lunedì 18 marzo 2024

All'albergo Savoia di San Remo allestito da ospedale da campo ebbe inizio la selezione e le camionette dell'OVRA incominciarono ad avviare alle patrie galere i compagni

Sanremo (IM): l'ex Albergo Savoia

Mi chiamò il commissario il quale mi disse che gli era diventato impossibile aiutarmi anche minimamente e che era perciò indispensabile che io lasciassi la mia famiglia e l'Italia per recarmi in Francia. Si sarebbe interessato lui per farmi ottenere il passaporto e l'unico mezzo per ottenerlo era quello di portare come scusa che mi recavo in Francia per acquistare del terreno. Giunsi così a Nizza dove trovai ospitalità presso alcuni parenti di mia cognata. La famiglia era composta solo da due coniugi. Il marito era occupato presso il mercato della frutta ed io per i primi giorni lo andavo ad aiutare ma la mia aspirazione era quella di trovare un vero lavoro. Una sera sentimmo bussare e rimase felicemente sorpreso quando vidi entrare il compagno Bosco. Anche lui cercava lavoro ma lo trovò quasi subito, grazie ad un conoscente impiegato nel Principato di Monaco. Finalmente capitai anch'io su un'anima buona e il 25 aprile del 1923 fui assunto presso una ditta di riparazioni ferroviarie e tranviarie.
I primi giorni di lavoro furono terribili per me, ero circondato da un'aria ostile e nemica che non mi sapevo spiegare. Arrivato al punto di non poterne più, mi rivolsi al capo officina il quale per tutta risposta mi disse di rivolgermi ad un operaio che aveva un occhio solo il quale me lo avrebbe spiegato. Parlai con quell'uomo e la spiegazione fu che noi italiani eravamo tutti fascisti e che per noi non c'era posto in Francia. Quando però gli spiegai che il motivo del mio esilio era proprio perché ero antifascista, allora tutto cambiò, mi fissò un appuntamento per quella sera stessa fuori dalla fabbrica per recarci insieme alla Camera del Lavoro.
Qui il mio accompagnatore mi fece fare la tessera, poi mi fissò un altro appuntamento in piazza Garibaldi per le ore 21, dove mi avrebbe fatto conoscere dei compagni del PCF.
Quel giorno segnò l'inizio di una salda amicizia fra me ed i miei compagni di lavoro.
... Frattanto non perdevamo tempo ed organizzavamo frequenti manifestazioni antifasciste a Nizza, Beausoleil e Cannes. A Beausoleil i fascisti tentarono l'inaugurazione del gagliardetto, ma non fu loro possibile, anzi furono costretti dal popolo e dagli antifascisti italiani a fuggire.
Finalmente dopo tanti sacrifici fu possibile farmi raggiungere da mia moglie e da mia figlia, e ci sistemammo alla meglio in una stanza d'affitto, ammobiliata con un letto, un tavolo e due sedie, presso un ferroviere. Ma nel mese di giugno del '24, dopo l'assassinio di Matteotti, subii il primo arresto con altri compagni. Fummo però liberati dopo quattro ore per merito di altri compagni francesi che rifiutarono di lasciare il carcere senza di noi. Alla fine di novembre fui di nuovo arrestato, poi condotto alla frontiera e consegnato ai fascisti di Ventimiglia.
Lorenzo Pagliasso
Arrestato a Nizza all'inizio del '36 per delazione dell'agente provocatore Michele Lombardi la polizia francese mi aveva dato tre giorni di tempo per andarmene dalla Francia. Del mio caso si interessò la Lega dei diritti dell'uomo, ma non riuscì di ottenere il permesso di soggiorno. Arrestato fui condannato ad un mese di carcere. Con la vittoria del fronte popolare nel '36 ottenni finalmente il riconoscimento di rifugiato politico. Nel '39 mi arrestarono nuovamente e mi condannarono a sei mesi di carcere. Uscito di prigione, come al solito avevo tre giorni per lasciare il territorio francese. Sempre grazie alla Lega dei diritti dell'uomo ebbi un foglio, da rinnovare ogni mese, che mi autorizzava a rimanere.
Ciò avvenne due o tre volte, poi non me lo rinnovarono più. Il 16 novembre del '39 un commissario di polizia venne a prelevarmi. Andai in carcere in taxi in luogo del "panier à salade" che avendo fatto il giro a prendere tutti gli altri (una trentina di antifascisti di nazionalità diverse) era pieno zeppo. Dopo alcuni giorni fui avviato al famoso campo di concentramento di Vernet d'Ariège. Inizialmente non stavamo male come vitto. Poi con l'invasione del nord della Francia ebbe inizio la riduzione della razione, poi miseria e fame.
Il 10 maggio del 1941 la commissione italiana di armistizio ci venne a prelevare, fummo portati in Italia, rinchiusi in un primo tempo nel carcere di Ventimiglia e dopo un mese circa ognuno fu trasferito nel suo capoluogo di provincia. Io al carcere "Leutrum" di Cuneo.
Chiamato di fronte alla commissione per il confino di polizia dopo due mesi di carcere, mi condannarono ad un anno di confino a Ventotene.
Giuseppe Gilio
Nel luglio del 1931 un giornale svizzero in lingua tedesca pubblicava una foto con relativa didascalia di due fascisti bolognesi che avrebbero dovuto partecipare ad una gara di nuoto nella piscina dell'Eglisée sotto gli auspici del locale consolato fascista e del fascio di Basilea. In una riunione dell'Alleanza Antifascista si era discusso della cosa e si era deciso che gli appartenenti alla sezione dovevano ammassarsi all'ingresso e penetrarvi soltanto dopo che io per primo ne avessi varcato l'ingresso. Il gruppo avrebbe dovuto portarsi dietro le autorità.
Ad un mio segnale, che avrei dovuto fare stando dall'altro lato della piscina, le autorità, sospinte decisamente da dietro, avrebbero dovuto capitombolare nella vasca. Senonché più che il pregustato piacere per la beffa poté il prurito alle mani di tre antifascisti: un anarchico e due comunisti. Venendo meno agli accordi presi, prima che io arrivassi, caricarono con tutta decisione le "autorità" menando botte da orbi e facendo strage di "cimici".
