venerdì 2 ottobre 2020

Sandro Bajini e la musica

Fonte: Wikipedia

Sandro Bajini, classe 1928, anche se è laureato in medicina e si è sempre occupato di teatro e poesia, è un eccellente appassionato di musica, soprattutto classica e opera. Da giovane ha suonato fisarmonica e flauto dolce, ha scritto un libretto d'opera ("Il sesto cerchio", ispirato da un racconto di Cechov, su musiche di Luigi Abbate) e il protagonista di "Fagotto rosso" (Philobiblon), sua felicissima opera di narrativa, è appunto un fagottista, un professore d'orchestra comunista che narra in prima persona la fine di un'epoca dopo il crollo del socialismo. In sostanza è sempre stato in compagnia della musica e a Milano, dove vive, pur essendo originario della provincia di Pavia, ha avuto la possibilità di assistere a molti concerti. C'è, però, nella sua "carriera" di ascoltatore una lacuna, così la definisce lui: il jazz, la musica colta afro-americana. Da qui parte la nostra intervista.

Il nostro sito, come sai, si occupa principalmente di jazz e improvvisazione. Settore che però tu non hai mai amato. Puoi spiegarci perchè?
"Tu mi hai scritto, in una lettera, che i canti blues, che poi generarono il jazz, nei primi anni del 900 erano un inno alla libertà per gli afro-americani, schiavi nelle piantagioni di cotone. Se penso a questo mi sento in dovere di amarlo e colpevole di non averlo amato. E mi vedo come quel piccolo borghese meschinetto che sono. Che cosa dunque "non mi convince” nel jazz? Non certo la poliritmia e la sincope, che esistono in tutta la musica da secoli, ma l’improvvisazione, che sposta l’attenzione e il giudizio dalla musica all’esecutore. È questa la vera novità e credo che il punto dolente sia tutto qui. Credo che un’opera d’arte sia qualcosa di concluso e che non possa essere modificata ma soltanto interpretata  nelle sue componenti. L’improvvisazione nega validità all’opera in sé e la fa diventare materia bruta per la sua momentanea elaborazione, il cui risultato è una serie che tende all’infinito, dove l’arte non sta nell’opera ma in chi la realizza. Anche questo è tuttavia poiein e se la poesia è poiein qualsiasi poiein ha diritto di esistere".

Personalmente ritengo che l'approccio giusto per ascoltare la musica sia quello di lasciarsi guidare dalle emozioni, dalle sensazioni, senza cadere in una deriva razionale o cerebrale? Qual è in tal senso la tua opinione?
"Ma si può amare qualcosa, o qualcuno, perché la ragione lo giudica necessario? Il fatto è che il jazz io non lo “sento”, e la musica si “sente”, poiché ti lasci guidare dalle sensazioni senza cercare un approccio razionale o cerebrale ed è l’atteggiamento giusto poiché la musica non chiede affatto di essere “capita”. Anch’essa parla a quel che comunemente si chiama cervello ma che anatomicamente si chiama encefalo, di cui il cervello propriamente detto, sede della razionalità pura, è la parte più superficiale. Sede delle sensazioni e dei sentimenti è invece la parte interna dell’encefalo, il mesencefalo. Ed è al mesencefalo che la musica parla. Essa parla, ma soltanto a coloro che la vogliono “sentire”. Adorno non la vuole sentire ma la sottopone ad un processo di razionalizzazione, la vuole soltanto “capire”, e la capisce tutta, senza mezzi termini, la  esaurisce nella razionalità e nella storia, la considera più una scienza in evoluzione che un’arte. E non ha dubbi nel preferire Schonberg a Stravinskij, per il semplice fatto che Schonberg ha inventato la dodecafonia ed è più all’avanguardia. Un giudizio di questa fatta è possibile senza ascoltare la musica dell’uno e dell’altro. Se io adottassi il metodo Adorno, apprezzerei il jazz infinitamente, essendo più che sufficiente la ragione di cui all’inizio".

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E i tuoi compositori ed esecutori preferiti?
"Non ho particolari preferenze, e non oppongo i classici ai romantici. Confesso la mia debolezza per il teatro musicale, con grande scandalo dei “puri”, che a parlare di Verdi inarcano il sopracciglio e a parlare di Puccini hanno lipotimie da pronto soccorso. Non confondermi coi cosiddetti “loggionisti”, che spasimano per un acuto e che detesto più che lo zucchero nelle lenzuola. A me i cantanti non interessano, a meno che cantino molto bene o molto male. Mi basta che emettano note nella frequenza richiesta. Sono degli esecutori, a cui sono grato come sono grato agli orchestrali e al direttore. Preferisco comunque gli appassionati che ci mettono la faccia ai perfezionisti della tecnica. Detestavo Benedetti Michelangeli, perché “la metteva giù” e mi costringeva all’ammirazione prima che incominciasse a suonare. Ho amato Edwin Fischer, interprete meraviglioso che ogni tanto faceva degli errori. Mi ricordo che in un concerto, dopo una stecca, guardò il pubblico divertito e diede in una fragorosa risata".

