mercoledì 21 maggio 2025

Verso sera tornava su Arma di Taggia per scrivere tutta la notte

Taggia (IM): uno scorcio di una zona di Arma non lontana dalla dismessa stazione ferroviaria

Marino Magliani intervista Lamberto Garzia sul suo nuovo libro "Capped Dice" (Betti Editrice, 2021)
[...] una pericolosa  indagine tesa a svelare un Mistero, nella quale il personaggio principale, almeno nelle prime pagine, è quello del grande scrittore Tommaso Landolfi («Giusto appunto, mi hai detto dell’esistenza del gran segreto, che se permetti lo intenderei col termine inganno. E quindi, più precisamente, mi hai rivelato di possibili, sebbene in dato modo catalogabili, malefatte di tale signor Landolfi. Ma questo oscuro non me lo puoi per il momento squadernare, anche perché questo oscuro non è ancora per te del tutto chiaro… e una volta portato alla luce ciò che è intimo nella sua mantella lisa, sarà una calamità, anche se poi una calamità per chi, Lamberto…»).
[...] (M.M.) Il sottotitolo è «Diario di una battaglia novembre 2016 - aprile 2017», fa riferimento al provocatorio scontro - incontro che ingaggi con Landolfi, e da qui i tanti rimandi alle arti marziali, al pugilato e ad autori che ne hanno trattato come Antonio Franchini o Norman Mailer …
(L.G.) All’apparenza il nemico appare essere Landolfi, credo il maggior rappresentante novecentesco del saper scrivere in prosa, ma in verità è uno scontro (maggiormente una preghiera sacra) con il linguaggio, teso a voler in esso trovare una identità o appartenenza, possederlo ed esserne posseduto… come al tempo stesso la figura del Landolfi uomo in Arma di Taggia è stata usata (o essa da tramite) per cercare una identità specifica di luogo circostanziato… e questo incedere è confermato o tragicamente confessato a pagina 483, quasi al termine del diario:
« […] A raccontarmi questo, più o meno due mesi fa, è il sarto Beppe (credo si chiami Giuseppe, credo) Manco, vestito  sempre elegante anche se l’età c’è: 84 appena fatti, aveva precisato. Lo avevo disturbato, nei pressi del non più tra noi passaggio a livello, per una bazzecola [bazzecola?!] circa il cappotto rivoltato di Landolfi, poverino… mi sopporta non tanto perché sia io di origini salentine e lui un signor assai educato, ma anche perché coglie occasione per raccontare qualcosa del passato lontano, un raccontare quasi esentato da aneddoti, basato in maggiore sul qui c’era, poi c’è stato, ora c’è: e lo fa in una trattenuta malinconia che non sconfina nel patetico, è un sentire, così mi appare, di chi ha amato un luogo e ancora, seppur con certa demarcazione, lo ama… e lo trovo squisito e squisita per lui questa inclinazione di anima [...]
Redazione, Marino Magliani intervista Lamberto Garzia, La poesia e lo spirito, 25 gennaio 2022