Quando, all'ora stabilita giunsi all'Eglisée, me li vidi comparire in cima allo scalone con le manette ai polsi e attorniati dai gendarmi svizzeri. Impulsivo, quasi quanto loro, raggiunsi lo scalone e improvvisai un comizio. Il comizio durò poco: quattro gendarmi mi impacchettarono e ci portarono alla gendarmeria. Al posto di polizia, per prima formalità, esame delle identità da parte del commissario che mi contestò di "aver preso contatto" con la polizia di Basilea altre due volte: una prima volta il 28 settembre 1930 alla stazione di Basilea per aver arringato emigrati italiani causando la congestione del traffico e per aver preso per il bavero il vice-console italiano con il quale ero venuto a diverbio; una seconda volta per aver strappato la "cimice" ad uno studente universitario.
Nel 1934, proveniente dalla Svizzera dalla quale ero stato espulso per la mia attività antifascista, mi ero trasferito a Nizza Marittima per continuare la lotta. ... Con Tortora andavo a notte fatta sulla spianata del "Casinò de la fétée" dove erano sempre parcheggiate numerose e lussuose macchine italiane i cui proprietari giocavano, guadagnavano o perdevano e rientravano in Italia la notte stessa. Nelle connessure delle macchine incustodite, nei fusi delle ruote di scorta, in tutte le parti della carrozzeria suscettibili di ricettare manifestini, Tortora introduceva materiale di "Giustizia e Libertà", io materiale comunista. Ma un bel gioco dura poco.
Fu così che venne organizzato il lancio di manifestini antifascisti in Italia a mezzo di palloncini liberati in Francia. Venne presa in affitto una baita in prossimità della frontiera. Al proprietario venne fatto credere che doveva servire per la caccia. Parecchie grosse bombole di idrogeno, scatoloni pieni di palloncini di gomma sgonfi, fatti venire direttamente da Parigi, manifestini di propaganda della carta leggerissima e con stampa a caratteri piccoli ma chiari, furono trasportati con un furgoncino fin quasi al nostro quartier generale. Quando i palloncini sonda indicavano che il vento spirava abbastanza forte in direzione dell'Italia liberavamo numerosi palloncini gonfi di idrogeno e gravidi di volantini. Ignari della sorte che li attendeva auguravamo loro fervidamente buon viaggio e buon lavoro.
Carlo Bava
Avevamo allestito (nel campo di prigionia in Francia) il "salon" da barbiere che ci serviva da recapito per tenere i contatti e al mattino i più giovani facevano un po' di ginnastica per evitare l'abbrutimento. La precauzione era stata presa dagli anziani che pensavano già a come istituire un corso di economia politica. Per dare meno nell'occhio fecero arrivare alcune copie di grammatica francese ed i quaderni necessari. Il francese fu effettivamente studiato ma l'obiettivo più importante rimase la preparazione teorico-politica dei compagni che vi parteciparono. Gli anziani Contin, Alberganti, Benetti che avevano ben assimilato i libri di testo tenevano le lezioni. I componenti dei vari gruppi dopo aver preso appunti si riunivano e tornavano alla lezione seguente relazionando su ciò che avevano imparato. Seguiva la discussione. Frequentava il corso anche un sardo di 52 anni, zolfataro, che non sapeva nè leggere nè scrivere. Egli con una tenacia formidabile e con l'aiuto del collettivo (...) dopo cinquanta giorni scrisse la sua prima lettera alla moglie precisandole che le scriveva "di sua mano". Un particolare che mi riguardava personalmente: dopo pochi mesi di frequenza del corso mi chiesi come avevo osato tenere nel Vars decine di comizi, ignorante com'ero delle cose che stavo imparando.
Il 28 maggio 1940 fummo trasferiti nel campo di concentramento di Vernet d'Ariège per far posto ai fascisti che venivano rinchiusi sette mesi ed otto giorni dopo di noi (...).
Il 20 giugno Mussolini aggredì la Francia e l'annuncio venne dato via radio dagli altoparlanti installati nel campo dove eravamo stati radunati negli spiazzi (...) noi ascoltammo i comunicati senza battere ciglio (...) ognuno di noi, più che essere preoccupato per sè lo era per i compagni dirigenti più conosciuti e presi di mira.
Anche in questa situazione il partito ebbe la sua grande funzione dirigente. Le riunioni si facevano passeggiando in due o tre, un anziano ed uno o due giovani. Si decise che i compagni mai condannati (in Italia) dovevano tornare in Italia per fare propaganda contro il fascismo e la guerra, perché al campo la prospettiva era di essere deportati in Germania.
Venendo in Italia vi era però la via crucis della galera, il confino oppure nella migliore delle ipotesi il servizio militare in tempo di guerra e la prima linea. Mario Montagnana, che mi preparava al lavoro clandestino, alle mie preoccupazioni rispose che in guerra non tutti muoiono e quale pacchia può essere per un comunista trovarsi in mezzo a dei giovani avidi di sapere che non avevano mai sentito altro che la propaganda fascista. A Mario Montagnana piaceva il mio modo di raccontare barzellette antifasciste, di dire le cose scherzando o a doppio senso.
Questo modo di esprimere certe verità - mi aveva detto - in Italia può costare anni di galera: tu dovrai usare la verità come i medici usano il veleno in certi rimedi, se è adoperato in giusta misura il paziente guarisce se si esagera muore. Con questa differenza - aveva proseguito - che nel tuo caso se sbagli dose anziché il paziente muore il medico, e cioè tu andrai in galera o ti fucileranno ed il Partito perderà un attivista. Ebbi modo di constatare quanto fossero giuste le sue previsioni (...). Il 19 luglio partimmo in ottocento (non tutti erano compagni) in vagoni bestiame (...) dopo ventuno ore di viaggio giungemmo a Nizza occupata dai fascisti.
Costoro (...) sembravano i padroni del mondo. Ci fecero distribuire, a nome del duce naturalmente, un panino ed un quartino di vino. Poi fummo trasportati in carcere a Mentone e qui un alto ufficiale, mani sui fianchi, manco a dirlo ci chiese se qualcuno avesse a lamentare maltrattamenti subiti in campo di concentramento (...). All'albergo Savoia di San Remo allestito da ospedale da campo ebbe inizio la selezione e le camionette dell'OVRA incominciarono ad avviare alle patrie galere i compagni che erano stati segnalati.
Giuseppe Gastaldi
(a cura di) Giuseppe Biancani, Comunisti del Cuneese. Per una storia del movimento operaio della provincia di Cuneo, Cipec, quaderno n. 10

