domenica 20 giugno 2021

Gli sfollati possono rientrare

Ventimiglia (IM): foce del fiume Roia (giugno 1940). Fonte: Archivio Centrale dello Stato

La battaglia di Ponte San Luigi
La 1a Compagnia Artieri del 15° Reggimento partecipò ad azioni sul confine francese con la 5a divisione Cosseria <50, distinguendosi nelle operazioni di forzamento del ponte San Luigi; ad armistizio avvenuto, il Reggimento fu impiegato nei lavori di ripristino degli accessi alla via ordinaria, con lo smantellamento dei numerosi campi minati di interdizione posati lungo le direttrici di probabile intervento fra Grimaldi e Mentone.
Il 10 giugno 1940, all'entrata in guerra contro la Francia, la divisione Cosseria fu schierata con i suoi reparti lungo la frontiera occidentale, nel settore che dal mare andava al monte Grammondo, ad ovest della Valle Roja, sulle pendici della Cima Longoira <51.
Dopo una prima fase di stallo, il 20 giugno fu sferrato un attacco contro le posizioni nemiche che presidiavano Ponte San Luigi, lungo la via Aurelia, e le postazioni di Passo San Paolo e Colletti. La Divisione incontrò una forte resistenza a Ponte San Luigi, dove una piccola opera difensiva della linea Maginot, con una decina di soldati, inchiodò i reparti entro il confine italiano e resistette anche dopo il 22 giugno quando, rotto il fronte a Passo San Paolo, la divisione italiana riuscì ad aggirare l'opera di ponte San Luigi.
Nonostante diverse incursioni e la pressione delle truppe italiane, il piccolo bunker continuò a resistere mentre gli italiani conquistavano le aree a nord e a ovest di Mentone sulla strada per Castellar e verso Roquebrune.
Alla firma dell'armistizio con la Francia, i reparti della “Cosseria” rimasero in territorio di occupazione fino alla metà di agosto, quando vennero fatti rientrare per la difesa delle coste della Liguria occidentale e furono poi inviati dal giugno del 1942 sul fronte russo-tedesco, dove scriverà col sangue gloriose pagine di eroismo.
In una lettera inviata dal podestà Tappani al Comandante del Reggimento, Ten. Col. Mario Tanferna, ferito di striscio ad una gamba, si evince l’attaccamento al Reparto da parte della città di Chiavari, che “ha avuto in dono dal destino di tenere a battesimo la bandiera del vostro Reggimento”.
"Abbiamo appreso giorni addietro con sincero dolore la notizia che eravate rimasto ferito nell’azione gloriosamente compiuta di abbattere la vecchia iniqua frontiera; apprendiamo ora con viva lietanza, da un telegramma del fascio di Ventimiglia e Sanremo, come valorosa sia stata la condotta vostra e del Reggimento da Voi guidato. Di ciò non era da dubitarne; tutti coloro che hanno avuto l’onore di avvicinarvi hanno potuto conoscere di quale ardente entusiasmo e di quale ardore fosse permeato l’animo vostro di Italiano e Soldato; e le vostre virtù che avete saputo trasfondere nei vostri soldati che, sono sicuro, sono stati trascinati dal vostro eccezionale ardimento a tutto osare ed a tutto sacrificare per la grandezza dell’Italia… <52 Vi giunga quindi gradita la voce affettuosa di Chiavari, di questa Città che ha avuto in dono dal destino di tenere a battesimo la bandiera del vostro Reggimento e che esulta oggi con me per il battesimo di gloria che la giovane formazione ha conquistato per merito vostro, sul campo cruento della battaglia. Con l’augurio di potervi ben presto salutare fra noi, vi mando intanto i miei più vivi rallegramenti ed i miei particolari affettuosi saluti".
[NOTE]
50 Vds. fig. 40 - La 5ª Divisione Fanteria "Cosseria" fu una grande divisione di Fanteria di linea del Regio Esercito che fu poi impegnata e quasi totalmente distrutta in Russia nel febbraio 1943.
51 Vds fig. 41
52 Vds. Fig. 42
 

Figura 40 in Benedetti - Schiappacasse, Op. cit. infra

Genieri all'opera sul fronte francese - Figura 41 in Benedetti - Schiappacasse, Op. cit. infra

Lettera di ringraziamento al podestà di Chiavari - Figura 42 in Benedetti - Schiappacasse, Op. cit. infra

Una vista da Ventimiglia sulla Costa Azzurra, con Cap Martin in evidenza e, sulla destra, uno scorcio del porto di Mentone (giugno 1940). Fonte: Archivio Centrale dello Stato

Silvano Benedetti - Stefano Schiappacasse, “La Caserma di Caperana”. Storia della caserma “Giordano Leone”. “Una eccellenza nazionale squisitamente chiavarese”, Ministero della Difesa, Marina Militare

[...] Il 22 giugno [1940], alle 18,50, nella foresta di Compiègne, su un vagone ferroviario, viene firmato l’armistizio tra Francia e Germania. Mussolini, prima di fare altrettanto, vuole arrivare almeno sino a Nizza. E prima di Nizza c’è Mentone. Lì bisogna sfondare.
Ma c’è da pagare il pedaggio di Ponte San Luigi che scavalca il confine, un burrone tra due pareti rocciose.


