Il mio viaggio annuale in Piemonte era una sorta di regalo di Natale, anzi, il viaggio io me lo sognavo.
I giorni che precedevano la partenza, mia zia Petronilla (Pelilun) cucinava per ore, tra i fiori da portare ai fratelli dello zio ed ai morti piemontesi, tra i bottiglioni di olio che papà barattava in cambio di vino. Quel vino che quando lo zio lo fece arrivare a Pigna, nel suo ristorante “da Caterina”, mise a soqquadro le abitudini degli avventori, abituati come erano ad un vino leggero “a vigneta” come veniva genericamente definito quel vinello leggero ed aggiunto di acqua durante la spremitura, un vino per tutti i giorni: quello buono i miei concittadini se lo vendevano. Difficile era allora trovare del rossese o del vermentino nei locali pubblici. Tant’è che l’arrivo di quella Bonarda e e di quel Ciliegiolo spezzò le gambe a molti, abituati com’erano alla vigneta.
Lo zio grande bevitore e grande fumatore, due pacchetti di Gauloises senza filtro al giorno. Io in vita mia ho visto poche persone bere tanto e rimanere sempre sul pezzo. Loro i piemontesi, come affermava mio padre “i l’an in tu sanghe u vin”.
Lo zio era stato soldato sul finire degli anni trenta a Pigna, dove stazionavano a partire dal 1937 oltre cinquemila soldati e tanti altri erano dislocati sui nostri monti, da Gouta a Cima Marta.
Un pullulare di caserme e casermette dove giungevano da tutta Italia giovani uomini destinati a partire dal 1940 ai vari fronti, Greco, Albanese, tragedia immane del fronte Russo.
Lo zio Giovanni a Pigna vi restò, così come altri giovani militari.
Si sposò mia zia materna ed ebbe due figlie.
La prima figlia lo salvò, grazie alla prontezza ed al polso ferreo di mia zia, dal plotone di esecuzione nazista alla fine del 1944.
Quei giorni tristi di angoscia credo che segnarono per sempre la mia povera mamma, allora 17 enne che insieme alla zia conduceva l’osteria da “Baruffa” in piazza Colla.
Quei terribili momenti a partire dai giorni della Repubblica di Pigna a settembre sfociarono nel massacro di oltre 20 giovani pignaschi oltre ai terribili bombardamenti degli anglo francesi del dicembre del 1944.
Lo zio rimase piemontese fino alla fine dei suoi giorni, sia nella parlata che nei modi, oltre che alla sua idea di cucina.
Quella cucina patriarcale che aveva conosciuto nel Piemonte delle colline tortonesi era il suo imprinting: ricordo lo stoccafisso con le patate che la zia preparava, interi stocchi di Ragno che le recapitavano direttamente da Genova e che mia zia trasformava in una squisita buridda, senza eguali, o i suoi spezzatini, come diceva la mamma, senza limiti.
Lo zio amava il cibo come lo amo io. Credo che lui e la mia nonna paterna mi abbiano trasmesso quell’amore che nutro per il cibo. Le mie porzioni le devo alla memoria dello zio Nani, che per me rimase sempre lo zio, il mio secondo padre.
Quel viaggio era il compendio di tutto quello che io mi portavo dentro delle sue gesta, un viaggio senza tempo con la sua giardinetta, senza scadenze; la zia spesso lamentava allo zio la lentezza di quel viaggio, ma lui era la quintessenza della lentezza. Aveva i suoi punti di sosta scritti sul “navigatore” diremmo ora; uno di questi era ad Alassio, tra Laigueglia ed Alassio una fragile piazzola a lato dell’Aurelia, il mare di sotto e spesso una leggera brezza che ci annunciava la prossimità del vento che avremo incontrato nel savonese. Una sosta da vero gourmet, cesta di vimini, bistecche impanate, uova sode, fette di arrosto con tanto di sugo e le sue immancabili bottiglie di vino, scelte con una cura tutta piemontese: per l’occasione un bel fiasco che lui consumava durante il viaggio.
Era una festa quel viaggio che io agognavo quando si approssimava la partenza.
Era un'Italia che cresceva quella e la generazione di mio zio aveva dato tanto al nostro paese.
La Guerra prima e la ricostruzione dopo, anni di grandi sacrifici e di immancabile speranza per un bel domani di cui si immaginava non avvertire mai la fine....
