martedì 8 giugno 2021

L’ordine del capitano era stato di risalire la mulattiera per Dolcedo

Dolcedo (IM), Val Prino

Quella notte a Dolcedo si è consumata la tragedia dei corpi e dell’anima: l’eccidio, e peggio il tradimento.
Era il ’44, nell’Italia occupata: un soldato tedesco con le mani sporche di sangue vide una bambina nascosta tra i rovi, e non lo disse al sergente.
Ultimamente a Dolcedo (la Liguria è ancora occupata dai tedeschi, pacificamente però: pian piano si sono comprati interi paesini in collina, semi abbandonati), si aggirano due anime senza pace: un vecchio straniero che vive di espedienti, una vagabonda indigena, che parte e ritorna da quando era ragazza.
Ci sarebbero tutti gli ingredienti per un noir e perfino per una sgangherata storia d’amore tra reduci, ma la forza di un narratore compiuto come Marino Magliani sta proprio nell’indossare le convenzioni del genere e scioglierle in una vicenda inedita e potente, che attraversa cinquant’anni italiani come uno scavo nei meandri della psiche collettiva.
C’è cultura in Magliani, non di quella libresca e intercambiabile, ma dell’Omero che interroga le rughe dei vecchi e le pietre per conoscere il passato dai solchi che lascia, e col legno storto dell’ulivo della sua terra identifica percorsi simili e mai uguali per i suoi personaggi.
Come nei due romanzi precedenti, i suoi protagonisti anelano a un futuro che sciolga l’enigma del loro passato, prigionieri senza catene di una promessa irrealizzata, e più di tutto unici testimoni di una verità negletta ma adesso improcrastinabile, una salvezza che è nascosta nella loro memoria e spetterà al narratore dire al mondo.
Il romanzo, che avevi iniziato sedotto dal piglio avventuroso, da lettura dilettevole diventa la parola necessaria, l’urgente epifania di un destino altrimenti strozzato.
Finisci di leggere, non perchè vuoi sapere, ma perchè vuoi che essi vivano o possano morire in pace.
Due i segreti di Magliani, per farti camminare insieme ai suoi eroi raminghi, al punto da sentirne la fatica di vivere.
Una conoscenza non psicologica ma poetica della psiche, e poi una scrittura sapida, una voce che non si finge universalmente urbana ma è tutt’uno col passo regolare di chi conosce le salite del paesaggio ligure, la pietra cotta dal sole e il torrente, la quiete dei muri a secco e la scorbutica ospitalità del rovo.
Una prova convincente, quanto e più delle precedenti, da parte di un narratore che ha ormai una fisionomia schietta e una posizione necessaria, erede degli scrittori veraci di cui la Liguria è stata a suo tempo generosa.
Valter Binaghi, Marino Magliani, Quella notte a Dolcedo, Longanesi, Satis Fiction n. 3 - 2008

Magliani è uno scrittore a cui sono molto affezionato. Affacciatosi timidamente sulla scena letteraria, va a poco a poco affermando una personalità già matura e coinvolgente. Vive in Olanda da molti anni, da cui si allontana per tornare a far visita alla sua terra di origine, la Liguria.
Il romanzo è ambientato alla fine del Novecento con forti riferimenti all’ultima guerra mondiale.
Il 21 giugno 1989 una ragazza sui trent’anni, con una valigia in cui conserva tutte le sue cose, capita a Dolcedo, che è anche il paese in cui nacque Magliani nel 1960, in provincia di Imperia. Anche la ragazza è nata a Dolcedo, il 30 luglio del 1958. Dolcedo è vicino a Sorba, un paese visitato dai turisti che vengono a vedere i resti dell’antico Locus Bormani (costruito “in onore del dio Bormanus e della sua compagna Bormana, divinità protettrici delle sorgenti e dei corsi d’acqua.”). Nella valle si sono ritrovati nel 1956 i resti di un giovane mammut, e si pensa che ve ne siano altri, e ci sono persone che vanno a caccia delle loro zanne, scavando la zona. La ragazza cerca un rifugio e l’ottiene in un ospizio per anziani, dove è tenuta in cambio di alcuni lavori. A Dolcedo nel 1944, esattamente il 16 maggio, è accaduto qualcosa di tragico. Se ne ricorda la donna: i tedeschi avevano fatto una strage, sterminando una intera famiglia, i Droneri. Una bambina, che aveva assistito alla scena, si era salvata, nascosta tra i rovi, “perché l’ultimo soldato tedesco della colonna l’aveva vista ma aveva taciuto.” Il soldato si chiama Hans Lotle, è nato a Dresda il 21 gennaio 1923; lo rivedremo giacché anche lui farà ritorno a Dolcedo.