La zona di Ponte San Luigi vista da Mentone Garavan

Incastrata nella montagna c’è una casamatta francese con mitragliatrici e pezzi anticarro. L’artiglieria pesante italiana, montata su binari e condotta nella stazione di Ventimiglia, comincia a far fuoco sull’abitato di Mentone. I francesi rispondono dai forti dell’entroterra (Rimiez, Drette, Turbie, Monte Agel e Tete de Chien: una vera Maginot unita da galleria sotterranea) e colpiscono Bordighera e Ventimiglia.
Molti paesi della costa e dell’entroterra vengono evacuati.
Da Roma ordine perentorio al generale Gambara, comandante dell’armata: dovete passare.
All’alba del 21 giugno il tenente degli alpini Bruno Viano, classe 1914, nel dopoguerra giornalista (è stato per molti anni corrispondente de “La Stampa” di Torino) e presidente dell’Azienda autonoma di soggiorno e turismo di Imperia, è convocato dal comandante del suo reparto.
Ricorda: “Il maggiore mi diede un ordine tassativo: prendere la posizione di San Luigi o morire. Erano le frasi del tempo. Non mi aveva scelto solo perchè ero il più giovane degli ufficiali o perchè comandavo un battaglione di gente richiamata, tutti sui 40-50 anni, e abitanti in provincia di Imperia, quindi esperti della zona. Piacevo a sua figlia e a lui quella relazione non andava a genio. Sapeva che prendere il fortino di Ponte San Luigi era quasi impossibile ma lui si voleva sbarazzare di me e mi mandò allo sbaraglio. Eravamo nell’Alta Val Roia, sul Passo Muratone. Scendemmo verso Ventimiglia: la via Aurelia era bloccata, come la ferrovia. Non mi fu chiarito dove fosse esattamente la postazione da espugnare, nè mi fu dato alcun esplosivo o arma particolare: avevamo soltanto qualche piccola bomba a mano”.  Il battaglione si avvicina al confine. Da Cap Martin, ogni tanto, qualche salva di cannone. Gli uomini procedono, strisciando, tra cespugli e case semidistrutte. In mezzo all’erba trovano due medaglie sacre del Santuario dell’Annunziata. Buon segno.  Racconta Viano: “Mi resi conto che portare con me tutti quegli uomini assolutamente impreparati - contadini, olivicoltori, impiegati - sarebbe stato un inutile rischio. Gente quasi sempre con famiglia, persone che avevano poco di guerriero. Lasciai allora indietro il grosso del battaglione e scelsi tre volontari, un sottufficiale e due soldati. Così in quattro riprendemmo a strisciare per avvicinarci, dall’alto e dalle spalle, alla zona di Ponte San Luigi. Bevemmo una bottiglia di champagne trovata nella cantina di una villa quasi al confine. Lasciai per ringraziamento un biglietto quasi di sfida. Anche quello faceva parte della retorica del tempo. Non sapendo esattamente dove dirigerci, ci trovammo quasi per caso sulla sommità della parete rocciosa entro la cui base, a livello di strada, era stato scavato il fortino. Ci sporgemmo con precauzione: poichè ignoravo dove fosse il fortino ogni buco, ogni cavità sembrava dovesse nascondere chissà quale minaccia”. Gli uomini guardano verso il basso. Lo spettacolo è sconvolgente: stesi sull’asfalto, vicino alla cancellata anticarro, subito dopo il ponte, ci sono diversi cadaveri di soldati italiani. Erano stati falciati dalle mitragliatrici. All’improvviso, sempre dalla via Aurelia, ecco spuntare un altro reparto italiano. I francesi li lasciano avvicinare, poi parte una scarica di proiettili. Sorpresi, e senza alcun riparo, quei soldati alzano le braccia, si arrendono. Prosegue Viano: “Mi resi conto che se fossi intervenuto li avrei condannati tutti a morte. I francesi avrebbero ripreso a sparare. Decisi così di tornare indietro. Non avevo preso la posizione. Non ero morto e neppure ero riuscito a rendermi conto della situazione in cui mi ero cacciato. Appena rientrato, il comandante, senza neppure darmi modo di recuperare le due notti di sonno perduto, mi assegnò ancora una volta il compito di tentare l’ignoto. Si trattava questa volta di scoprire e segnalare dove fosse la prima linea difensiva francese. E con il mio battaglione mi rimisi in marcia”.