mercoledì 13 marzo 2024

Mestamente prese la via della passerella

                                                     

Ventimiglia (IM): la passerella sul Roia in oggi in gran parte distrutta da una recente piena del fiume e, pertanto, inagibile

                                                                  seguito di questo articolo


L'astio con Luigi si era ancor più accentuato qualche tempo prima, quando il giovane era stato selezionato dall'allenatore di calcio della Ventimigliese per andare a fare un provino nel nuovo campo sportivo di Peglia [zona di Ventimiglia tra il ponte della ferrovia ed il fiume Roia] onde valutare la possibilità di un suo inserimento nelle squadre giovanili.
Il novello "Gigi Riva" non aveva trovato di meglio che andare ad allenarsi per l'evento nel cortile dell'officina e subito erano iniziate le lamentele del pensionato, il quale non ricevendo considerazione dallo "screanzato capellone", si era prontamente recato nel negozio del nonno ad esternare le sue vigorose proteste. L'anziano avo non attendeva altro per prendersi una rivincita sul rinomato attaccabrighe e dopo averlo ben fatto sfogare a suon di colorite frasi, aveva prontamente troncato la discussione: alzando lo sguardo da sotto gli occhiali, con un'occhiata commiserevole, l'aveva zittito dicendogli «... E vui sé couscì scignuru che a st'ura de dopu de sdernà ve ne andè a dorme?... In scangiu de fave mantegni a descrocu da chela santa dona de vustra muiè... andè a travaglià cume fasu mi... vieré che nisciun ve darà de fastidiu [... E lei è così signore che a quest'ora di dopopranzo se ne va a dormire?... Invece di farsi mantenere a scrocco da quella santa donna di sua moglie... vada a lavorare come faccio io... vedrà che nessuno le darà fastidio]».
Luigi, indispettito dalla presenza dell'anziano, sostenendone lo sguardo prontamente gli rispose «Sto studiando il moto dei massimi sistemi».
«Come il moto dei massimi sistemi? - replicò dubbioso l'attaccabrighe - mi sembra che invece stai piantando un chiodo!».
«Se lo vede da solo perché me lo chiede?».
«... E perché pianti un chiodo?».
«Perchè avevo in testa il chiodo di piantare un chiodo e l'ho piantato!».
«... Ma non si può!».
«Come non si può... e chi lo dice?».
«Lo dico io».
«E che autorità ha lei per dire così? Non è mica il sindaco!».
«O bella e che c'entra il sindaco... Il muro non è mica tuo!».
«Ma neanche suo... non sa che l'arredo urbano appartiene alla città e di conseguenza a tutti i cittadini... quindi è un po' anche mio».
«Che storie sono queste... non possiamo tutti fare quello che vogliamo fare... altrimenti... ».
«Altrimenti cosa? Non sa che c'è la libertà?... È dalla rivoluzione francese che se ne parla».
«Ma che rivoluzione francese del piffero... se tutti facessero così ci sarebbe l'anarchia!».
«A parte che se ci fosse l'anarchia non sarebbe neanche poi tanto male... e la rivoluzione culturale dove la mette?».
«La rivoluzione culturale... fa bene Pasolini a dire che voi giovani non siete altro che dei piccoli borghesi... senza cognizione del vero senso del proletariato!».
«Pasolini non è altro che un socialimperialista! Si legga Marcuse e lasci in pace chi sta lavorando per dare alla città un'opera d'arte. Proprio lei, che non ha mai lavorato, mi viene a parlare di proletariato... Non c'è più limite alla degenerazione della nostra civiltà».
Punto sul vivo Michele decise di abbandonare la contesa, allontanandosi fra mille borbottii e Luigi si approntò a terminare l'opera con ancora più vigore.
Il chiodo aveva raggiunto il giusto punto di penetrazione e faceva la sua bella figura al centro del muro proiettando l'ombra sulla nivea parete.
Il giovane contestatore era soddisfatto del suo capolavoro e col carboncino si stava accingendo a firmare l'opera d'arte, quando all'improvviso ricomparve Michele. Nelle mani stringeva una grossa tenaglia e senza proferire parola alcuna, avvicinatosi al chiodo, con un vigoroso colpo, dopo averlo preso nella morsa dell'attrezzo, lo "arrancò" [strappò] via dalla parete.
Luigi esterrefatto rimase un attimo senza parole, quindi, livido in volto per la rabbia apostrofò rudemente il pensionato «Cosa sta facendo?».
Con un sorriso beffardo Michele prontamente replicò al giovane «Sto studiando il moto dei massimi sistemi».
«Ma che massimi sistemi e massimi sistemi! Ha "arrancato" il chiodo».
«Se lo hai visto perché me lo chiedi?».
«... E perché lo ha "arrancato"?».
«Avevo in testa il chiodo di "arrancare" un chiodo e l'ho "arrancato"!».
«Ma non lo poteva fare!».
«Perché non avrei potuto... e chi lo dice?».
«Lo dico io!».
«E che autorità hai per dire così? Non sei mica il sindaco!».
«Ma che sindaco e sindaco... il muro non è mica suo!».
«Ma neanche tuo... L'hai detto tu che l'arredo urbano appartiene alla città e di conseguenza a tutti i cittadini... quindi è un po' anche mio».
«Che storie sono queste... non può mica fare tutto quello che vuole a suo piacimento...».
«Come non posso! L'hai detto tu che esiste la libertà e che è sin dalla rivoluzione francese che se parla!».
«Si diverta pure a parlare con le mie parole... ora tirerà in ballo anche la rivoluzione culturale... ma il chiodo era il mio».
«Come il tuo... vedi che aveva ragione Pasolini... ora veramente dimostri di essere soltanto un piccolo borghese che difende la proprietà privata».
Luigi a questo punto preferì troncare la discussione: con un personaggio del genere, per il momento ritenne meglio lasciare perdere... nel laboratorio del nonno c'era almeno un centinaio di chiodi altrettanto grossi e solidi, non aveva che l'imbarazzo della scelta. Mestamente prese la via della passerella [sul fiume Roia, vicino alla foce, in Ventimiglia] per ritornare a casa borbottando fra sé e sé: «Ci mancava pure che anche Pasolini "ci mettesse il becco" sulla contestazione giovanile: grazie a lui, ora anche uno come Michele, che non ha mai fatto nulla in vita sua, si sente autorizzato, in nome del proletariato, a parlare contro i giovani contestatori, che come me cercano di dare al mondo un domani migliore».
Gaspare Caramello, A Foura du Bestentu. Racconti e Novelle della Ventimiglia di oggi e di ieri, Alzani, 2006, pp. 74-76