La seconda parte del 1962 registra le ultime, rare missive [di Tommaso Landolfi] conservate nel Fondo Vallecchi: due spedite da Arma di Taggia nel maggio (ma vi si trasferirà stabilmente solo in novembre); due da Pico, in giugno ed in ottobre, la seconda per concordare un appuntamento con l’editore fra Roma, Pisa o Firenze. Incontro che deve essere avvenuto il 18 ottobre da Nino, a Roma, secondo quanto informa la figlia. Nell’ultima missiva, spedita il 15 novembre di nuovo da Arma, scrive: «volevo prima sperimentare questo posto, e infatti non so se ci reggo» <124. L’indirizzo è via Miramare 3, Arma di Taggia, in un palazzone anonimo a pochi metri dalla spiaggia, che all’epoca doveva parere un grattacielo, ovvero ciò che di più lontano si possa immaginare dall’aristocratica dimora picana.
[...] Il 1963 segna uno spartiacque nella bio-geografia landolfiana in quanto, come già detto, a partire da questo momento è difficile seguire i passaggi dello scrittore fra Arma, Pico o altre località, in assenza di un equivalente della corrispondenza con Vallecchi. Si entra pertanto in una zona d’ombra per la quale occorre seguire ancor più da vicino i testi dell’autore, alla ricerca delle tracce in essi sempre più generosamente lasciate, in una sorta di relazione indirettamente proporzionale fra la frammentarietà delle testimonianze d’archivio e una scrittura sempre più scopertamente autobiografica.
[...] "Des mois", il nuovo diario composto ad Arma di Taggia fra il novembre 1963 e l’aprile ’64 e pubblicato, con alcuni tagli di censura, nel gennaio 1967. È, questo, lo zibaldone della sua solitudine, visto che, anche quando di lì a poco la moglie si stabilirà con i figli nella vicina San Remo, lo scrittore, cui necessita assoluta concentrazione per portare avanti il suo lavoro, continuerà ad abitare l’appartamento di via Miramare fino a tutto il ’68. È, anche, la registrazione del precario compromesso con la dimensione familiare, a dispetto della nascita del secondo figlio, cui riserva pagine di una tenerezza affatto diversa da quella oscura e tormentata che gli ispira la primogenita.
[...] Nel 1964 escono i "Tre racconti", nei quali la cifra dell’esistenza randagia che lo scrittore conduce fra Arma e Sanremo è pervasiva. Se si eccettua infatti il pezzo centrale, "Mano rubata", di cui già si è vista la connotazione capitolina, gli altri due sono di stretta ambientazione rivierasca. Ma si tratta della particolare accezione landolfiana, piuttosto una contro-Riviera (secondo il paradigma oppositivo ed “in negativo” che gli è abituale), fredda quando non gelida, autunnale, plumbea, niente affatto fiorita <139. Uno scenario periferico, condominiale, sospeso, nuova declinazione della provincia picana delle pagine giovanili, incentrato sugli itinerari senza meta dello scrittore attraverso un dedalo di luoghi liminari e transitori (mai topograficamente circostanziati, come invece è della montagna picana o del paese natale) <140 quali bus con relative fermate, balconi asfittici e cementizi, squallidi sottopassi, finestre con gli avvolgibili, panchine desolanti affacciate su un mare grigio, caffè di notte o poco illuminati nella fioca luce di albe incerte e superflue, pastrani inzuppati di pioggia, cappelli calati sul volto <141.
[...] Un autoritratto dello scrittore che intanto, per parte sua, traccia le coordinate della sua topografia familiare divisa fra il sobborgo nel quale è lecito riconoscere Arma di Taggia, e Sanremo, dove moglie e figli abitano un condominio descritto con disgusto insieme feroce e pietoso <142: "Oggi, lì, da mia moglie… Imbruniva, e i poveri innocenti non parevano avvedersene; non intendo proprio dell’imbrunire, sibbene di quel costante imbrunire che aduggia la misera casa e le loro vite medesime. La madre stavolta piangiucchiava, ancora di quattrini. La casa dà da una parte su un’angusta corte, con canini sistemati in ricetti di fortuna e relativa tenera padrona, e con gagliarda sposa che tutta la para dei suoi bucati; dall’altra su una sordida via cittadina, tanto sordida che le ordinanze comunali non la raggiungono e la lasciano far mostra delle sue filacciose mutande e sottovesti sciorinate al sole. In cucina stagnava il puzzo atroce dei detersivi, confuso col personale sentore della lavapiatti che la frequenta alla fuggiasca, or ora uscita; nel bagno era tirato un cordino recante mutanducce infantili ad asciugare, tuttavia stillanti, e dentro la vasca posto un mastelletto di plastica stipato di panni sotto sapone. E d’un tratto, non che compiangere altrui, non che propormi di trarre fuori, di salvare i miei da tale sordidezza, sono stato preso da una specie di furiosa pietà per me stesso. Mi sembrava d’esser rinserrato lì dentro senza speranza, mi mancava l’aria; e sentivo di sopra, traverso la sottilissima soffitta, trascinar seggiole e menar di granata; e per le sonore scale rovinio di scolari e di servette; e dal quartiere accanto raschiar di radio; e dalle finestre sopra al nostro balcone scotolar di lenzuoli, oscuranti a baleni il poco e smorto cielo; e infine, in una pausa di silenzio e ancora dal piano di sopra, un orinar di commendatore ammalato. Sì, giusto un orinare in un vaso da notte (TR, OP2 p. 477-478)".
[...] Quanto al mare, e nonostante i lunghi anni trascorsi in Riviera, questo compare abbastanza raramente nella pagina di Landolfi, che è piuttosto amante della montagna e cantore del suo Appennino. A differenza della dimensione circoscritta e liminare che assume presso il monte Argentario e la laguna di Orbetello <152, il mare in Liguria appare «smorto, bianchiccio, senza respiro» <153 ma, negli "Sguardi", filtrato dall’occhio di R., si presta a tutti i cambiamenti dell’animo femminile: «Il mare s’era animato di mille colori; poi è ridiventato grigio; questa mattina era di nuovo splendente. Non lui, lui non ci ha nulla a che vedere: il mio mare di dentro. Che ribolle, che sta per rompere in tempesta, che chiede una vittima, mille vittime se necessario, che fracassa questa mediocre barca della mia vita» (TR, OP2, p.488). In genere, si intona all’umore piatto e depressivo di questi anni, facendosi esso stesso arredo imbronciato o tempestoso del lungomare di provincia, spesso contemplato da panchine desolate e spazzate dal vento. Il quale, altro protagonista di queste pagine, compare come portatore di nervosismo e instabilità e, in "Des mois", penetra e spalanca l’appartamento di Arma, scompigliando parole e pensieri: «In questa casa aperta da due parti, a levante e ponente, il vento fischia tanto assiduo, che ventoso, travolto e pronto a involarsi è ogni pensiero» (DM, OP2, p. 685). Un vento che non impedisce a Landolfi di scrivere quasi di getto, a conclusione del 1964, il racconto lungo "Un amore del nostro tempo"
[...] Si sono intanto andati consolidando i rapporti con Geno Pampaloni che, conquistatosi con garbo, professionalità e infinita pazienza la stima dello scrittore, nell’aprile del ’64 si era recato a fargli visita a Sanremo, stipulando per conto della Casa un nuovo contratto biennale. Dell’estate del 1965, un anno sul quale i riferimenti biografici sono più scarsi che mai, è il soggiorno con la famiglia a Bajardo <156, nel boscoso entroterra sanremese, da cui trae ispirazione per un elzeviro che esce sul «Corriere della sera» per Ferragosto e che recupera i modi del viaggiatore curioso e smagato delle prose di "Se non la realtà": "No, amici: per i play-boys o per gli onnipresenti milanesi non so, ma Bajardo è veramente un luogo egregio, e «perla» solo nel senso che le sottoposte convalli ne figurano l’immensa valva; dove coloro, se ci sono, restano confusi e avviliti, inoffensivi, tra tanto verde e in tanta aria fina; dove perfino le grida degli innumerevoli fanti ed infanti (trattene, ahimè, quelle dei propri) perdono virulenza… Pensate; migliaia di ettari di bosco d’alto fusto, quale forse non si ritrova ormai che nei racconti di fate; e il libero vento tempratore sulle cime intorno; e, per esempio, gli asini, le capre (UPC, OP2, p. 1000)".
[...] Del 1967 è la terza maschera teatrale dietro la quale lo scrittore declama il suo nichilismo, ovvero il "Faust 67", scritto ad Arma nel maggio e pubblicato due anni dopo. È una delle ultime (se non proprio l’ultima) delle opere composte nella cittadina ligure, che presto lascerà per trasferirsi di nuovo a Sanremo, presso la famiglia, ma soprattutto per trascorrere periodi sempre più lunghi a Pico.
[NOTE]
124 PV1, p. 162.
139 Questo lo sfondo, in Des mois, del primo lampeggiare della scolara che diventerà La muta: «Or ora tentavo di procurarmi una bottiglia di vermouth, ma tutte le botteghe erano chiuse. Stavo incerto all’angolo d’una strada (e al gelo di questa riviera), quando per compenso del mio scoramento è passata di corsa una fanciulla; una scolara con libri, che certo s’affrettava alla fermata del filobus. Poiché avevano già spento le luci, ed era quasi buio, e lei correva senza rumore, è sorta dal fondo della strada come dal nulla» (DM, OP2, p. 687).
140 Si è recentemente riproposto di ricostruire questo vagabondare Lamberto Garzia che, in collaborazione con il comune di Arma di Taggia sta curando l’allestimento di un itinerario di luoghi landolfiani nella cittadina rivierasca presentato nel corso di una giornata in onore dello scrittore, il 24 marzo 2019: «Usciva molto presto di casa, andava al Bar Sport, faceva una passeggiata sul lungomare, prendeva i giornali all'ex edicola della stazione ferroviaria, andava al Bar Jolly, in quella che oggi è piazza Tiziano Chierotti, prendeva il bus per andare a Sanremo dalla famiglia, stava con loro fino a pranzo e poi andava al Casinò. Verso sera tornava su ad Arma di Taggia per scrivere tutta la notte» (Stefano Michero, «Sanremo news», 19 marzo 2019). In preparazione, vi sarebbe un documentario dal titolo "La passeggiata landolfiana".
141 Una dimensione sottolineata anche da Giovanni Maccari, nella nota che accompagna le prose di "Diario perpetuo": «Ma questa estraneità antropologica alla gente del suo mestiere entra nel gioco dell’infelicità e dell’impotenza, così come una volta era una libera funzione della sua ironia e della sua differenza aristocratica. Sul piano della biografia, difatti, proprio questa differenza subisce negli anni Sessanta una singolare mutazione, nel senso che il suo rifugio originario (aristocratico) di integrarsi nella società borghese si risolve in una sorta di deriva in quella zona grigia della società borghese che è una città di provincia. Landolfi va a vivere ad Arma di Taggia, a rispettosa distanza ma a portata di corriera da Sanremo, dove c’è il casinò e dove si è trasferita la famiglia. Scrive, passeggia, scende al bar, va con la moglie a comprare un ombrello o il grembiule per la bambina: di tanto in tanto gioca, e perde, sicché perdura in uno stato cronico di povertà» (Giovanni Maccari, L’ultimo libro, in DP, p. 372).
142 «Oggi, a casa di mia moglie (e dei bambini: io sto da un’altra parte), è tornata a galla la vecchia questione» (TR, OP2, p. 474).
152 Si è vista in "Una bolla di sapone" (supra, § II.7).
153 «Natale! Mare smorto, bianchiccio, senza respiro; uno strano silenzio per le vie, finora. Natale d’angoscia, di vergogna. E loro lì, nella loro brutta casa… Beh che c’è, cosa ne inferisco? Non lo so. Non intendo: senza di me (che sarà fosse un bene); dico semplicemente: loro lì» (TR, OP2, p. 492).
156 «Bajardo fu generoso cavallo, e poi a suo tempo cavaliere senza macchia e senza paura; Bajardo è anche, oggidì, incantevole borgo, incantevole a dispetto dei fogliolini turistici che lo definiscono “perla dell’entroterra sanremese” (e meglio sarebbe “sanremasco”), con ciò inducendo il sospetto di qualche montano covo di play-boys» (UPC, OP2, p. 1000).
Laura Bardelli, Per una bio-geografia di Tommaso Landolfi. Luoghi del vissuto e della scrittura, Tesi di dottorato, Università degli Sudi di Firenze, 2020

