia di topinambur non era stata irrigata, che un semenzaio di melanzane doveva già mostrare le prime foglie), e già si sentiva trasportato lì, già la sgridata ai manenti o ai giornalieri che gli ribolliva dentro prorompeva dal petto in una valanga d'improperi a uomini e donne, dove l'oscenità aveva perso ogni calore di complicità ed era divenuta austera e squadrata come un muro di pietra. "Prìncipi caduti in rovina". Questa impazienza, quest'insofferenza a trovarsi altrove che nella sua campagna, lo prendeva talvolta anche a mezzo della giornata, quand'era già disceso dalla solita ispezione mattutina a San Giovanni e s'era cambiato con i vestiti da città, il colletto duro, il gilè con la catena d'argento, in testa il fez rosso, comprato in Tripolitania, che teneva in casa e in ufficio per riparare la testa calva, e a un tratto, in mezzo ad altre faccende, gli veniva in mente perché sempre il pensiero che l'occupava era quello d'un lavoro di San Giovanni non portato a termine o non eseguito come si doveva o d'un operario che per mancanza d'ordini forse stava in ozio, ed ecco lo vedevamo levarsi dalla scrivania, salire in camera sua, scendere bardato di tutto punto dal casco ai gambali, slegare il cane e prendere per la porta del beudo, magari nell'ora più calda d'un pomeriggio estivo, guardando fisso davanti a sé, in mezzo al sole. Dal beudo si usciva nella scalinata di Salita San Pietro, a ciottoli e mattoni. Vi si incontravano i vecchi dell'Ospizio Giovanni Marsaglia, col berretto grigio e le iniziali rosse, (tra loro, si sapeva, erano anche principi russi caduti in rovina, lord che avevano scialacquato patrimoni in Riviera), le monache e le bambine in fila delle colonie milanesi, i parenti dei malati che salivano al Nuovo Ospedale. [...] Così si andava fino al ponte di Baragallo in una periferia mezzo campestre ma già presa d' assalto dalla città, dove alle tracce della vita agricola più antica (un vecchio frantoio d'olive, che scrosciava acqua e muschio sulle ruote arrugginite; una cantina con le tine e i torchi, violacea), si affiancavano garages, magazzeni di fioristi, segherie, depositi di mattoni, una centrale elettrica tutta vetrate che incombeva illuminata vuota e ronzante nelle mattine avanti l'alba, e là in fondo il massiccio parallelepipedo delle case popolari, primo e unico lotto d'un progettato villaggio, opera del Regime iniziata di slancio e rimasta senza seguito, ma sufficiente a ricordare che la civiltà delle masse già occupava l'Europa. Al ponte di Baragallo lasciavamo la carrozzabile che continuava verso la Madonna della Costa (là passavamo soltanto quando si andava a trovare lo zio Quirino detto Titin, nella casa ottocentesca dei Calvino che affiorava col vecchio intonaco rosa dalla nuvola grigia degli olivi in cima alla collina, dove erano state le fornaci di mattoni dei miei bisavoli), e si costeggiava il torrente. Qualche cosa era cambiato all'improvviso, e il primo segno era questo: che fino a Baragallo la gente che s'incontrava era come sempre la gente per la strada che nemmeno ci si guarda; dopo Baragallo incontrandosi tutti si salutavano, anche tra sconosciuti, con una
Bona ad alta voce o con un' espressione generica di riconoscimento dell'esistenza altrui come:
Andamu andamu o
Semu careghi, ancoei, o un commento al tempo che fa,
Mi digu ch'a va a cioeve, messaggi di riguardo e amicizia pieni di discrezione, pronunciati com' erano senza fermarsi, quasi tra sé, alzando appena gli occhi. Anche mio padre dopo Baragallo cambiava, smetteva quell'impazienza nervosa nel passo che aveva mostrato fin lì, quella scontentezza nello sgridare il cane, nel dargli strattoni se lo teneva alla catena; ora il suo sguardo correva attorno più sereno, il cane di solito veniva slegato, ed ammonito con parole e fischi e schiocchi più bonari e quasi affettuosi. Questo senso di ritrovarmi in luoghi più raccolti e familiari prendeva me pure, ma sentivo insieme anche il disagio di non potermi più credere il passante anonimo della carrozzabile; di qui in poi ero