mercoledì 6 marzo 2024

Il borgo della Foce si presenta oggi urbanisticamente compatto


Nel 1818, Oneglia insieme a Sanremo e Nizza divenne capoluogo di provincia della Divisione di Nizza mentre Porto Maurizio fu scelto come Capoluogo del Mandamento.
Nel 1887, il centro storico fu danneggiato dal tremendo terremoto del 23 febbraio, che causa ingenti danni in tutto l'entroterra e rase al suolo anche la vicina cittadina di Diano Marina e il paese di Bussana. L'espansione sia di Porto Maurizio che di Oneglia aveva dall'unificazione italiana aperto un dibattito sulla unificazione delle due città, che si protrasse per anni fra proposte rifiutate da una e dall'altra parte, fino ad arrivare, nel 1923, all'unificazione effettiva per regio decreto.
Il Borgo della Foce tra '600 e '700
La Foce è un antico e suggestivo borgo di pescatori di Porto Maurizio e prende il nome dalla foce del torrente Caramagna, intorno alla quale sorgono le case. L'antico "arco di Sant'Anna" che sorgeva a fianco di una chiesetta coprendone l'ingresso, oggi in disuso ma ancora visibile, era munito di possenti battenti che rendevano sicuro il borgo dalle incursioni via mare. La presenza della chiesetta è documentata dal secolo XV come oratorio di San Nicherosio ed era sede del Consolato dei marinai. Il 15 luglio 1537, un gruppo di saraceni sbarcati nottetempo presso i tre scogli, nella zona oggi detta le Ratteghe, penetrarono nell'oratorio catturando e poi uccidendo le due guardie che ivi si erano assopite durante il loro turno di veglia: Aloise Bruno ed Etolo Aicardi <15. Tali cognomi ancora oggi sono tipici del Borgo della Foce. Oltrepassato l'arco di Sant'Anna si entra in un nucleo che subì trasformazioni nel Seicento e nel Settecento. Le case più antiche, risalenti al XV e XVI secolo, sono le più basse e adiacenti l'antico arco; in origine avevano finestre con grate in ferro che guardavano verso le abitazioni dell'attuale via De Tommaso, poi murate dalle costruzioni realizzate in aderenza ai primi nuclei abitativi. Alcune di queste antiche abitazioni, realizzate con massi, malta e pietre di mare, erano dotate di cisterne per la raccolta dell'olio e dell'acqua piovana e avevano finestre ad arco, contrariamente a quelle più recenti e settecentesche riscontrabili nel palazzo Berio, sito in via De Tommaso (palazzo affrescato dai pittori liguri come Francesco Carrega, che operarono nel XVIII secolo) e nel palazzo Lavagna, che ospitò anche Napoleone Bonaparte in attesa della prima campagna d'Italia.
Nei secoli scorsi non esistevano né l'attuale molo frangiflutti né il lungomare a riparare dal mare le case: come in tutti gli altri borghi liguri costruiti in riva al mare, queste davano direttamente accesso sulla spiaggia, dove normalmente erano tirate in secca le barche da pesca. La mancanza di ripari implicava anche che il mare dovesse essere calmo perché le navi potessero avvicinarsi a riva e poteva anche capitare che si dovesse attendere per giorni in rada prima che si presentasse un momento favorevole alle operazioni di carico.
Il borgo della Foce si presenta oggi urbanisticamente compatto, abbarbicato ad una sottile striscia di terra, al di sotto degli scoscesi pendii occidentali del promontorio portorino, ma in passato il centro abitato si trovava diviso in due blocchi di edifici, obliquamente attraversati da un lungo e stretto carruggio che aveva sbocco direttamente sul litorale antistante il borgo. Ad occidente trovava il suo limite presso una zona ortiva a ponente delle sponde del
torrente Caramagna e, dal lato del borgo, dalla cappella di San Niccolò di Bari. Procedendo verso ovest si incontrava lo sbocco a mare del torrente, che durante i diversi regimi di portata a cui era soggetto durante le variazioni stagionali, turbava la vita degli abitanti sia con piene ed esondazioni, sia con periodi di secca che causavano la formazione di acquitrini, dove proliferavano nugoli di zanzare e l'insorgere di febbri malariche. Inoltre nel corso d'acqua era solito che venissero scaricati i residui delle lavorazioni dei numerosi frantoi e delle fabbriche di sapone che contribuivano a rendere le immediate vicinanze della foce particolarmente maleodoranti e insalubri. La spiaggia della Foce si estendeva da una punta rocciosa detta Ciappa, sino ai Cappuccini - convento e chiesa collocati sul pendio tra la foce del Caramagna e del Prino, cui si è già accennato - era continuamente esposta all'azione erosiva delle correnti e delle mareggiate che puntualmente spazzavano la spiaggia sino alle case, ma che grazie ai naturali depositi delle stesse correnti veniva presto ricostruita. Nonostante un ruscello che scorre presso i Cappuccini non permettesse la costruzione di un vero e proprio porto, lo scalo marittimo della Foce vide per tutto il '700 un traffico di velieri e bastimenti di notevoli dimensioni maggiore rispetto al porto della Marina, borgata ai piedi orientali del promontorio, poiché in questa zona potevano avvicinarsi maggiormente alla costa per effettuare le operazioni di carico e scarico ma anche perché spesso costituiva un valido riparo dalle tempeste.