Sono due ritorni paralleli, quelli della ragazza e dell’ex soldato tedesco. Pare che entrambi cerchino di far riaffiorare dal passato quell’afrore di morte che ha condizionato in qualche modo la loro vita: “Un’aria acida conservava le morti come i teschi e le mummie nella sabbia dei deserti o nei ghiacci. Era l’aria che aveva conservato le zanne del mammut.”
Hans probabilmente nasconde qualcosa che potrebbe far luce sui tragici avvenimenti di quel 16 maggio. Già il suo superiore, il capitano Thomas Garser, da quando era accaduta la strage, glielo andava domandando, senza esito, però. Ora, pur essendo trascorsi molti anni, a Berlino est, dopo essere stato interrogato dalla Stasi, la famigerata organizzazione di spionaggio, Hans continua ad essere pedinato dal tenente Kobel e da un altro poliziotto. Scopriremo alla fine del romanzo perché il tenente nutre tanto interesse per lui. Hans, intanto, ha bisogno dell’aiuto di Kobel, giacché desidera tornare a Sorba e a Dolcedo per indagare su chi ha voluto la strage della famiglia Droneri, una famiglia di panettieri che sosteneva i partigiani. Sa che la bambina nascosta nei rovi, non era una della famiglia, forse era la figlia dell’uomo che era passato prima che i tedeschi gettassero le bombe nel pozzo dove i Droneri s’erano rifugiati, e poi s’era nascosto tra gli ulivi e aveva sparato ai tedeschi. Il tenente Kobel, quando va a fargli visita, glielo dice apertamente che lui, Hans, vuol tornare a Dolcedo per scoprire: “Qualcosa che finalmente potrebbe rivelarle chi ha tradito i panettieri, i Droneri… Lei vuole scoprire chi li voleva morti e vi ha ingannato facendovi credere che nel nascondiglio ci fossero i partigiani… Lei vuole scoprire la verità per, come dire, ripartire la colpa…”
[...] I ritorni periodici della ragazza al suo paese di Sorba, dove è vissuta per tanti anni, colmi di ricordi e di nostalgia, tessono una specie di ragnatela in cui già si intuisce che confluirà anche Hans Lotle, l’ex soldato della Jagger-Division in procinto di partire da Berlino Est per tornare sui luoghi della guerra.
Li accomuna la conoscenza di alcune parole che si trovano nella Bibbia: Sadrach, Mesach, Abdenego. Verso la fine ce ne sarà svelato il senso. Per ben due volte s’incontrano non sapendo in principio l’uno dell’altra. Come la ragazza, che si chiama Lori, è arrivata con uno zaino e trascorre le sue notti dormendo all’aperto, così accade ad Hans, che ha con sé una valigia con le sue poche cose. Ha 66 anni.
Da questo momento pare che un orologio scandisca i minuti che ci separano da una qualche rivelazione, in primis un più stretto legame tra i due personaggi che, attraverso percorsi diversi, stanno giungendo contemporaneamente negli stessi luoghi devastati dalla guerra.