“E' vero - conferma Lamberto Garzia - la famiglia viveva a Sanremo e quindi in molti hanno pensato che lui fosse lì, in realtà viveva e lavorava su Arma di Taggia. Grazie ad un complesso lavoro di studio, siamo risaliti anche alla documentazione necessaria a ricostruire questo legame, anche attraverso foto o cartoline ma ci sono tanti scritti dove indica proprio la data ed Arma di Taggia. Rileggendo alcuni suoi racconti come 'La Muta' o 'Chiacchiere al tramonto', o il romanzo 'Des Mois', definiti come surreali, si possono riconoscere i luoghi di Arma di Taggia. Grazie al lavoro di ricerca e studio abbiamo ricostruito la giornata tipo di Landolfi. Usciva molto presto di casa, andava al Bar Sport, faceva una passeggiata sul lungomare, prendeva i giornali all'ex edicola della stazione ferroviaria, andava al Bar Jolly, in quella che oggi è piazza Tiziano Chierotti, prendeva il bus per andare a Sanremo dalla famiglia, stava con loro fino a pranzo e poi andava al Casinò. Verso sera tornava su Arma di Taggia per scrivere tutta la notte. Era un personaggio molto particolare, amava giocare sul suo mistero e sull'essere riservato. Anche per questo non è stato un lavoro facile. Ci tengo a ringraziare Roberto Santini per le ricerche ed il materiale, Sandro Cesari per la toponomastica ed il sarto Manco, forse l'unico testimone che ha parlato con Landolfi”.
Stefano Michero, Il legame tra Arma di Taggia e lo scrittore Tommaso Landolfi..., Sanremo news.it, 19 marzo 2019

mercoledì 14 maggio 2025

Alcuni aspetti dell’esperienza di Torri Superiore sono replicabili e già abbondantemente replicati





