martedì 5 marzo 2019

Una padella con le toppe


Ogni anno alle prime avvisaglie della fioritura dei mandorli, la nonna soleva ripeterci la solita storia.
Ci raccontava di un marito che diceva alla moglie: "Allarga la man Marí che il mandurl l’è fiurí", illudendosi che l’inverno fosse alle spalle.
Il gelo, infido, spesso tornava e con lui la fame, dopo aver terminato tutte le scorte.
Economizzare e temere gli imprevisti era la morale su cui riflettere e ricordare per il futuro.

In casa nostra funzionava così.
Per noi bambine, nate già nel benessere, era tutto incomprensibile.
Avevamo una vigna.
Ereditata dai bisnonni.
Le damigiane di vino lasciate indisturbate in cantina, producevano dell’ottima madre, utile per fare aceto.
Ne avevamo scorte per tutto il paese.
Il buon vino rimaneva al fresco per finire tra le braccia della madre (dell’aceto), perché noi a tavola avevamo un mediocre vinello.
Solo il ricordo mi fa stringere i denti.
Acqua rosata trasparente e acidula.
Il rito del fiasco era sempre quello.
Una scrollata decisa nel lavandino per espellere il «fiore».
Una schiuma bianca che si formava in superficie (Fioretta, lieviti che si formano quando il tasso alcolico è basso).
Vino annacquato, che si diceva poteva essere bevuto in quantità, per dissetarsi nei lavori in campagna.
Avevamo anche l'uliveto.
Con l'olio, l’epilogo era più o meno uguale; succedeva che si usava sempre quello vecchio che bruciava in gola e si faceva invecchiare quello nuovo che invece aveva mille aromi.
In agguato c’era sempre una calamità in arrivo per l'anno seguente. Si poteva restare senza.

Non solo! In cucina per le fritture si tenevano due tazze.
Una conteneva l’olio per friggere le verdure e l'altra esclusivamente per il pesce.
Non ricordo per quante volte si usava riutilizzarlo, prima di metterlo nel "mangiare dei cani".
Non si buttava niente.

Nelle credenze nel magazzino, c’erano invece scorte per una eventuale entrata in guerra o carestia.
Albanelle di zucchero, di cui avevano sofferto la mancanza, che diventava duro come il cemento e non era più utilizzabile.
Ci si ricordava della loro esistenza seguendo una colonna di formiche argentine che lo avevano individuato.
Vasi di acciughe sotto sale che con il trascorrere del tempo, perché prodotte in eccesso, emanavano odore di decomposizione.

Altra peculiaritá erano i bicchieri per offrire agli ospiti un liquore. Grandi come ditali.
La frase rivolta era “nun ne vurei miga?” (non ne volete mica?) e anche mica vuol dire non... quindi un no rafforzativo.
Nell'offerta era già la risposta suggerita e desiderata.
"No, grazie!"
Erano generazioni che avevano visto due guerre e non potevano aver fiducia nel futuro.
La terra del ponente è sempre stata una cattiva matrigna e aspettavano ancora nuove percosse.
Per noi è stato un passaggio breve, per loro tutta una vita.

In soffitta tutto ciò che ho trovato erano oggetti rotti.
Potevano ancora venir utili.
Piatti sbreccati, damigiane senza paglia, sedie senza una gamba, tazze senza manico e una padella con fori artigianali per cuocere le castagne che aveva una toppa di ferro per coprire un buco.

Ho pensato che niente era più esplicativo per presentare a chi non li aveva conosciuti i miei antenati.
La conservo con affetto perché mi racconta molto di più della loro foto con gli abiti della festa nello studio fotografico.

 Gris de lin

[ndr: il racconto è ambientato in Camporosso (IM)]