[...] In luogo sopraelevato, alle spalle del Borgo della Foce, si trova un interessante Santuario dedicato alla Santa Croce, un gioiello di arte e architettura alle porte della città. Il Santuario è un complesso architettonico singolare per la zona: una chiesa barocca cinta da due ali di convento settecentesco eretta sulla collina a ponente di Porto Maurizio denominata monte Calvario, già noto come monte Gagliardone. Il complesso non presenta la tradizionale pianta rettangolare con chiostro interno e chiesa, ma si presenta come un blocco compatto il cui spazio aperto è costituito non dal classico chiostro, ma da un vasto piazzale antistante la facciata principale dell’edificio sacro, esposta a sud, verso il mare.
[...] Trasformazioni recenti ed edilizia urbana
Dalla Spianata è possibile percorrere con facilità la passeggiata pedonale, che a picco sulla costa e sul mare conduce alle spiagge attrezzate del borgo Marina. Il sentiero attraversa cespugli di macchia mediterranea, intervallati da panchine per la sosta su alcuni spazi creati apposta per fruire del panorama. Questa passeggiata risale agli Anni Settanta; in precedenza, dal Corso Garibaldi, detto localmente il Bulevàr al mare non c'era altro che la ripida scogliera detta delle Ràtteghe o Bundàsci. Prima ancora, dalle case di Porto Maurizio, in alto sul promontorio, fino al mare c'era solo qualche orto, tra cui quello delle monache di clausura di Santa Chiara che è visibile ancora oggi, racchiuso da alte mura, sotto le logge del monastero omonimo.
Nel 2014 l’intera area è stata magistralmente riqualificata e resa quasi completamente pedonale, valorizzando ulteriormente questa zona così suggestiva. La bellezza particolare del Borgo della Foce ha richiamato nel tempo l’attenzione di
numerosi artisti e ha fatto da sfondo ad alcuni set cinematografici.
Ad est della piccola spianata intitolata al pittore Luigi Varese (Porto Maurizio 1825 - 1889) <22, che proprio qui a fine Ottocento risiedeva e realizzava le sue opere, inizia la stupenda passeggiata dedicata a Domenico Moriani, giovane partigiano nato alla Foce e trucidato dai nazisti nell’ottobre del 1944.
Sebbene la pendenza non sia irrilevante, la passeggiata, che consente di raggiungere il vicino Borgo Marina, è percorribile con estrema facilità, in particolare dopo i recenti lavori di riqualificazione. Il percorso, di circa 10 minuti, si sviluppa a picco sul mare in mezzo a tipici cespugli della macchia mediterranea che inebriano i sensi con i loro caratteristici aromi. Vi sono inoltre alcune panchine e spazi creati appositamente per poter gustare al meglio il panorama mozzafiato. Proprio in ragione della sua bellezza romantica, la passeggiata è detta "degli Innamorati".
[NOTE]
5 Gianni De Moro, Porto Maurizio in età rinascimentale (1499-1542), Circolo Parasio, Imperia 1989, p. 249.
22 Allievo di F. Coghetti all'Accademia romana di San Luca, collaborò con il maestro alla decorazione del duomo di Savona. Interessato alle nuove esperienze artistiche, venne a contatto a Milano con G. Bertini e i fratelli Induno, a Firenze con D. Morelli e S. Ussi. Nella pittura di paesaggio, agli inizi adottò modi di tradizione classica con soggetti composti in studio; successivamente alternò una pittura di paese più immediata, spesso all'acquerello, a soggetti di genere di vena e temi risorgimentali. Cfr. Nerino Mariangeli, Imperiesi nella storia, A. Dominici Editore, Conegliano 1979, pp. 211-214; Gianna Piantoni, Luigi Varese «romano» tra Accademia e vedutismo, in «I colori dell'ottocento tra Riviera e Côte d'Azur. La visione e l'immagine nell'opera di Luigi Varese (1825-1889)», Tipografia F.lli Stalla, Albenga 1992, pp. 11-13.
Giacomo Tambone, Borgo Foce a Porto Maurizio: una ricostruzione storica intorno alla cappella di San Francesco da Paola, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2018-2019

mercoledì 28 febbraio 2024

I moti studenteschi e la contestazione avevano appena sfiorato il tran tran quotidiano della ridente città di provincia