Sono due solitudini che si muovono alla ricerca del passato: “Era il bisogno di cercare le cose nelle cose, gli odori dei pomeriggi, gli insetti, i canti di uccelli e gli echi del fondovalle. E tutto ciò che ora poteva confrontare con quanto aveva sentito in quei quarant’anni. Scoprire di nuovo tutto.” Pur circondati dal chiacchiericcio dei bar e delle piazze, la solitudine resta un marchio della loro personalità inquieta. Magliani scrive della ragazza: “Lei era andata via per non far nascere e morire più nulla, e perché tutto morisse senza di lei.”
Dai luoghi che Hans frequenta c’è qualcuno, un certo Hugo Schuster, un artista dall’esistenza disordinata, che aggiorna il tenente Kobel sulle sue mosse. La Stasi sa che sta cercando una cartella trafugata ai Droneri, e sospetta che vi sia qualcosa di importante, perfino un tesoro.
Magliani infittisce l’intrigo, cala tutte le carte del gioco ed invita il lettore ad azzardare delle ipotesi, a vedere come quelle carte possano in qualche modo assemblarsi per comporre il mosaico.
Ma noi, intanto, ci rendiamo conto che il ritorno di Hans è il tentativo di una espiazione. Come il ritorno della ragazza per incontrarlo è il tentativo di una compassione e di un ringraziamento segreti e silenziosi. La strage della famiglia Droneri, Hans se l’è portata con sé per tutti quegli anni come una colpa. Quello di scoprire l’uomo che, con la sua delazione, aveva voluto quella strage è il solo modo che ha per scontare la pena, e attutire il rimorso e la vergogna. Una strage trappola, peraltro, nella quale erano morti anche i suoi compagni, falcidiati da un cecchino. Il percorso di Lori conduce agli stessi luoghi, poiché conduce a lui. Ad un certo punto Lori gli recita: “Benedetto il Dio di Sadrach, Mesach e Abdenego, il quale ha mandato il suo angelo e ha liberato i servi…” È un passo della Bibbia che solo più tardi Hans capirà.
Non è casuale che il dramma di Hans, la sua voglia di espiazione, siano attraversati anche dalla caduta del muro di Berlino. Quel 9 novembre 1989, è in compagnia di Manfred, l’amico che gli procura del lavoro a giornata, e insieme con altri tedeschi che vivono a Dolcedo, a Sorba, e nei paesi vicini, apprende alla radio la notizia; tutti esultano e festeggiano come un segno desiderato e finalmente giunto, allo stesso modo che Hans spera che accada anche a lui per quel lontano fatto di sangue.
[...] Lori e Hans sono distanti, lui è ancora nei luoghi della strage, lei ne è lontana fisicamente, ma con la mente pensa all’ex soldato, allo straniero che dorme tra i rovi, nei pressi del pozzo. Sono davvero più vicini di quanto ciascuno di essi immagini. Lori è dentro quella strage, la sua vita è dovuta a quel gesto di pietà, a quel riscuotimento della coscienza, che ha indotto Hans a risparmiare la bambina nascosta tra i rovi. Capiremo verso la fine perché.
I paesi, sebbene immaginari, s’incrociano in questa storia con le loro mulattiere diventate tante serpentine che li trasfigurano in un complessivo ed unificante villaggio della memoria, ciascuno tuttavia coi suoi profumi, i suoi colori e i suoi silenzi: Sorba, Dolcedo, Ruggio, Bastieto, Luvaira, Santaleula. L’autore ci spiega che di essi, solo Dolcedo esiste, dove è nato.
Ma noi sentiamo che non è così. Essi sono diventati un simbolo e tutto esiste invece, giacché non sono quei nomi a sorreggere la storia ma le paure, i pentimenti, i rimorsi, le solitudini, le angosce, gli spettri e le visioni che tormentano l’anima di ogni uomo in colpa.
Pur già in presenza delle precedenti ottime prove dell’autore, quest’ultima si eleva sulle altre per la severità, nettezza e profondità di un pensiero che, nel momento in cui pietosamente ci congeda da Hans, con quel «Sono stati tutti» non ci lascia più dimenticare.