u fiu du prufessù sottoposto al giudizio di tutti gli occhi altrui. "Un lungo e vasto dirupo". Oltre un assito si scontravano strillando i maiali (vista insolita da noi) allevati da una famiglia di piemontesi che avevano messo su una cascina come nei paesi loro. (Già per via avevamo incontrato il carro col vecchio
Spirito a cassetta che andava a consegnare i bidoni del latte ai clienti). Dall'altro lato la strada dava sul torrente scosceso, e affacciate a una specie di parapetto-canale c'era la fila delle donne che lavavano i panni. Più in là si poteva scegliere tra due strade, a seconda se si riattraversava o no il torrente su un antico ponte a schiena d'asino. Non passando il ponte, si prendeva per certi tratti di beudo e scorciatoie fiancheggianti fasce coltivate, e si raggiungeva la mulattiera di San Giovanni attraverso una salita a gradini, recente di costruzione (o riattamento) che andava su così diritta ed assolata ed era erta da mozzare il fiato. (Dopo quest' ultima guerra, una mano aveva scritto su di un muro in cima alla salita in enormi lettere di catrame una parola laida, a scherno della pazienza e del sudore di chi va su carico, forse per risvegliare un istinto di ribellione, o solo per chiedere conferma alla propria mancanza di speranze). Poi la mulattiera s'addentrava verso San Giovanni per un bel tratto in piano; il mare era alle nostre spalle; di là dal torrente la riva di Tasciaire era squarciata da un lungo e vasto dirupo, prodotto da un'antica frana, azzurro nella pietra scheggiata e color terra. Da una certa svolta in poi già si vedeva in fondo alla valle aprirsi di sbieco la valletta di San Giovanni, nitida da poterla distinguere fascia per fascia dove gli olivi non annuvolavano la vista e chi vi lavorava, e il fumo dai tetti rossi dei casoni. Questo percorso era preferito per la discesa; salendo eravamo più attratti dall' altro: passato il ponte, la salita era quella della mulattiera di Tasciaire, ripida e soleggiata anch'essa, ma ritorta e varia, e selciata di vecchie pietre logore e sbilenche, da apparire in confronto comoda e familiare. Ci se ne distaccava a un certo punto per inoltrarsi in un lungo beudo che percorreva a mezza costa la vallata, ai piedi di quell' enorme dirupo che si vedeva dall' altra riva. Il beudo era sopraelevato sulle fasce e per non mettere un piede in fallo bisognava guardare bene ai propri passi e talvolta appoggiare una mano al muro storto e panciuto. Il cane di solito trovava la sua via sicura nel canaletto, zampettando nell'acqua. Alberi di fico sporgevano qua e là dalle fasce e un'ombra verde proteggeva il beudo; alcuni casolari ne erano proprio a ridosso e camminando quasi ci si entrava dentro, mescolandosi alle vite di quelle famiglie, tutti sul lavoro dall'alba, donne e uomini e ragazzi a rivoltare la terra della fascia a sordi colpi di
magaiu (il bidente a tre becchi), o, sempre col
magaiu, facendo girar l'acqua nel loro, cioè abbattendo i rincalzi di terra del beudo e ribadendone altri per condurre il rivolo a serpeggiare in mezzo ai semenzai. Più in là il beudo si perdeva in una macchia di canne fitte e fruscianti, ed eravamo arrivati al torrente. Occorreva guadarlo, con salti a zig-zag tra gli scogli bianchi, secondo un disegno a noi ben noto ma sempre soggetto a cambiamenti, quando le giornate piovose ingrossavano la corrente e facevano sparire qualche appoggio. Risalendo dal torrente si tagliava per passaggi privati, tra le fasce, fino a una scorciatoia che era un mezzo torrente anch'essa, e si raggiungeva anche qui la mulattiera di San Giovanni, ma in un punto molto più avanti che per l'altra via. Mio padre, più ci avvicinavamo a San Giovanni, più era preso da una nuova tensione, che non era solo un ultimo scatto dell'impazienza di trovarsi nel solo luogo che sentiva suo, ma anche come il rimorso d'esserne stato per tante ore lontano, la certezza che in quelle ore qualcosa si fosse perso e guastato, l'urgenza di cancellare tutto quello che nella sua vita non era San Giovanni, e insieme il senso che San Giovanni, non essendo tutto il mondo ma solo un angolo del mondo assediato dal resto, sarebbe stato sempre la sua disperazione. Ma bastava che dall'alto d'una fascia qualcuno che poteva o che dava il solfato alle viti lo interpellasse:
Prufessù, pe' piaxè, a vureiva faghe ina dumanda, e gli chiedesse un consiglio sulle miscele dei concimi, sull'epoca migliore per gli innesti, sugli insetticidi o le sementi nuove del consorzio agrario, e mio padre, rasserenato, calmo, esclamativo, un po' verboso, si fermava a spiegargli il perché e il percome. Insomma, non aspettava altro che il segno che in questo suo mondo fosse possibile una convivenza civile, mossa da una passione di miglioramento, guidata da una ragione naturale; ma subito tornavano a stringerlo da vicino le prove di come tutto fosse insidiato e precario e lo riprendeva la furia. E uno di questi segni ero io, il mio appartenere all'altra parte del mondo, metropolitana e nemica, era il dolore che questa sua ideale civiltà di San Giovanni non la si poteva fondare con i suoi figli e fosse per ciò senza un futuro. [...] Il petto di mio padre ansava non di fatica ma d' improperi e rimproveri: eravamo arrivati a San Giovanni, ora entravamo nel nostro. "Litigio di balzi e latrati" Mi toccherebbe qui di raccontare ancora ogni passo e ogni gesto e ogni mutamento d' umore all'interno del podere, ma tutto ora nella memoria prende una piega più imprecisa, come se, finita la salita col suo rosario di immagini, io venissi ogni volta assorbito in una specie di limbo attonito, che durava finché non veniva l' ora di dare mano alle ceste e riprendere la strada per tornare. Ho già detto che soprattutto in questo aiutare nostro padre a portare le ceste consisteva il nostro dovere quotidiano. Ossia, avremmo dovuto aiutarlo in tutto, per imparare come si governa una campagna, per assomigliare a lui, come è giusto che i figli assomiglino al padre, ma presto s'era capito da una parte e dall'altra che non avremmo imparato niente, e l'idea di educarci all'agricoltura era stata tacitamente dimessa, o rimandata a un'età di nostra maggiore saggezza, come ci fosse concesso un supplemento d' infanzia. Quindi il portare le ceste era l'unica cosa sicura, l' unico dovere accettato come innegabilmente necessario. Non era un compito privo, direi, d'un suo piacere: ben bilanciato il carico, una gerla di vimini sulle spalle, un cesto infilato a un braccio meglio se l'altro braccio era sgombro, per alternare il peso mi davo alla strada a testa bassa, con una specie di furia, un po' come mio padre; e intanto, sgravato d'ogni dovere d'attenzione per il mondo intorno e di scelta dei miei movimenti, impegnate tutte le energie nello sforzo di reggere il carico a buon fine e nel posare i passi lungo un percorso immutabile come un binario, la mente poteva vagare libera e protetta. Ci davamo dentro in questa mansione di camallo, con un impegno sproporzionato, io, mio fratello, e lo stesso nostro padre; perché anche per lui sembrava che non fossero più tanto l'inventiva delle coltivazioni, l'esperimento, il rischio ad attirarlo, di San Giovanni, quanto il trasportare e accumulare roba, questa fatica da formiche, una questione di vita o di morte (e di fatto quasi lo era: erano cominciati gli anni interminabili della guerra; la nostra famiglia, nella generale penuria, era entrata, grazie al podere di San Giovanni, in una fase d'economia agricola indipendente o come si diceva allora autarchica), e se non c'eravamo noi ad accompagnarlo scendeva carico in maniera esagerata come un mulo era l'immagine rituale, ostentata, forse anche per farci pesare la nostra diserzione; ma pure se lo accompagnava uno dei figli o entrambi, scendevamo tutti egualmente carichi, sbilenchi, muti, guardando terra, assorti ognuno nel proprio pensiero, impenetrabili. La nostra cupezza contrastava con la ricchezza del contenuto delle ceste. Questo era nascosto (secondo l'abitudine contadina di gelosa diffidenza degli sguardi altrui) da uno strato di larghe foglie di vite o di fico, ma la copertura instabile col dondolio del passo si disperdeva per via e ne sporgevano le trombe verdi degli zucchini, le pere coscia di monaca, i grappoli d'uva Saint-Jeannet, i fichifiori, la peluria dura del chayote, le spine verdiviola dei carciofi, le pannocchie di mais dulce o sweet corn da sgranocchiare bollite, le patate, i pomodori, i bottiglioni del latte e del vino, e alle