Ventimiglia (IM): Piazza Marconi (Marina San Giuseppe) e le spiagge antistanti

Per Luigi quel sabato 7 dicembre 1968 era trascorso nell'usuale consueta normalità. Come ogni settimana la dura mattinata di scuola al liceo classico G. Rossi di Ventimiglia era passata tra le interrogazioni di storia e filosofia della prof. Trucchi e le spiegazioni di italiano del prof. Allavena. Il pomeriggio aveva stemperato le tensioni del mattino: la consueta partitella di calcio con Don Ernesto e i compagni dell'Azione Cattolica e quindi, per finire la giornata, qualche prova con gli amici del complessino beat per strimpellare gli hits del momento, come "Magic Carpet Ride" degli Steppenwolf, "Race with the Devil" dei Gun o "Applausi" dei Camaleonti. Quelle esercitazioni abitualmente trovavano il loro epilogo nell'annuale, mitico festival dei complessi beat, che proprio nel mese di dicembre, nel teatro comunale, vedeva i più agguerriti gruppi cittadini cimentarsi accanto ai mitici Kites in un'accesa kermesse musicale. Quell'anno, purtroppo, il politeama cittadino aveva chiuso i battenti e l'accesa disfida non si era potuta programmare: il 1968 può essere considerato, nel secolo appena passato, uno dei peggiori anni nella vita cittadina di Ventimiglia. I moti studenteschi e la contestazione avevano appena sfiorato il tran tran quotidiano della ridente città di provincia, rimanendo emarginati a livello intellettuale e a esclusivo appannaggio di pochi liceali impegnati: non si può certo addebitare a loro la responsabilità del processo di graduale degrado urbano iniziato proprio in quell'anno. Le decisioni di chiudere numerosi uffici pubblici ed il mercato dei fiori sono state certamente quelle che hanno determinato il nascere di una progressiva crisi che ha visto il comune di frontiera via via spogliarsi di numerose sue prerogative. Anche la "Battaglia di Fiori" vide in quell'anno la sua ultima edizione: con l'inizio della crisi dell'attività floricola tale manifestazione perse la sua prima ragion d'essere e non venne più riproposta se non in biennio a cavallo degli anni ottanta, prima di riprendere vita, sia pur lontana dai fasti iniziali, nei primi anni del nuovo millennio. Il Teatro Comunale a sua volta venne riaperto nel 1980, grazie alla ferma volontà dell'assessore alla cultura di allora [n.d.r.: che era proprio lo scrittore Gaspare Caramello] che, in un quinquennio di stampo "nicoliniano" (usando una terminologia ai quei tempi in voga), lo riportò in auge con numerosi spettacoli sia teatrali che musicali. La sua sorte si compì definitivamente agli inizi del 1985 quando venne nuovamente chiuso, nello stesso periodo in cui anche l'ospedale cittadino vide la fine della sua esistenza.
Luigi concluse la giornata assistendo alla proiezione del film "Teorema" di Pasolini, in una serata caratterizzata da accese dispute nel cineforum cittadino. La poesia proclama dello scrittore "Il P.C.I. ai giovani" era stata motivo dell'accesa controversia che vide i fautori della sinistra integralista accesi oppositori delle tesi più d'avanguardia dei giovani contestatori dell'extrasinistra o dei seguaci, come il nostro protagonista, delle tesi del filosofo Marcuse. Tutto quindi avrebbe lasciato presupporre una nottata tranquilla passata tra le braccia di Morfeo, in attesa di rivedere, nel successivo giorno di festa, gli amici del liceo e del gruppo beat. Il sonno invece tardava, sia per l'emozione dell'accesa discussione che per una specie di tarlo che iniziava a farsi strada nella mente del giovane. Un chiodo fisso si era insediato nella sua mente: doveva piantare un chiodo. L'idea in principio gli sembrava alquanto peregrina e priva di senso, ma via via che si insinuava sempre più nella sua mente iniziavano a prendere forma le giustificazioni artistiche e filosofiche che potevano motivare quell'inusitato gesto. L'arte concettuale, che dichiarava essere "Arte" non il prodotto finito in quanto tale ma il procedimento mentale alla base della sua creazione, l'arte gestuale che dava al gesto realizzativo dell'autore la priorità sulla creazione di un'opera, alla fine furono le ragioni che lo indussero a concretizzare quel pensiero che ormai era quasi divenuto maniacale e non lo lasciava riposare.
Alla prima luce del mattino decise di alzarsi e, imbacuccatosi nell'inseparabile eskimo, si diresse alla volta del laboratorio del nonno, che continuava a gestire una fiorente impresa edile. Con cura ed attenzione scelse un grosso chiodo, molto spesso e lungo, tale da essere ben visibile, un pesante martello, una squadra in legno, una livella, un carboncino ed un compasso da muro. Improvvisatosi così novello muratore, dopo aver pensato brevemente dove localizzare l'intervento, propese per un bel muro in località Marina San Giuseppe, a metà strada fra l'Alef Club ed il bar di Vito, di fronte allo stabilimento balneare "Giuseppe". La sua opera sarebbe così stata esposta al sole tutta la giornata creando così un'operazione artistica "in progess", come era di moda in quegli anni. Con l'aiuto dei suoi amici e la consulenza dei pescatori locali, si sarebbe potuta farla divenire nientemeno che una meridiana d'avanguardia, occhieggiante ai capolavori di Duchamps, Man Ray e del Dadaismo in generale. Anche il nuovo preside del liceo, il prof. Carlo Cormagi, ne sarebbe stato sicuramente orgoglioso. Egli, appena giunto da Genova, aveva subito dimostrato di apprezzare le correnti artistiche contemporanee: probabilmente, addirittura, avrebbe voluto dir la sua nell'estemporanea creazione, partecipandone in qualche modo alla sua definitiva trasformazione da oggetto d'uso quotidiano a capolavoro artistico.
Soddisfatto di quanto aveva ideato, appesantito dall'ingombrante attrezzatura che si trascinava dietro, Luigi si diresse in fretta alla volta della Marina S. Giuseppe. L'aria era frizzante e gli pungeva il volto; soprattutto sulla passerella faceva sentire il rigore dell'inverno ormai incipiente. Preso dalla volontà di vedere il suo progetto concluso, Luigi però non faceva caso a quanto gli accadeva intorno: neppure l'affascinante spettacolo della Corsica che si stagliava sul terso orizzonte del mare riuscì a distrarlo: in breve raggiunse il muro ed iniziò le sue misurazioni come se, all'improvviso, fosse divenuto un provetto geometra. Alla fine col carboncino riuscì a fissare sull'edificio l'esatto punto in cui collocare la sua opera d'arte. Appoggiato con cautela il chiodo all'intonaco, iniziò a percuoterne la testa con decise martellate. Ad ogni colpo la punta penetrava sempre più profondamente nella parete che opponeva una tenue resistenza ai vigorosi colpi del giovane studente. Metà opera era stata realizzata e già era ben visibile quello che sarebbe stato il risultato finale, quando all'improvviso Luigi si sentì apostrofare da una voce imperiosa «Cosa stai facendo?».
Il giovane si voltò e riconobbe Michele, un anziano, dalla notoria fama di valente attaccabrighe, che lo stava osservando con uno sguardo truce da cui traspariva la sua totale disapprovazione. Non correva molto buon sangue tra lo studente e l'attempato pensionato, che, vicino di casa del nonno, non mancava di inveire quotidianamente contro l'avo dello studente a causa del rumore che l'officina produceva distogliendolo dal quotidiano riposino pomeridiano che era uso fare. Michele era diventato un facoltoso possidente "appendendo il cappello al chiodo" ovvero sposando la sarta che possedeva un avviato atelier sopra il laboratorio artigianale. Dal momento del suo matrimonio aveva cessato di lavorare ed amava trascorrere la giornata senza far niente, bighellonando a "ratelare" [litigare] con chiunque gli fosse capitato intorno, che non condividesse le sue idee.
(segue)
Gaspare Caramello, A Foura du Bestentu. Racconti e Novelle della Ventimiglia di oggi e di ieri, Alzani, 2006, pp. 72-73