Una frazione di Ventimiglia disabitata da decenni, le antiche case in pietra in stato di abbandono, il farsi strada del degrado, dell’indifferenza, della rovina… Questo lo scenario che si presentava a fine anni Ottanta agli occhi di un visitatore che si fosse addentrato tra i vicoli silenziosi del borgo medievale di Torri Superiore. Forse avrebbe incontrato Nando Beltrame, l’ultimo dei suoi abitanti, che vi ha vissuto fino al 2000. Attorno terreni perlopiù incolti, nemmeno in vendita, ricoperti di rovi e vitalba: una Machu Picchu nostrana, in miniatura.
A pochi chilometri dal mare, in Val Bevera, Torri Superiore ha conservato quasi intatte le sue caratteristiche originarie.
[...] Nel 1989 una coppia (lei originaria del luogo, lui torinese) identifica in Torri Superiore il luogo ideale per un’operazione di “riciclaggio urbanistico”, dove affiancare al recupero architettonico di un prezioso patrimonio collettivo la possibilità di trasferire la propria residenza e le proprie capacità professionali. Un progetto per far convivere la ricerca personale di uno stile di vita sostenibile con quel senso di responsabilità verso i beni collettivi che in quegli anni ha dato vita al grande movimento del volontariato.
Nasce su queste basi l’associazione culturale Torri Superiore fondata l’11 giugno 1989 a Torino, con i seguenti obiettivi statutari: promuovere l’acquisizione e il recupero del borgo e dei terreni circostanti; avviare un complesso di attività economiche (artigianato, agricoltura, formazione); creare un insediamento stabile o temporaneo dei propri associati secondo una struttura di tipo comunitario; realizzare una struttura ricettiva-culturale; costituire un centro di studi e ricerca sui temi del rispetto ambientale e della tutela dei diritti umani.
L’associazione non ha scopo di lucro e finalizza tutte le energie, economiche e operative, alla rivitalizzazione del borgo medievale. Gli obiettivi statutari iniziali sono tuttora in vigore.
I primi insediamenti residenziali da parte dei soci sono iniziati nel 1992. Oggi a Torri Superiore vive stabilmente una comunità di circa trenta persone, tra cui molti bambini. I residenti condividono i pasti (anche se ciascun appartamento ha una sua cucina indipendente) e si sono dati una struttura decisionale collettiva che si riunisce una volta alla settimana.
L’esperienza più che ventennale dell’ecovillaggio di Torri Superiore è nata e cresciuta grazie alla sinergia tra l’ente “padre” del progetto (l’associazione culturale Torri Superiore) e il gruppo non formalizzato dei singoli che hanno scelto di trasferirsi a Torri come residenti, sviluppando attività culturali e creando occupazione in vari campi (agricolo, turistico, servizi, artigianato, ecc.). I residenti sono quasi tutti soci dell’associazione culturale; a chi non è ancora socio è richiesto di diventarlo compatibilmente con il percorso di inserimento nella comunità (un anno).
A queste due componenti iniziali si è aggiunta nel 1999 la Ture Nirvane Società Cooperativa a r.l. come strumento giuridico e di lavoro per portare a compimento alcuni degli scopi associativi, in particolare la ristrutturazione degli immobili e l’apertura di un centro culturale-ricettivo per creare opportunità di lavoro per i residenti.
[...] Il confine fisico è dato, al momento, dal villaggio medievale che limita la capienza massima di residenti ed ospiti. L’associazione culturale ha molti soci non residenti, ma nessuno abita nelle immediate vicinanze. Un altro confine fisico è dato dall’esiguità dei terreni coltivabili disponibili in valle a causa dei terrazzamenti (che richiedono una grande quantità di manodopera) e dei prezzi altissimi del terreno agricolo. I confini amministrativi non sono un problema insormontabile, perché avendo tre diverse entità (l’associazione culturale, la cooperativa e la comunità residente) tra loro interconnesse, di cui due formalizzate ed una informale, si riesce a portare avanti bene il progetto complessivo. Il confine economico, che sempre esiste, ha imposto cautela negli investimenti e lentezza (ma determinazione) nella realizzazione dell’opera.
[...] Alcuni aspetti dell’esperienza di Torri Superiore sono replicabili e già abbondantemente replicati: la vita comunitaria e le modalità di gestione delle relazioni interne, la condivisione degli spazi, la produzione agricola locale per autoconsumo, l’utilizzo di tecniche di bioedilizia ed autocostruzione, l’orientamento generale alla riduzione dei consumi e alla decrescita felice. Questi stimoli sono stati condivisi con il mondo esterno attraverso le reti di cui facciamo parte, il programma dei nostri corsi e seminari, il contatto diretto con chi ha soggiornato qui come ospite o volontario.
Altri aspetti del nostro percorso presentano invece elementi di scarsa replicabilità: la natura stessa del borgo medievale è molto particolare e la fortunata localizzazione, per sua natura unica (tra mare e monti, a pochi chilometri dalla Francia e dalla città di Ventimiglia, in campagna ma accessibile con mezzi pubblici), ha contribuito alla creazione e alla crescita del centro turistico ricettivo. La campagna acquisti del bene immobiliare ha richiesto un arco di tempo enorme, due decenni: sono pochi i gruppi che possano permettersi di aspettare così a lungo prima di fruire dell’investimento economico.
Una serie di eventi fortunati e fortunosi ha consentito a Torri Superiore di attraversare e superare diverse gravi crisi di natura legale, finanziaria e umana. La prima, ad un anno dalla fondazione dell’associazione, è stata originata da errori di impostazione e di investimento. Sottovalutate le difficoltà ad ottenere finanziamenti per i restauri, sono state fatte scelte azzardate, come quella di assegnare il primo progetto di recupero ad un famoso architetto genovese per poi scoprire che aveva stravolto le idee del gruppo, creando una specie di resort avveniristico ed assai poco funzionale per una comunità. Risultato: enormi debiti, rischio di fallimento, grossi sacrifici per risanare la situazione da parte di chi ci credeva veramente (ed è tuttora parte del progetto). La seconda crisi, dieci anni dopo, è stata legata al rischio che il progetto naufragasse a causa degli orientamenti diversi (uno più spirituale ed un altro più laico) delle due componenti del gruppo associativo. Ha prevalso, dopo un anno di elaborazione collettiva ed infiniti dibattiti e discussioni, il gruppo laico che gestisce tuttora l’ecovillaggio. Infine, nei primi anni Duemila, si è presentato un altro momento di difficoltà dovuto alla difficile trasformazione del borgo da casa della comunità a centro turistico ricettivo, che ha reso necessario rispettare norme di legge (sicurezza, igiene, lavoro, ecc.) che spesso mal si conciliano con la vita quotidiana di un gruppo; ne è nata una sorta di contrapposizione tra le istanze esistenziali, minimaliste e familistiche di chi ci abita, e le necessità di chi sta creando posti di lavoro e deve operare entro ambiti ben precisi, con margini di manovra assai stretti.
Il percorso compiuto può, se non altro, fornire ad altri gruppi comunitari idee e spunti su cui riflettere. Al momento non ci sono crisi interne aperte.
La crisi economica generale impone nuove strategie e riflessioni, quella energetica già si vede all’orizzonte. Il turismo forse non si fermerà, però questa prima fonte di reddito potrebbe cambiare parecchio ed è necessario capire come rimanere flessibili ed adattabili.
Il punto di forza di Torri Superiore rimane comunque la sua natura poliedrica e diversificata, l’unione territoriale tra casa e lavoro e la relativa stabilità (negli ultimi dieci anni) del gruppo residente, composto da persone di età diverse e con abilità pratiche tra loro complementari.
Lucilla Borio e Massimo Candela, Torri Superiore, un borgo recuperato in (a cura di) Paolo Cacciari, Nadia Carestiato, Daniela Passeri, Viaggio nell'Italia dei beni comuni. Rassegna di gestioni condivise, Marotta & Cafiero editori - Napoli, 2012