Tu vivi a Milano, anche se d'estate ti vediamo con piacere a Sanremo, e dunque non posso non farti una domanda sul Teatro alla Scala, simbolo della città. Quali sono i tuoi ricordi, i concerti memorabili? Oggi ci vai ancora?
"Non ci vado più. Sono troppo vecchio e non resisto alla fatica che una serata richiede. Mi limito ad ascoltare quando posso le diffusioni radiofoniche. Ho della Scala ricordi lancinanti. Uno solo: il Requiem di Verdi, diretto da Toscanini nel secondo concerto del dopoguerra, interpreti Renata Tebaldi, Giacinto Prandelli, Ebe Stignani e Cesare Siepi. Ero in loggione (ovviamente), al limite estremo del palcoscenico, aggrappato alla sbarra (se sputo, mi dicevo, colpisco un orchestrale). Finisce il Kirie. Una breve pausa. Toscanini dà l’attacco con la bacchetta, che si sposta di un tratto brevissimo, non supera i tre centimetri, e si scatena il finimondo del Dies irae. Grazie alla sbarra non cado in platea, e ringrazio il cielo, non tanto per me quanto per il sottostante contrabbassista".

E a Sanremo hai frequentato il mondo della musica? Forse i concerti dell'Orchestra Sinfonica?
"Dell’Orchestra Sinfonica, se appena posso, non perdo un concerto. É un’istituzione che onora la città (quante sono in Italia le altre città che hanno un’Orchestra Sinfonica?), e mi pare che le sue esecuzioni siano validissime. Del resto io non ci vado col fucile puntato. Ascolto la raccomandazione di Moliere, di “se laisser prendre aux choses”. Tu mi proponi qualcosa ed io ti ascolto di buon animo. Detesto certi intellettuali, che ascoltano la musica come se in sala ci fossero cattivi odori. E mi dico: è sleale essere cretini e non averne la faccia".

Platone affermò che, come la ginnastica serviva ad irrobustire il corpo, la musica doveva arricchire l'animo. Per te è sempre stato così?
"La musica arricchisce l’anima, se l’ascolti senza preconcetti, se la fai tua, se no, arricchisce solo la massa delle informazioni. Con tutto questo, sapere che Alfano ha scritto Sakuntala va benissimo".

Nietzsche diceva che "Senza la musica la vita sarebbe un errore". Esagerava o condividi questa visione?
"Non esagerava. Al contrario, è questa una delle sue poche affermazioni in cui non ha esagerato".

Anche il nostro amato Cioran dedicò diversi aforismi alla musica. Vorrei sottoporre alla tua attenzione questo: "Se c’è qualcuno che deve tutto a Bach, questi è proprio Dio".
"Qui è Cioran che esagera un tantino. Ma il Signore Iddio deve ringraziare (ignoro se lo faccia o meno) diversi altri compositori, compreso Mozart, che ha il coraggio usare la stessa melodia (valori ritmici a parte) nelle prime battute di un’opera profana ("Le nozze di Figaro", atto terzo, aria della contessa “Dove sono i bei momenti”) e in quelle di una composizione  sacra, Agnus Dei della Messa dell’Incoronazione".  

Ora mi piacerebbe parlare della didattica musicale. In Italia, purtroppo, nelle scuole la musica è trascurata e i giovani non sembrano invogliati a studiarla, come invece avviene in altri paesi. Eppure, come ha dimostrato il maestro Abbado con il progetto Abreu, può diventare uno strumento di riscatto sociale. Tu come vedi la situazione?
"La musica è l’unico strumento in grado di salvare i ragazzi in miseria dalla loro miseria. Non è possibile pensare di farne dei medici o degli ingegneri, è molto più agevole per essi imparare il violoncello o il clarinetto. Il progetto di Claudio Abbado era realistico. Certo bisognerebbe che la musica trovasse una maggiore accoglienza nella società, così da dare lavoro ai nuovi arrivati. Non credo che il sogno di Abbado si concretizzi in nuove iniziative, e in ciò credo di essere altrettanto realistico"

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Marco Scolesi su The Mellophonium ONLINE, venerdì 6 marzo 2015