mercoledì 21 febbraio 2024

Mario Calvino introdusse nel territorio di Sanremo diverse specie di fiori

Mario Calvino e la biblioteca agricola itinerante. In P. Forneris e L. Marchi (2004), Il giardino segreto dei Calvino. Immagini dall’album di famiglia tra Cuba e Sanremo, Genova, De Ferrari & Devega, p. 27. Fonte: Thomas Pepino, Op. cit. infra

Mario Calvino aveva redatto il programma piccoli-grandi “rivoluzionari agro-ecologici” ma, in seguito al fallimento della banca, lo sviluppo fu ostacolato e, alcune strutture necessarie al funzionamento della stessa Stazione Sperimentale, furono spostate nella villa.
Fra le attività che Mario Calvino svolse nei primi anni di rientro nella città natale - trascorse 17 anni all’estero - vi fu l’introduzione di nuove specie e varietà soprattutto da aree subtropicali e tropicali, con lo scopo di acclimatarle. <135 Fra queste: varietà di avocado, pompelmo, zucche, differenti specie ornamentali e floreali, da frutto, da essenza, da fecola e da zucchero <136.
Calvino è stato uno tra i più importanti agronomi e botanici italiani della prima metà del XX secolo che ha saputo riversare la propria esperienza tecnico-scientifico nel suo paese d’origine. Il processo d’inculturazione è per Calvino un continuo operare, trasferisce la sua conoscenza nelle società in cui lavora.
Calvino è un vettore di modelli culturali innovativi, sperimentatore di un modo di agire che nel mondo agricolo rappresenta tutt’oggi un esempio del fare industria. La contaminazione internazionale, esito della continua attività sul campo e confronto internazionale - Cuba, Messico, Yucatàn, Brasile, Hawaii, Africa, etc. - va oltre il tempo in cui si colloca riuscendo a comprendere quali possono essere i benefici di un modello agricolo sostenibile, anticipando quello che oggi viene definito chilometro zero.
Le scelte progettuali applicate all’orticoltura e alla floricoltura sono il frutto di una continua ricerca applicata sul campo e acquisita nei viaggi, praticata in luoghi spesse volte lontani rispetto al punto di partenza, ma che nel seguito ritornano all’origine con una conoscenza estesa in grado di modificare e riallinearsi allo stesso tempo con la struttura originaria del territorio in cui si collocano.
Calvino ha un approccio moderno e innovativo e grazie alla forte rete di relazioni nazionali e internazionali intravvede nei caratteri rurali del territorio di Sanremo il fattore propositivo in grado di generare modelli di gestione e controllo del territorio capaci di osservare e percorrere il progresso della città.
Osservando la realtà della Costa Azzurra, Calvino comprende come il processo di trasformazione dei fiori in articoli di consumo, siano il prodotto fisico su cui innestare un nuovo modello agricolo-economico. In quegli anni, attraverso la conoscenza del collega francese Raphael De Noter, condivide interessi per piante alimentari di origine tropicale ancora ignote in Europa, dedicando sempre maggior responsabilità all’estensione - in ogni forma - della floricoltura nel territorio di Sanremo.
Quali sono le strategie e i modelli che Calvino propone e da dove derivano? In che modo i suoi studi contribuiscono a definire l’immagine e la gestione del territorio?
Per rispondere a queste domande, credo sia necessario analizzare la biografia della figura di Calvino da un punto di vista geografico, consultabile nei volumi "Il giardino segreto dei Calvino" <137 e nel "Dizionario Biografico degli Italiani" <138, ma credo tuttalpiù che sia fondamentale ricontestualizzarlo al nostro tempo come precursore di una nuova figura, un agronomo in grado di leggere il territorio per la sua connaturale forma architettonica.
Calvino introdusse nel territorio di Sanremo diverse specie di fiori tra cui rose provenienti da tutto il mondo, garofani <139, buganvillea, genista, ornitogalo, croton, fotinia, rododendri, ninfee, vite, etc., sostenendo da sempre che il progresso della coltura dei fiori è da ricercare nel miglioramento genetico - ibridazione e incroci - appartenenti alla stessa specie o genere.
Il suo lavoro alla Stazione sperimentale non si limitava alla ricerca, si estendeva a orientare e insegnare ai floricoltori di Sanremo come eseguire metodi di ibridazione e impollinazione artificiale per la produzione di nuovi colori e varietà ornamentali rendendoli più competitivi nel mercato nazionale e internazionale. <140