giovedì 8 maggio 2025

Da piccolo avrei voluto che sulle case, sulle colline, ci fossero delle bandierine con su scritti i nomi dei luoghi

Ventimiglia (IM): Capo Mortola

Ventimiglia (IM): uno scorcio della Frazione Latte e della zona prossima a località Bataglia

La nonna con intuito e presentimento circa il grave andamento dell’ultimo periodo della guerra mondiale, dalla terrazza dell’osteria [località Battaglia - o Bataglia - di Ventimiglia (IM) in zona Ville], guardando l’orizzonte, aveva scritto sul suo diario [Caterina Gaggero Viale, Diario di Guerra della Zona Intemelia 1943-45, Edizioni Alzani, Pinerolo, 1988]: “Noi di qui ci siamo goduti lo spettacolo ma il nostro turno arriverà di certo”.
 
Ventimiglia (IM): una parte centrale di zona Ville

Il 3 di agosto 44 aveva scritto che “alle Ville abbiamo da lamentare una morta, la Magnuna che lavorava da Enrico a raccogliere ceci”. Era l’inizio di un periodo ancora più penoso.
 
Ventimiglia (IM): uno scorcio del Vallone di Latte

24 agosto 44 “La collina di Piematùn è tutta in fiamme, così il vallone di Latte fin quasi ai Carletti e su verso Villatella”.
25 agosto del 1944 la nonna scrive che “due bombe sono cadute nel giardino della signora Bice Negrotto, una nei pressi di Mamante e due a Mortola”. La Bice era Beatrice Biancheri vedova Negrotto e poi sposata con Orazio Orengo, “U sciù Orazio”.
 

Latte, Frazione del comune di Ventimiglia (IM): Villa Anna

30 agosto 44 “Altro incendio a Villa Anna che ha subìto qualche danno”. Villa Anna ha ancora lo stesso portone in via Romana 25, anche se all’interno i pini e gli eucalipti più recenti soffocano gli ulivi e i citroni di allora e ne mangiano le radici.
8 settembre 44 “Violento cannoneggiamento su Bellenda, Longoira e Sealza. Un proiettile è caduto vicino al cimitero di Latte, un altro alla Turreta”.
 
Monte Longoira visto da zona Ville di Ventimiglia (IM)

11 settembre 44 “In Bellenda e sulla Longoira si vedevano le mine che scoppiavano”.
12 settembre 44 “Stasera prima di andare a letto, abbiamo assistito al chiarore che manda la Magliocca in fiamme”.
14 settembre 44 “Le navi davanti alla costa hanno sparato da Carluccio. Granate anche sulla scuola di Latte dove sono alloggiati i tedeschi”. Carluccio credo che fosse un Bruzzone parente alla lontana.
16 settembre 44 “Tre bombe sono cadute dal Petaletu, tre da Ballestra, parecchie dal Cantù, tre da Pippo, tre da Rocco, e qualcuna alle Ville”.
18 settembre 44 “Il luogo più colpito è stato dalla Funtaneta fino al passo delle Ville”.
 
Ventimiglia (IM): l'ex stazione ferroviaria di Latte

19 settembre 44 “Colpita la stazione di Latte, la zona sopra la casa di Tullia e molte granate cadute qua e là”. Tullia era una signora che io ricordo come una immagine liberty dipinta con un cappello a falda larga e un nastro di cotone fantasia che si abbinava bene alla pianta di glicine che fioriva sulla ringhiera del balcone della sua casa di Latte. Poi era diventata la casa di Pié e Lina.
20 settembre 44 “Verso le tre del pomeriggio una cannonata ha colpito la cantonata dell’Erba Luisa”. La pianta chiamata anche Limoncina si era salvata ed era ancora lì cinquanta anni dopo, mentre la muraglia era stata ricostruita alla fine della guerra.
21 settembre 44 “La più vicina a noi è caduta dalla scaletta, sotto la cantina di Pippo e poi dal Petaletu, da Ballestra, da Pinella, dal casello…” Erano terreni scendendo da Bataglia fino al casello della ferrovia e al mare.
23 settembre 44 “Questa notte i tedeschi hanno fatto saltare il ponticello della ferrovia sotto la Villa Olivier, alla Mortola”.
27 settembre 44 “Ieri sera i tedeschi hanno visitato i manenti di Lanfredi; al Petaletu hanno portato via carro e barroccio”.
28 settembre 44 “Ieri sera una granata ha scoperchiato la casa di Armando U Re”. Era dei Calandri ma stava sotto porta Canarda.
30 settembre 44 “Oggi, all’una dopo pranzo, hanno cominciato a piovere granate su Latte, sulle ville San Giorgio, Orengo, Notari e Ammirati”. La casa Ammirati era nelle vicinanze di villa Corinna sul versante orientale del Bellenda.
 