I giorni che precedevano la partenza, mia zia Petronilla (Pelilun) cucinava per ore, tra i fiori da portare ai fratelli dello zio ed ai morti piemontesi, tra i bottiglioni di olio che papà barattava in cambio di vino. Quel vino che quando lo zio lo fece arrivare a Pigna, nel suo ristorante “da Caterina”, mise a soqquadro le abitudini degli avventori, abituati come erano ad un vino leggero “a vigneta” come veniva genericamente definito quel vinello leggero ed aggiunto di acqua durante la spremitura, un vino per tutti i giorni: quello buono i miei concittadini se lo vendevano. Difficile era allora trovare del rossese o del vermentino nei locali pubblici. Tant’è che l’arrivo di quella Bonarda e e di quel Ciliegiolo spezzò le gambe a molti, abituati com’erano alla vigneta.
Lo zio grande bevitore e grande fumatore, due pacchetti di Gauloises senza filtro al giorno. Io in vita mia ho visto poche persone bere tanto e rimanere sempre sul pezzo. Loro i piemontesi, come affermava mio padre “i l’an in tu sanghe u vin”.
Lo zio era stato soldato sul finire degli anni trenta a Pigna, dove stazionavano a partire dal 1937 oltre cinquemila soldati e tanti altri erano dislocati sui nostri monti, da Gouta a Cima Marta.
Un pullulare di caserme e casermette dove giungevano da tutta Italia giovani uomini destinati a partire dal 1940 ai vari fronti, Greco, Albanese, tragedia immane del fronte Russo.
Lo zio Giovanni a Pigna vi restò, così come altri giovani militari.
Si sposò mia zia materna ed ebbe due figlie.
La prima figlia lo salvò, grazie alla prontezza ed al polso ferreo di mia zia, dal plotone di esecuzione nazista alla fine del 1944.
Quei giorni tristi di angoscia credo che segnarono per sempre la mia povera mamma, allora 17 enne che insieme alla zia conduceva l’osteria da “Baruffa” in piazza Colla.
Quei terribili momenti a partire dai giorni della Repubblica di Pigna a settembre sfociarono nel massacro di oltre 20 giovani pignaschi oltre ai terribili bombardamenti degli anglo francesi del dicembre del 1944.
Lo zio rimase piemontese fino alla fine dei suoi giorni, sia nella parlata che nei modi, oltre che alla sua idea di cucina.
Quella cucina patriarcale che aveva conosciuto nel Piemonte delle colline tortonesi era il suo imprinting: ricordo lo stoccafisso con le patate che la zia preparava, interi stocchi di Ragno che le recapitavano direttamente da Genova e che mia zia trasformava in una squisita buridda, senza eguali, o i suoi spezzatini, come diceva la mamma, senza limiti.
Lo zio amava il cibo come lo amo io. Credo che lui e la mia nonna paterna mi abbiano trasmesso quell’amore che nutro per il cibo. Le mie porzioni le devo alla memoria dello zio Nani, che per me rimase sempre lo zio, il mio secondo padre.
Quel viaggio era il compendio di tutto quello che io mi portavo dentro delle sue gesta, un viaggio senza tempo con la sua giardinetta, senza scadenze; la zia spesso lamentava allo zio la lentezza di quel viaggio, ma lui era la quintessenza della lentezza. Aveva i suoi punti di sosta scritti sul “navigatore” diremmo ora; uno di questi era ad Alassio, tra Laigueglia ed Alassio una fragile piazzola a lato dell’Aurelia, il mare di sotto e spesso una leggera brezza che ci annunciava la prossimità del vento che avremo incontrato nel savonese. Una sosta da vero gourmet, cesta di vimini, bistecche impanate, uova sode, fette di arrosto con tanto di sugo e le sue immancabili bottiglie di vino, scelte con una cura tutta piemontese: per l’occasione un bel fiasco che lui consumava durante il viaggio.
Era una festa quel viaggio che io agognavo quando si approssimava la partenza.
Era un'Italia che cresceva quella e la generazione di mio zio aveva dato tanto al nostro paese.
La Guerra prima e la ricostruzione dopo, anni di grandi sacrifici e di immancabile speranza per un bel domani di cui si immaginava non avvertire mai la fine....
Roberto Trutalli, Sindaco di Pigna (IM)