Nel 1927, ottenuta la libera docenza in orticoltura, parte per missioni agricole in Europa e Africa: Isole dell’Egeo <141, Tripolitania, Kenia, Tanganica, Zanzibar e Somalia. <142
Sposato con Eva Mameli (1886-1978), botanica, naturalista e accademica italiana, oltre condividere interessi scientifici, fondano nel 1930 la "Società italiana amici dei Fiori" e la rivista "Il Giardino fiorito", diretta dal 1931 al 1947 che, oltre a discorrere di giardini, sensibilizzava i giovani verso la cultura della bellezza e della conservazione, di cui Calvino ne riteneva di grande rilievo preservarne i caratteri tipici.
Calvino riteneva che il territorio ligure si dovesse costruire e organizzare per fasce altimetriche, divise per tipo di coltura, facilitando così l’acclimatazione delle piante in funzione delle quote altimetriche. Il territorio si sarebbe articolato in tre fasce: la fascia per i limoni, la fascia per gli ulivi e la fascia per i palmizi.
La struttura architettonico-geografica del territorio di Sanremo, strutturata in terrazzamenti, richiedeva quindi cure simili alle coltivazioni e, in assenza della manutenzione, gli artefatti dei terrazzamenti divengono corpi morti, abbandonati archeologicamente sulle colline, cadono in obsolescenza, che è anche obsolescenza agricola, colturale e culturale.
Negli anni a seguire, Mario Calvino coordina vivai, fonda l’associazione di commercianti per migliorare e sostenere l’esportazione dei fiori verso il mercato estero, insiste per l’apertura di una banca di credito agricolo che aiuti i contadini, istituisce la biblioteca agricola itinerante, organizza mostre e conferenze.
Nel 1934 Calvino collabora con il Servizio chimico militare, tra il 1936-38 insegna alla Facoltà di Agraria di Torino, al termine della seconda guerra mondiale, in qualità di presidente di Commissione del ministero per la Costituente, elabora un programma di previdenza per l’agricoltura in Liguria <143 - dalla costa all’entroterra.
Il figlio Italo, nel testo "La strada di San Giovanni" <144, rende chiaro quale fosse il clima che si respirasse nella famiglia Calvino, immersi nella conoscenza del territorio di Sanremo. I caratteri geografici diventano la struttura su cui si articola la narrazione e, il podere di San Giovanni, fra orti e uliveti, veniva raggiunto seguendo l’opera dell’uomo, i beodi - canali di scolo. La sintassi del territorio si lega alla forma narrativa, così attraverso il racconto, è possibile riscoprire l’immagine del territorio, raggiungendo la chiesa di San Giovanni che, posta tra le fasce terrazzate di versante domina la città sottostante.
Mario Calvino morì a Sanremo per una bronchite il 25 aprile del 1951. <145
[NOTE]
135 Cfr. AA.VV. (1974), Dizionario Biografico degli Italiani, p. 30.
136 Ibid.
137 P. Forneris e L. Marchi (2004), Il giardino segreto dei Calvino. Immagini dall’album di famiglia tra Cuba e Sanremo, Genova, De Ferrari & Devega.
138 AA.VV. (1974), Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XVII, Calvart-Canefri, voce “Calvino Mario” (a cura di E. Mez), Roma, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, pp. 29-31.
139 Per esempio si veda dello stesso autore: M. Calvino (1946), “Nuova tecnica colturale del garofano”, in Humus, II, no° 12, pp. 16-18; (1948), “Innovazioni nella tecnica colturale delle rose e dei garofani”, in Atti del Congresso nazionale della floricoltura italiana, Sanremo, pp. 27-36; (1948), “Rose e garofani nei metodi di coltivazione”, in Pubblicazione della Stazione sperimentale di floricoltura, no° 39, Sanremo, pp. 1-11.
140 Si veda: M. Calvino (1936), “Come ottenere nuove varietà di fiori attraverso l’ibridazione”, in Pubblicazione della Stazione sperimentale di fioricoltura, no° 13, Sanremo, pp. 1-23; M. Calvino, (1934) “La produzione floricola italiana nei confronti con la produzione estera concorrente”, in Il Convegno nazionale di fioricoltura, Sanremo, pp. 1-7.
141 Cfr. M. Calvino (1928), “Piante e coltivazioni da introdursi e sperimentarsi in Rodi e nelle Isole Egee”, in L’agricoltura coloniale, XXII, no° 5, pp. 163-185.
142 Cfr. AA.VV. (1974), Dizionario Biografico degli Italiani, p. 30.
143 Cfr. AA.VV. (1974), Dizionario Biografico degli Italiani, p. 30.
144 I. Calvino (1990), La strada di san Giovanni, Milano, Mondadori.
145 Cfr. AA.VV. (1974), Dizionario Biografico degli Italiani, p. 30.
Thomas Pepino, L'immagine delle serre nel teatro del Golfo di Sanremo. La forma della terra e il sopraggiungere della città, Tesi di dottorato, Politecnico di Torino, 2013