Latte, Frazione del comune di Ventimiglia (IM): la "Casa del Vescovo"

3 ottobre 44 “Stasera hanno fatto sfollare quelli che abitano da Botti, dalla Casa del Vescovo, da Roberto e da Ballestra”. Sono zone confinanti tra di loro tra Murru Russu e la via Romana.
 
Ventimiglia (IM): uno scorcio della campagna di Casa Borghino

Ventimiglia (IM): proprietà "Vento Largo" in Strada Ville

7 ottobre 44 “Ieri sera è toccato a Borghino: i tedeschi gli hanno portato via il fieno e un manzo”. La casa di Borghino alle Ville sopra al Botasso adesso la chiamano Vento Largo.
 
Ventimiglia (IM): la parte bassa (di levante) di zona Ville, Forte San Paolo, Forte dell'Annunziata

8 ottobre 44 “A Pascà i tedeschi hanno preso la vacca. Ieri hanno portato via le somare di Giuà du Rissu e di Migliu. Oggi una scheggia ha ucciso la capra a Giuanin”. In prevalenza sono tutti luoghi alle Ville.
15 ottobre 44 “Molte sono cadute dalla casa del Vescovo, da Botti e da Riva. Innumerevoli altre al Cantù e dal Conte”. Il Cantù è una campagna della Pistuna sopra al passaggio della via Romana, vicino alla pianta del “pècugognu” [melo cotogno] prima che il cammino scenda verso l’Aurelia.
 
Ventimiglia (IM): Porta Canarda

20 ottobre 44 “Verso sera sono venuti da noi tre tedeschi che sono alloggiati nella villa di Miss Campbell. Hanno preteso un gallo, nostro malgrado”. La villa della Campbell è proprio sotto porta Canarda, adesso di proprietà dei Trucchi.
 
Ventimiglia (IM): una vista da Mortola

28 ottobre 44 “Vicino a noi, da Gaspà, dal Petaletu, dal Ruveu, da Carluccio non abbiamo avuto gran che di colpi”. “La settimana scorsa sono morte due suore Fedeli Compagne di Gesù del convento di Villa Belvedere alla Mortola. Sono morte per causa di malattia e sono state seppellite nel giardino del Belvedere stesso”.
Ho due cartoline di epoche diverse con la fotografia della Villa con descrizioni differenti. La prima porta ancora l’indicazione “Villa Federico Notari”, la seconda cartolina di alcuni anni dopo in cui la vegetazione è cresciuta intorno è descritta come “Villa Belvedere - Suore Fedeli compagne di Gesù”. Ad agosto del 1903, riferiva infatti Girolamo Rossi nelle sua cronaca: "Federico Notari aveva affittato la sua villa di Canun a monache francesi che successivamente la acquistarono. Nello stesso periodo vi furono numerosi insediamenti similari nella zona per una legge francese che chiudeva gli istituti religiosi con attività scolastica".
 

Ventimiglia (IM): il vallone del rio Botasso a pochi metri dalla Via Aurelia

Ventimiglia (IM): la foce del rio Botasso

29 ottobre 44 “Era tutta un’unica nuvola di fumo: da Botti si sono incendiate le serre e i pali che si trovavano presso il ritano del Botasso”. Il ritano è il confine a ponente della frazione Ville con Piematun e i Piani di Latte e termina nel mare a fianco di Villa Botti.
Con così tanti particolari fissati sui quaderni della nonna e molti altri ricordati a voce, non potevo confondere i luoghi e da piccolo avrei voluto che sulle case, sulle colline, ci fossero delle bandierine con su scritti i nomi dei luoghi.
Arturo Viale, Punti Cardinali. Da capo Mortola a capo Sant'Ampelio, Edizioni Zem, 2022
 
[n.d.r.: altre pubblicazioni di Arturo Viale: I sette mari. Storie e scie di navi e di naviganti e qualche isola, Book Sprint Edizioni, 2024; La Merica...non c'era ancora, Edizioni Zem, 2020; Oltrepassare. Storie di passaggi tra Ponente Ligure e Provenza, Edizioni Zem, 2019; L'ombra di mio padre, 2017; ViteParallele, ed. in pr., 2009; Quaranta e mezzo; Viaggi; Storie&fandonie; Ho radici e ali; Mezz'agosto, 1994; Viaggi, 1993]

giovedì 1 maggio 2025

L'obiettivo era quello di recarsi a Glori sul luogo dei cantieri

Fonte: Alessia Parravicini, art. cit. infra

[...] Sessantun anni fa, l'11 novembre 1963, il popolo di Badalucco e dell'intera Valle Argentina insorse per bloccare la costruzione della diga di Glori in una mobilitazione che passò alla storia come la 'battaglia di San Martino'. Il contesto della ribellione ha radici profonde. L'episodio avvenne infatti a seguito di due eventi che si susseguirono nel tempo: il disastro del Frejus nel 1959 e quello [Vajont] del 1963.
Battaglia di San Martino, le parole di Matteo Orengo
A ricordare quel giorno storico è il sindaco di Badalucco, Matteo Orengo. “La ribellione dell'11 novembre fu una data epica per noi badalucchesi”, ha esordito.
“Rispetto allo scorso anno, quando abbiamo festeggiato quell'anniversario con molta preoccupazione e paura perché sembrava che si dovesse tornare a costruire quella diga, quest'anno siamo molto più sereni e tranquilli. Sappiamo che questo progetto è stato definitivamente accantonato”, ha spiegato il primo cittadino. Una decisione definitiva che è stata accolta dai cittadini con un grande sospiro di sollievo e la certezza che sulla diga di Glori  'è stata messa una pietra tombale'.
Orengo ha sottolineato anche la solidarietà e il legame con Longarone. “Colgo anche l'occasione per ricordare gli amici del Vajont con il sindaco Roberto Padrin di Longarone. Ci siamo sentiti in occasione del 4 ottobre per le loro celebrazioni e abbiamo espresso la nostra vicinanza per l'invaso che vogliono costruire nel Vanoi. A nome mio e di tutta la comunità abbiamo inviato una lettera di solidarietà per manifestare il nostro sostegno alla loro drammatica situazione“, ha proseguito il sindaco.
[...]
Alessia Parravicini, Badalucco, 61 anni fa la 'battaglia di San Martino' contro la diga di Glori, Riviera time television, 11 novembre 2024