volte uno stecchito coniglio già scuoiato, il tutto disposto in modo che le cose dure non ammaccassero le molli, e vi restasse il posto per il cespo d'origano o di maggiorana o di basilico. (Insignificanti allora queste ceste ai miei occhi distratti, come sempre al giovane appaiono banali le basi materiali della vita, e invece, adesso che al loro posto c'è soltanto un liscio foglio di carta bianca, cerco di riempirle di nomi e nomi, stiparle di vocaboli, e spendo nel ricordare e ordinare questa nomenclatura più tempo di quanto non facessi per raccogliere e ordinare le cose, più passione... non è vero: credevo mettendomi a descrivere le ceste di toccare il punto culminante del mio rimpianto, invece niente, ne è uscito un elenco freddo e previsto: invano cerco di accendergli dietro un alone di commozione con queste frasi di commento: tutto rimane come allora, quelle ceste erano già morte allora e lo sapevo, parvenza d'una concretezza che non esisteva già più, e io ero già quello che sono, un cittadino delle città e della storia ancora senza città né storia e di ciò sofferente, un consumatore e vittima dei prodotti dell'industria candidato consumatore, vittima appena designata, e già le sorti, tutte le sorti erano decise, le nostre e quelle generali, però cos'era questo rovello mattutino di allora, il rovello che ancora continua in queste pagine non completamente sincere? Forse tutto avrebbe potuto essere diverso, non molto diverso ma quel tanto che conta se quelle ceste non mi fossero state già talmente estranee, se il crepaccio tra me e mio padre non fosse stato così fondo? Forse tutto quello che sta avvenendo avrebbe preso un'altra china, nel mondo, nella storia della civiltà, le perdite non sarebbero state così assolute, i guadagni così incerti?). "Le bianche capre svizzere" La tavola dove si posava la frutta e la verdura e si riempivano le ceste da portare giù, era sotto il fico, a fianco dell' antico casolare di Cadorso, (dove viveva la famiglia dei manenti) con ancora la traccia sbiadita, sopra la porta, del simbolo massonico che i vecchi Calvino mettevano sulle loro case. La vigna occupava la parte più bassa della campagna, con le piante da frutto tra i filari; più in su era la piantagione dei grape-fruit, e sopra ancora gli ulivi. Là, all'ombra delle verdi alte piante degli avogado-pears o aguacate, pupilla degli occhi di mio padre, era la casa costruita da lui, la villa in cui vivemmo poi i tempi più brutti della guerrra; con a pianterreno la cantina modello e la stalla per le bianche capre svizzere. La nostra proprietà s'interrompeva sulla piazza della chiesa di San Giovanni (dove ogni 24 di giugno si drizzava l'albero della cuccagna e suonava la banda civica) e riprendeva dopo un tratto di mulattiera, comprendendo tutta una valletta, occupata nella parte più bassa da una piantagione di foglie di palma per corone da morto, più in su tutta a verdura e frutta, col casolare detto Cason Bianco (dove tenemmo per un certo tempo le pecore), e una sorgente nascosta tra rocce verdi di capelvenere, e una caverna di tufo, e una grotta di roccia, e una peschiera, e altre meraviglie che non erano più per me meraviglie, e ora lo sono ritornate, ora che al posto di tutto questo si estende squallida geometrica e feroce una piantagione di garofani con i muri squadrati, le terrazze tutte con la stessa inclinazione, la distesa grigia degli steli nel reticolato di stecchi e fili, le opache vetrate delle serre, le vasche di cemento cilindriche, e tutto quello che c' era prima è scomparso, tutto quello che pareva ci fosse e già non era che un' illusione o un eccezionale rinvio. La vallata di San Giovanni, in ombra durante parte del giorno, era a quel tempo considerata inadatta alle colture industriali di fiori e perciò aveva ancora l'aspetto antico della campagna. [...] Dove grida mio padre di portare la manica e dar l'acqua, che c'è tutto secco? Da una fascia viene il suono del bidente del vecchio Sciaguato che batte e ribatte nella terra. Qualcosa si muove su quegli alberi: la figlia di Mumina s'è arrampicata per riempire un cesto di ciliege. Io accorro con la gomma arrotolata sulla spalla, ma non