"Le case vicino al torrente" [philobiblon edizioni, Ventimiglia (IM)] è l'unico romanzo scritto da Luciano De Giovanni, poeta nato a Sanremo nel 1922 e morto a Montichiari nel 2001. Con questo "libro di memorie, più che autobiografia" (Stefano Verdino), l'autore, in brevi capitoli, rievoca uomini, donne ed animali incrociati tra l'infanzia e la maturità. La narrazione tende a bloccarsi in ritratti, per gettare un barlume sul profilo di presenze, restituite per un attimo vive, palpitanti. Lo stile sobrio ed il tocco leggero evitano sia indugi descrittivi sia riflessioni sull'inconsistenza delle esperienze umane, affidando alle cose ed agli eventi, da quelli quotidiani alle avversità della guerra, il compito di abbozzare un possibile disegno.
Si alternano così incontri e scorci di "fasce" coltivate ad ortaggi ed a vigne, interni intimi e squarci di mare in lontananza: sono episodi e scenari che De Giovanni riscopre con doloroso distacco, senza indulgere né alla nostalgia né cercando di estrarne un senso. Ogni incontro, non appena avviene, è già una perdita: abissi di silenzio ci separano dagli altri e gli avvenimenti si prosciugano come ombre al sole di mezzogiorno. "Fra le cose che accadevano e quelle che immaginavo non ponevo un preciso limite. Ne gustavo il vago sapore. Non avrei saputo spiegarlo: il gusto, può darsi, della vita che non sappiamo cogliere che pure preme, chiama di là dei confini".
La vita si sfalda, mentre una linea scura si insinua nel cuore. Con sommessa rassegnazione, il protagonista confronta gli anni in cui le colline di Sanremo erano disseminate di piccole case, tra ortivi e limoneti, con la successiva espansione urbanistica il cui danno non è solo nello scempio di valli e declivi, quanto nello sradicamento dalla terra, da un'esistenza dura ma viscerale. Chi ha assistito a questi cambiamenti soffre lo stesso silenzioso dolore che strappa le pagine finali del libro, dove il commiato dalle origini rende ancora più amaro il dolce che ancora si assapora in bocca, il ricordo dell'infanzia.
“Avrei voluto mutarmi in pietra, in tronco d’albero, partecipare più intensamente di questo mondo segreto del quale m’ero, chissà perché chissà per come, dimenticato. In ogni caso - e lo sapevo - m’era negato ormai. Non resistevo più di tanto: bastava un niente a riportarmi alla mia magra realtà”.
La vita si immerge nella caducità, poiché "nulla dura in questo strano mondo di pentimenti" e perché "la morte vince sempre": l'epilogo del romanzo scolora nella lieve dipartita del padre, in un mesto pomeriggio.
Alla fine l'autore con un filo di voce sembra chiedersi se sia più vano l'inafferrabile presente o il deserto ormai muto del passato.
da Zret Blog