Fonte: Angelo Boselli, art. cit. infra

[...] Grande partecipazione alla presentazione del libro “Per non dimenticare”, contro la realizzazione dell'opera. [...]
Angelo Boselli, Badalucco, la diga fa ancora paura: “Noi, pronti alla lotta per dire no”, Il Secolo XIX, 22 Dicembre 2024

[...] Il libro affronta il tema, sempre attuale, della diga di Glori in Valle Argentina e delle sue possibili varianti in invasi e bacini. Il testo è arricchito da documenti risalenti al periodo del primo progetto di realizzazione della diga (anni '60), ma anche al 1984 e ai periodi più recenti, in cui l'ipotesi della diga è tornata a far discutere. Gli autori descrivono, attraverso una dettagliata cronistoria e una preziosa documentazione fotografica, i momenti più importanti della vicenda e della contestazione da parte degli abitanti della valle.
Anche questa volta il libro, che documenta una vicenda rilevante per il nostro entroterra, incentrata intorno al problema della gestione delle acque, diventa l'occasione per un momento di confronto sulle tematiche, le storie e le problematiche che riguardano ancora oggi le nostre valli e più in generale un'Italia spesso considerata ai margini. [...]
Redazione, “Per non dimenticare”: a San Biagio il libro che racconta la lunga vicenda della diga in Valle Argentina, Sanremo news.it, 4 aprile 2025

[...] La questione della diga di Glori-Carpenosa sul torrente Argentina ebbe inizio nel 1941 con un progetto da subito avversato, che non trovò sviluppo e fu accantonato a causa della guerra.
Tornò alla ribalta nel secondo dopoguerra del secolo scorso: in Italia dopo la riconquista della libertà e la ripresa democratica ferveva la corsa alla ricostruzione del Paese e alla ricerca dell'energia idroelettrica, "l'oro bianco", per far ripartire e sviluppare le industrie del Nord. All'epoca il maggior partito politico era la Democrazia Cristiana, che esprimeva le più importanti cariche dello Stato e amministrava dal centro alla periferia, in particolare la provincia di Imperia e i comuni della valle Argentina, tra cui Badalucco.
Nel 1947 il Comune di Badalucco, rappresentato dal Sindaco Nicola Bianchi, e quelli della valle Argentina presentarono ricorso al Ministero dei Lavori pubblici contro la domanda, già inoltrata nel 1941, bloccata dalla guerra e poi  ripresa dalla Società Idroelettrica Valle Argentina, S.I.V.A., intesa a conseguire l'autorizzazione a derivare acqua dal torrente Argentina e dai suoi affluenti.
[...]
La battaglia di San Martino: 11 novembre 1963
La tragedia del Vajont con il suo pesante carico di distruzione e di morte fu decisiva per la lotta alla diga. Nel giro di un mese nella valle Argemina il Comitato intercomunale, composto dai rappresentanti di Taggia, Badalucco, Montalto e Riva Ligure, organizzò una grande manifestazione popolare.
L'obiettivo era quello di recarsi a Glori sul luogo dei cantieri per la costruzione della diga l'11 novembre e di restarci fino ad ottenere la sospensione dei lavori.
Il giorno precedente si predispose la serrata degli esercizi commerciali e di tutte le attività produttive e ci si organizzò per il trasporto delle persone. All'alba dell'11 novembre, giorno di S. Martino, a Badalucco il campanile della Parrocchia con l'autorizzazione del Parroco e l'opera del sacrista suonò a distesa le campane a martello. Dalla costa a Glori iniziò un flusso ininterrotto di veicoli: moto, vespe, lambrette, motocarri, automobili, che bloccò il traffico ordinario della valle.
[...] Davanti a noi c'erano il Sindaco di Badalucco Filippo Boeri, i Rappresentanti di Taggia, Montalto e Riva Ligure, il Parroco Don Aldo Caprile, il Parroco badalucchese di Pompeiana, Don Augusto Rodi, che parlavano con gli ufficiali della Celere, i quali a loro volta erano in continuo contatto telefonico con il Prefetto di Imperia. Di Don Rodi, Rochìn, mi è rimasto impresso che, in piedi sul predellino di una camionetta, parlava con i poliziotti e diceva loro che eravamo gente pacifica.
A mezzogiorno mangiammo i panini che avevamo portato. Non era una scampagnata; l'atmosfera era molto tesa; l'aria si tagliava a fette.
La giornata andò avanti con urla continue della gente. Si continuava a chiedere la sospensione dei lavori. Verso le tre del pomeriggio sentimmo l'acre odore del fumo. Si trattava di una ruspa, che stava bruciando sul greto del torrente. Vi furono momenti concitati di panico, con i poliziotti che si facevano strada tra la folla, per scendere lungo il pendio a verificare quanto era successo.
Tra le quattro e le cinque del pomeriggio arrivò dal Prefetto di Imperia l'ordine telefonico di sospendere i lavori per gravi motivi di ordine pubblico. Ci fu comunicato dai poliziotti con il megafono. Ci furono battimani, urla di gioia, baci e abbracci. Fu una grande vittoria della popolazione della Valle, che era salita fin lassù decisa e pronta a tutto, per difendere il sacrosanto diritto alla vita. Riprendemmo felici la strada del ritorno a casa. Quella volta, dopo anni di lotta, fu vinta una battaglia decisiva.
L'11 novembre passò alla storia come il "giorno della Battaglia di San Martino". [...]
(a cura di) Antonio Panizzi e Franco Bianchi, Per non dimenticare. La questione della diga nella valle Argentina, Philobiblon, 2024