vedo mio padre tra i filari e sbaglio fascia. Devo portare il gancio per piegare i rami del ciliegio, la macchina del solfato, il nastro adesivo per gli innesti, ma non conosco la mia terra, mi perdo. (Ora sì, dall'alto degli anni, vedo ogni fascia, ogni sentiero, ora potrei indicare la strada a me che corro tra i filari, ma è tardi, ormai tutti se ne sono andati). Vorrei che fossero pronte subito le ceste, per tornare a casa e andare al mare. Il mare è lì, in uno spacco triangolare della valle, a vu; ma è come se fosse miglia e miglia lontano, il mare estraneo a mio padre e a tutta la gente che si muove per le nostre strade mattutine. Ora stiamo tornando. Io cammino curvo sotto la mia gerla. Il sole è alto; dalla carrozzabile più vicina, sulla collina di San Giacomo, romba un camion; qui nella valle il grigio degli olivi e il fruscio del torrente smorzano i colori e i suoni. Sull'altro versante sale dalla terra un fumo: qualcuno ha acceso un debbio. Mio padre dice cose sulla mignolatura degli olivi. Io non ascolto. Guardo il mare e penso che tra un'ora sarò alla spiaggia. Alla spiaggia le ragazze lanciano palloni con le braccia lisce, si tuffano nel luccichio, gridano, schizzano, su tanti sandolini e pedalò".
Italo CalvinoRedazione,
La strada di San Giovanni, la Repubblica, 18 maggio 1990
In questa lettura de 'La strada di San Giovanni' - la prosa del 1962 che dà il titolo alla raccolta di scritti apparsa postuma nel 1990 <1 - la questione della natura del recupero memoriale nella declinazione calviniana viene indagata a partire dalla sua natura fondamentalmente descrittiva, tesa a privilegiare i luoghi: lo spazio - più che il tempo - sembra infatti rappresentare la cifra personale della memoria per Calvino, «uno degli scrittori più “visuali” della nostra letteratura» <2.
'La strada di San Giovanni' è un testo dedicato al paesaggio ligure, che viene ricostruito attraverso il racconto del rapporto col padre condotto nell’ambito di una ricerca continua della memoria <3.
[...] Ne 'La strada di San Giovanni' il percorso è innanzitutto metafora di un processo di avvicinamento-allontanamento (dal padre, dalla giovinezza, dalla memoria), modo per salvare ciò che non esiste più. La sua descrizione vera e propria inizia circa a metà del testo: «A San Giovanni da casa nostra si poteva arrivare in molti modi...» <28. Condotta con dovizia di particolari, essa serve a ricreare nei suoi tratti non banali né scontati un ambiente umano, antropologico oltre che naturale:
"parlando di cose noi descriviamo anche sempre paesaggi umani; parliamo, anche senza volerlo, di rapporti tra uomini, cioè tra entità che si costituiscono, per quel che ne sappiamo, dentro una rete di scambi, di comunicazione, di interazioni, che è anch’essa fatta di cose materiali e in continuo mutamento" <29. Per via si potevano infatti incontrare i vecchi dell’Ospizio Giovanni Marsaglia (si noti, anche qui, la cura per il dettaglio preciso, per il nome che, evocato, potrebbe dare accesso a una delle camere della memoria), le monache, le bambine in fila delle colonie milanesi, i parenti dei malati che salivano al Nuovo Ospedale... su su, fino ad una umanità che poco ha a che fare con la realtà cittadina di Sanremo: quei contadini che, «incontrandosi...si salutavano, anche tra sconosciuti... con un’espressione generica di riconoscimento dell’esistenza altrui» <30.
[...] Nel corso di questa lettura si è più volte fatto riferimento, oltre che ai contenuti della descrizione e alle sue finalità, alle modalità e agli strumenti con cui il ricordo è ri-attivabile (l’atto del nominare, la tendenza a descrivere dettagliatamente gli oggetti ...). La questione del “modo” in cui si descrive - una delle questioni di fondo della sua produzione - è stata esplicitamente affrontata da Calvino all’interno di un breve scritto del 1985 dal titolo 'Ipotesi di descrizione di un paesaggio' <33.
[NOTE]
1 La raccolta include cinque testi - sorta di “esercizi di memoria” - indicati da Calvino in un appunto autografo dal titolo 'Passaggi obbligati'. Il primo, quello che dà il titolo al volume, era apparso per la prima volta in «Questo e altro» (numero 1 del 1962).