Bartolomeo Di Monaco, Marino Magliani: «Quella notte a Dolcedo”, Longanesi, 2008, Pagina Tre, 25 marzo 2008    

[...] C’è sempre un personaggio che vive il suo amore per la Liguria in questa maniera, un alter ego dello stesso autore, nei romanzi di Marino Magliani: si chiamava Gregorio nei due romanzi precedenti (Quattro giorni per non morire e Il collezionista di tempo), è una giovane donna in Quella notte a Dolcedo.
Lori ha trent’anni, è andata via da Dolcedo dieci anni prima, ha fatto una vita errabonda, con lavori vari - la fa tuttora.
Il suo ritorno incontra un altro ritorno, del tedesco Hans Lotle che nel 1944 si trovava con il suo battaglione in Liguria, impegnato nella lotta contro i partigiani.
Le strade della donna e del tedesco si incrociano - dormono entrambi su una panchina dei giardini, vanno a lavarsi nella toilette della stazione di Imperia, salgono sulla stessa corriera per Dolcedo - e scopriremo alla fine quale sia il passato che in qualche modo li unisce. Perché Hans Lotle è tornato - è il 1989, sta per cadere il Muro di Berlino e lui, che abita a Berlino Est, finalmente ha avuto il permesso di recarsi all’estero - in cerca di un quadernetto che aveva nascosto sotto un masso in un roveto “quella notte a Dolcedo”, tanti anni prima (e non lo troverà), per avere una risposta ad una domanda che lo tormenta da quasi mezzo secolo. Quella notte a Dolcedo una famiglia era stata uccisa dai tedeschi (Hans Lotle fra loro). L’accusa: davano da mangiare ai partigiani. Ma chi aveva tradito i Droneri? Chi era il cecchino che aveva attirato i tedeschi verso il pozzo dove padre, madre e bambini si erano rifugiati? Chi era l’uomo che, per passare inosservato, si era fatto accompagnare dalla figlia, la bambina che Hans Lotle aveva visto e della cui presenza aveva taciuto, risparmiandole la vita?
Marino Magliani ci parla di una storia di guerra, uno dei tanti episodi che hanno bagnato di sangue i monti e le colline e le pianure d’Italia. Ma non solo quella, e il fascino del suo racconto è proprio in questo, nell’aver saputo intrecciare un capitolo della grande storia con un altro, i cui paragrafi narrano di altre storie di un intero paesino allora, in quel lontano 1944 di paura ma anche di segrete invidie, e adesso, nel 1989, quando i nemici di un tempo hanno acquistato per due lire le case di Dolcedo e dei paesi vicini, le hanno ristrutturate e vi passano le vacanze - ‘come è possibile che non ci odino?’, pensa Hans Lotle, ‘come hanno potuto dimenticare?’
Lui certamente non ha dimenticato, non ha scordato neppure l’impressione che gli diede allora la bellezza di quella terra, la dolcezza del clima. Neppure gli scavi inspiegabili che il comandante ordinava di fare: cercava forse il leggendario mammut che ora appare sulle frecce segnaletiche?
Storie raccontate dai vecchi del paese con un bicchiere in mano, e poi altre storie nella lontana Berlino dove qualcuno tiene d’occhio l’anziano Hans Lotle, per raggiungerlo poi a Dolcedo  e riportarlo in Germania con promesse di un ricco futuro. E ci sono persone per cui tradire è nella norma - allora ed adesso.
Le prime pagine
Primavera 1944, Oneglia
Seduto al tavolo ingombro di libri e di antiche mappe, il capitano Thomas Garser spiegò il foglietto, lasciandolo aperto davanti a sé. Poi si alzò e si diresse verso la finestra, lo sguardo basso perché arrivava troppia luce.
   I soldati in cortile risalivano sul camion, Erano tornati dall’entroterra poche ore prima. Forse c’era stata un'altra segnalazione, un colpo di mano» era così ogni giorno, negli ultimi mesi; il nemico aveva ripreso coraggio.
   Hans Lotle fece bene attenzione al rumore della carraia, ma non capì se era uscito solo un camion, dal piano della fureria i rumori e le luci gli erano estranei. Tutte le cose di questa guerra sapeva intuirle solo dalla compagnia, dalla mensa, dal cortile, dalla fureria no.