lunedì 21 aprile 2025

Mia mamma cuoceva la sardinara, piatto forte di Sanremo

Sanremo (IM): Piazza Colombo

Tra i primi ricordi della mia infanzia c'è quello di mia madre che mi prepara pane e pomodoro. Erano i primi anni del secondo dopoguerra, non c'era molta abbondanza ma noi piccoli bambini non ce ne accorgevamo. I cibi erano semplici e gustosissimi. Il sapore di quel pane, fatto ammollare con un po' d'acqua per permettere ai miei pochi denti di morderlo, con sopra un pomodoro schiacciato, un po' di sale, olio e basilico mi è rimasto dentro, come un ricordo di tenerezza, un profumo di casa che mi commuove ancora oggi.
Un appuntamento eccezionale era quello con "a lùna", un testo rotondo di rame dove mia mamma cuoceva la sardinara, piatto forte di Sanremo e, sotto altri nomi, caratteristico di tutta la Liguria di Ponente. Si tratta di una pasta lievitata, su cui si mettono pomodori, capperi, filetti d'acciuga sotto sale, olive liguri piccole e scure (oggi si dice taggiasche) e abbondante olio. Dimenticavo una cosa essenziale: nella pasta soffice, con sopra il pomodoro fresco (ma vanno bene anche i pelati preventivamente schiacciati o la polpa di pomodoro) si inseriscono "e dosse d'aju", cioè spicchi d'aglio "vestii", cioè lasciati con la loro buccia.
Il profumo della sardinara è così caratteristico che nessuno può negare di averla cotta, si espande dalla propria casa a quella dei vicini e una fetta non si può negare a nessuno.
Altro profumo indimenticabile è quello della farinata, farina di ceci fatta sciogliere nell'acqua appena appena tiepida e lasciata riposare per un'ora almeno. Ci si aggiunge sale, olio, se si vuole un cipollotto fresco tagliato fine fine. Non fatevi ingannare dalla semplicità di questo piatto, perché più un cibo è semplice più richiede esperienza perché riesca bene. Vanno proporzionate con precisione tre cose: la farina, l'acqua e la misura della teglia, che deve essere di rame e preventivamente unta con l'olio di oliva. Si deve infornare quando il forno è al massimo del calore, perché la miscela si rassodi quasi subito. Dopo una ventina di minuti, quando la superficie sarà di un bel colore giallo oro e il suo profumo si sarà sparso ovunque nei dintorni, la farinata sarà pronta. Una volta si portavano questi cibi ancora da cuocere al forno più vicino a casa, che in genere era anche una panetteria. Per la farinata si andava con una teglia e con un pentolino che conteneva il liquido preparato, facendo attenzione a non spanderlo per la strada. Nel forno avveniva poi la messa in opera e la sapiente cottura.
Nei primi anni del secondo dopoguerra, quando l'olio si comprava a un quarto di litro per volta portando in negozio il contenitore a cui si faceva la tara, un mio zio che ricordo sempre allegro e con la voglia di scherzare, quando mangiava pane e pomodoro scarsamente condito, faceva finta di leccare con avidità l'olio che solo nella sua fantasia traboccava dal pane: un teatrino spensierato che ci ha reso ancora più indimenticabile quel mangiare.
Chiara Salvini, Pan e pumata: liguritudine con olive taggiasche di Donatella D'Imporzano, Nel delirio non ero mai sola, 1 ottobre 2015

Il raccontino sul pan e pumata me lo hai ispirato quando mi descrivevi con quale cura tuo papà lo preparava. Prova a descriverlo, così potremmo fare delle sedute molto approfondite sulle diverse modalità con cui "vivere" il pan e pumata, come direbbe qualche famoso critico gastronomico nell'era di "Eataly".
(Donatella)
No, nini, non ti ricordi, che "vivere" si vive solo il kilim, anche addentando un pane e pomodoro!
[...] Prima di venire a casa alla sera, mio padre soleva comprare il PANE DI TRIORA che arriva a Sanremo tutti i giorni.
Si portava in tavola l'occorrente, ossia il pane tagliato a fette, olio aglio e pomodori… forse erano quelli buonissimi che crescono in estate in Liguria.
come sapete si chiamano "cuore di bue" perché - mangiati - vi fanno sentire un bue tutto cuore!
Ora si metteva comodo, spostando piatti e forchette…
Ci siete, tutto occhi e immaginazione?
Prima cosa prendeva l'aglio sbucciato, e lo passava con dolce energia sulla crosta del pane… che grattugiando l'aglio se lo incorpora un pochino…
Tagliava i pomodori a metà lasciando i semi e la pelle…
Ognuna delle metà la spiccicava sul pane, con energia più forte… il pomodoro va ad impregnare il pane e di sé ne lascia poco…
Toglieva dal pane il pomodoro a tutte e due le fette…condiva con un po' di sale, poco, e olio abbondante, a lui piaceva guardare "o rujo" dell'olio sul pane…
Aveva mantenuto la tradizione di suo padre che faceva in casa sia l'olio che il vino dalle campagne.
A mio papà però era successo un guaio morale grosso: in casa sua, le due donne che governavano la casa, mia madre e la sua prima figlia, mia sorella, odiavano sia l'uno che l'altro: il vino: "oh, come sa di aceto!", e l'olio lo mandavano alla ditta Carli, poi compravano da Carli l'olio per condire… con uno sconto, immagino [...]
Chiara Salvini, 16:26 Così tirata in ballo, e dopo aver gustato il tuo miserello "pan e pomata"..., Nel delirio non ero mai sola, 1 ottobre 2015