2 MARCO BELPOLITI, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996, p. X.
3 Calvino apre così la prosa intitolata 'Ricordo di una battaglia': «Non è vero che non ricordo più niente, i ricordi sono ancora là, nascosti nel grigio gomitolo del cervello, nell’umido letto di sabbia che si deposita nel fondo del torrente dei pensieri [...]. Da anni non ho più smosso questi ricordi, rintanati come anguille nelle pozze della memoria» (in ITALO CALVINO, La strada di San Giovanni, Milano, Mondadori («Oscar»), 2002, p. 59).
28 ITALO CALVINO, La strada di San Giovanni, cit., p. 16.
29 GIUSEPPE DEMATTEIS, Dal Marco Polo di Italo Calvino al linguaggio delle cose nella geografia d’oggi, in Italo Calvino la letteratura, la scienza, la città, Atti del Convegno nazionale di studi di Sanremo (28-29 novembre 1986), a cura di Giorgio Bertone, Genova, Marietti, 1988, pp. 94-100, cit. da p. 98.
30 ITALO CALVINO, La strada di San Giovanni, cit., p. 19.
33 ITALO CALVINO, Ipotesi di descrizione di un paesaggio, in AA.VV, Esplorazioni sulla via Emilia. Scritture nel paesaggio, Milano, Feltrinelli, 1986, pp. 11-12Lucinda Spera,
Memoria dei luoghi e luoghi della memoria nelle pagine autobiografiche di Italo Calvino in
Tempo e memoria nella lingua e nella letteratura italiana - Atti del XVII Congresso A.I.P.I. Ascoli Piceno, 22-26 agosto 2006 - Vol. IV: Poesia, autobiografia, cultura,
Associazione Internazionale Professori d'Italiano, 2009
Si trattava di quei «luoghi» e di quella «proprietà» che fino a quel momento avevano lasciato indifferente l'adolescente Calvino, quando il padre lo trascinava con sé nelle sue sortite mattutine verso il podere di San Giovanni, lungo un itinerario in salita che partiva dalla porta della cucina e si inoltrava all'interno di un paesaggio agli antipodi rispetto a quello che per il padre rappresentava soltanto un'estranea e insignificante «appendice», rispetto al percorso in discesa che dall'ingresso principale di Villa Meridiana scendeva verso la città e il suo lungomare: «per me il mondo, la carta del pianeta andava da casa nostra in giù, il resto era spazio bianco, senza significato; i segni del futuro mi aspettavo di decifrarli laggiù». <28
E invece la guerra, con il suo «mutamento ambientale» e il conseguente «cambiamento d'orizzonti» che la scelta partigiana aveva reso necessariamente consapevole, lo aveva portato a uscire dalla stessa porta del padre per andare a decifrare i «segni del futuro» lungo quegli stessi itinerari nelle campagne e nei «boschi dell’entroterra» che il padre, «vecchio instancabile cacciatore», <29 conosceva «palmo a palmo» ed entro i quali andava «battendo vallata per vallata la montagna giorni e notti, dormendo in quei rudimentali essicatoi per castagne, costruiti di sassi e rami […] fino in Piemonte, fino in Francia, senza mai uscire dal bosco». <30
[NOTE]
28 La strada di San Giovanni, in CALVINO, Romanzi e racconti, III, cit., p. 7 (ma già pubblicato nel 1962, anno di composizione, sul n. 1 di «Questo e altro» e nel volume I maestri del racconto italiano, a cura di Elio Pagliarani e Walter Pedullà, Rizzoli, Milano, 1964).
29 Come lo aveva definito Calvino nel questionario per «Il Caffè», IV, 1, gennaio 1956 (CALVINO, Saggi, cit., II, p. 2709).
30 ID., Romanzi e racconti, cit., III, p. 10.Alessandro Ottaviani,
«Qualcosa di gelosamente mio»: paesaggi della Resistenza nella narrativa di Italo Calvino in (a cura di) Giannino Balbis e Valter Boggione,
Pavese, Fenoglio, Calvino: il mestiere di vivere, il mestiere di scrivere - Atti del convegno, Liceo Calasanzio di Carcare (SV), 4 e 5 aprile 2014 -, Matisklo Edizioni, 2015