   II giorno, oltre le mura della caserma Crespi, e il mare, a un centinaio dì metri, incendiavano le finestre come quando gli toccavano le guardie nell'armeria del porto e all'alba era costretto a chiudere gli occhi. Il capitano a quella luce non era più abituato.
   «Ti hanno di nuovo interrogato?»
   «Riguardo allo scavo?» chiese Lotle.
   Il capitano annui. Si tolse il berretto con la visiera scoprendo una sottile striscia di fronte chiara. La capigliatura era dura e cortissima, incolore.
   «Non più», rispose Lotle.
   «Lo faranno ancora, a guerra finita, le cose vengono fuori, prima o poi. Ti chiederanno anche del foglietto, di ciò che è successo quattro giorni fa, puoi dire tutto», disse, poi si tornò a sedere.
   «Lo farò, capitano. Racconterò ogni cosa.»
   Quattro giorni prima avevano risalito la valle sui camion. Era la prima azione dopo l'imboscata dello scavo. Erano entrati nelle case di Sorba e avevano circondato il forno dei Droneri, ma non avevano trovato nessuno. Allora avevano rastrellato l'intero paese. Trenta uomini che setacciavano stalle e case. Le corse su per le scalinate, tra i vicoli, trenta soldati che saltavano, gridavano.
   Una mitragliatrice, su ordine del capitano, sventagliava le vigne in faccia. Qualche civile aveva tentato la fuga.
   Se riandava a quella sera, Hans Lode ricordava d'aver sofferto il caldo. D'un tratto era cominciata la primavera e aveva sudato molto correndo. Non era la stessa guerra col caldo. Era stato mandato in Liguria durante l'autunno, e il freddo aveva tardato pochi giorni. Il soffoco umido era una cosa a cui non era abituato, come alla luce della fureria.
   Il foglietto glielo aveva messo in mano, nel buio, uno di quelli fatti uscire dalle case e ammucchiati sul ponte in attesa di essere portati via.
   Hans Lotle non aveva fatto in tempo neanche a capire chi fosse. In strada aveva consegnato il pezzo di carta al capitano Garser. Gli ostaggi erano stati rimandati alle case, e l'ordine del capitano era stato di risalire la mulattiera per Dolcedo. Giunti alle vigne, il caporale Wolkert aveva notato un movimento e aperto il fuoco. I colpi di risposta dall'alto, tra gli ulivi, non si erano fatti attendere. Erano come un invito.
Dove stavano tentando di dirigerli? Era una trappola? Il capitano aveva temuto e aveva fermato gli uomini.
© 2008, Longanesi & Co.
Marino Magliani - Quella notte a Dolcedo
300 pag., 16,00 € - Edizioni Longanesi 2008 (Biblioteca di narratori)
ISBN 978-88-30-42510-1
Marilia Piccone, Quella notte a Dolcedo di Marino Magliani, Wuz Il social dei libri, 27 marzo 2008  

[...] Quattro giorni prima avevano risalito la valle sui camion. Era la prima azione dopo l’imboscata dello scavo. Erano entrati nelle case di Sorba e avevano circondato il forno dei Droneri, ma non avevano trovato nessuno. Allora avevano rastrellato l’intero paese. Trenta uomini che setacciavano stalle e case. Le corse su per le scalinate, tra i vicoli, trenta soldati che saltavano, gridavano.
Una mitragliatrice, su ordine del capitano, sventagliava le vigne in faccia. Qualche civile aveva tentato la fuga.
Se riandava a quella sera, Hans Lotle ricordava di aver sofferto il caldo. D’un tratto era cominciata la primavera e aveva sudato molto correndo. Non era la stessa guerra col caldo. Era stato mandato in Liguria durante l’autunno, e il freddo aveva tardato pochi giorni. Il soffoco umido era una cosa a cui non era abituato, come alla luce della fureria. Il foglietto glielo aveva messo in mano, nel buio, uno di quelli fatti uscire dalle case e ammucchiati sul ponte in attesa di essere portati via.
Hans Lotle non aveva fatto in tempo neanche a capire chi fosse. In strada aveva consegnato il pezzo di carta al capitano Garser. Gli ostaggi erano stati rimandati alle case, e l’ordine del capitano era stato di risalire la mulattiera per Dolcedo. Giunti alle vigne, il caporale Wolkert aveva notato un movimento e aperto il fuoco. I colpi di risposta dall’alto, tra gli ulivi, non si erano fatti attendere. Erano come un invito. Dove stavano tentando di dirigerli? Era una trappola? Il capitano aveva temuto e aveva fermato gli uomini.
Lotle ripensò fino a quel punto. Il capitano chiese: «Sapresti riconoscerla?» «No.» Il sangue riprese a scavargli dentro, il sangue e la carne appiccicata alle pietre gli riempirono la sua di carne. Il caldo non era mai più finito.
Gli spari li avevano portati al pozzo, erano stati il messaggio del foglietto e gli spari a condurli là dentro.
[...]
Quando hai cominciato a scrivere questa storia?
Alla fine degli anni 80. Quella del veterano tedesco che torna in Liguria è sicuramente uno dei primi personaggi che ho incontrato camminando sulla spiaggia di IJmuiden, dove vivo da vent’anni ormai.
Inizialmente era un cittadino della Germania Ovest, ma poi mi sono reso conto che non reggeva. Un cittadino libero di lasciare la sua terra, com’era uno della Germania Ovest, non avrebbe mai aspettato più di 40 anni prima di tornare sul campo di battaglia a cercare di capire, di spartire una colpa.
Così un giorno, sulla spiaggia di IJmuiden, al fondo - si tratta di una spiaggia lunga chilometri - incontrai un vecchio. Mi aspettava, disse, era il personaggio Hans Lotle. Aveva fatto anch’egli la guerra in Liguria, ma era di Berlino Est, per questo durante tutto questo tempo non era potuto tornare.
Se fosse stata una grande colpa di cui liberarsi, il bisogno di indagine non avrebbe portato il veterano Lotle a tentare lo stesso di scappare da Berlino per tornare in Liguria?
Certamente, l’avrebbe fatto, ma avrebbe lasciato sua madre di là e qui c’è un torrente che scorre sotterraneo accanto all’indagine, un corso alimentato dal rapporto con sua madre, che giustifica il fatto per cui non sia mai potuto tornare se non quando sua madre è morta.
Sono d’accordo con te. Cosa cerca, e cosa trova Hans Lotle dopo 40 anni, anche se capisco che alla seconda domanda non puoi rispondere?
Cerca i colpevoli di una strage, lui è stato solo il braccio armato. Questa è una storia che narra una gerarchia di colpe. Ma non si getterà subito sulla verità come si fa su una preda. La preda è lui, e lui rimanda, comincia indagando il paesaggio, questa senz’altro sarà un’indagine che concluderà, sul resto i dubbi crescono, sono ingoiati dai rovi.
I rovi sono il mondo di questa storia, i rovi che invadono, come gli invasori tedeschi, questa al di là delle indagini è una storia di invasioni.
Sì, hai perfettamente ragione, di invasioni. La guerra invade un uomo che da soldato invade una terra, e quando torna scopre che i rovi hanno conquistato quella terra, ma non sono i rovi a prevalere, altre piante come la vitalba riescono a soffocare persino i rovi. Ma questo riguarda gli umani e la vegetazione, poi nessun’altra invasione è possibile, c’è una Liguria troppo minerale, troppo distante da quella viva per essere invasa. È invasa una forma vivente, una forma minerale no, accoglie indifferente, e attende il suo crollo, come la cattedrale di muri che non riesce più a contenere nessuna frana.
È un mondo di luce e di bellezza che distrae un veterano, prima di abbassargli il collo sulla pietra.
Andrea B. Nardi, Intervista a Marino Magliani, Il Caffé, 10 aprile 2008