Mentone

Il 23 giugno, domenica, vanno all’assalto delle casematte le camicie nere del 33° battaglione di Imperia con l’appoggio dei fanti. Strisciano, si arrampicano, lanciano bombe a mano. I francesi si difendono accanitamente ma sono costretti ad arrendersi.
Sulla strada e tra le rocce restano molti soldati italiani.
Il Ponte di San Luigi è aperto. La battaglia si estende sino alle porte di Mentone. Guidano la marcia pattuglie di camicie nere, pratiche del posto. Tra loro impiegati e croupier del casinò di Sanremo. Un battaglione di “tirailleurs” senegalese oppone una decisa resistenza. Siamo al corpo a corpo, alla caccia all’uomo nelle case, tra i giardini, negli scantinati, nei ripostigli dei bar. Mentone è sconvolta, è distrutta.
I segni della battaglia sono evidenti. Il 60% delle abitazioni è danneggiato, il casinò idem, demoliti alcuni grandi alberghi come il Little Palace, il Victoria Park, il Louvre, il Majestic. Davanti alla stazione ferroviaria si apre uno spettacolo desolante: il quartiere non c’è più. Le due passeggiate, la promenade du Midi e quella di Garavan, sono ricoperte da detriti, reticolati, rami di palma e d’olivo. Ora gli italiani possono avanzare. Si tenta di occupare Sospello (Sospel), importante nodo stradale, che consentirebbe di prendere alle spalle buona parte dello schieramento francese. Le nostre truppe vengono fermate, oltre che dal nemico, dall’annuncio dell’armistizio firmato alle 19,15 del 24 giugno a Villa Incisa di Roma, sulla via Cassia, dal maresciallo Badoglio e dal generale Huntziger.
Comunica l’agenzia Stefani: “Le ostilità avranno termine alle 1,35, ora legale italiana, di domani 25 giugno 1940, anno XVIII dell’era fascista”.
All’alba del 25 giugno c’è chi non sa che l’armistizio è entrato in vigore. Come gli uomini del tenente Viano che alla testa del suo battaglione continua a cercare i sistemi difensivi del nemico. Ricorda: “Il sole stava sorgendo. Ero andato avanti con alcuni soldati. Ci trovavamo in un giardino, ben tenuto, circondato da un parapetto poco alto. Lo scavalcai, mi lasciai cadere in basso, piombando con un colpo secco sull’asfalto della strada. Quando mi rialzai ero circondato dai soldati francesi: avevano sentito i rumori e mi stavano aspettando. Avevo una bomba a mano ma il primo pensiero, vista la situazione, fu quello di arrendermi. Portai la mano libera alla tasca per tirar fuori il fazzoletto e sventolarlo. I francesi furono più veloci di me. Gridarono: 'Ne tirez pas, la guerre est finie'. Mi offrirono una sigaretta. Tornai indietro per ricongiungermi al reparto. Seppi, più tardi, di esser stato l’ufficiale italiano che si spinse più avanti sul fronte di Mentone. Ero infatti arrivato fino al torrente, lungo la strada per Gorbio, che poi segnò la linea d’armistizio. Soprattutto scoprii, per la prima volta, in quella guerra combattuta senza odio, e il fatto si sarebbe ripetuto, che non appena si cessa di sparare tutti gli uomini sono fratelli: una fratellanza quasi sempre suggellata nella maniera più semplice, lo scambio di una sigaretta”.
L’armata del generale Gambara può entrare a Mentone.
Viano ricorda di essersi fermato nella città di confine un paio di settimane. “Un giorno - racconta - è venuto Mussolini che ha passato in rivista le truppe schierate sul lungomare. Poi siamo rientrati a Ospedaletti. Il mio reparto era sistemato in un vecchio albergo, il Metropol, trasformato in caserma. In novembre, molto deluso per quello che avevo visto e provato, sono partito per l’Albania”.
La guerra tra Italia e Francia è durata quindici giorni. In un successivo comunicato la Stefani dà sfoggio della solita retorica di regime: “Le nostre armate hanno risposto in modo superbo, portando sulla linea del fuoco tutto il perfetto e modernissimo armamento fascista e sconvolgendo quindi con impeto sovrumano tutta la prima struttura del sistema nemico”. Le cose non sono andate proprio così. In Val Roia è stata occupata Fontan e Saorge è sotto il tiro dei mortai. Sul Monginevro l’avanzata è stata di nove chilometri. Sul Moncenisio gli italiani si sono spinti oltre: dopo l’occupazione di Lanslebourg è stata toccata una profondità tra i 20 e i 32 chilometri. Sul Piccolo San Bernardo siamo arrivati alle porte di Bourg-Saint-Maurice. All’estremo nord dello schieramento, nel settore della Seigne, ghiacciai, burroni e asperità del terreno hanno reso più difficile la penetrazione, limitata tra i tre e i nove chilometri.
 

Ponte ferroviario di Mentone alla fine delle ostilità - Fonte: HistoricaLab.it

Gli sfollati possono rientrare. Gli abitanti di Triora, Andagna, Agaggio, Pigna, Castelvittorio, San Biagio, Soldano, Apricale, Isolabona e numerosi anche della costa imperiese, transitano la mattina del 28 giugno dalla stazione di Genova Principe, come riferisce “Il Secolo XIX”. Queste famiglie di contadini erano state ospitate a Milano, parte nelle scuole e nell’asilo di via Galilei, parte nell’Istituto fascista di assistenza di via Settembrini.
Mussolini, che con la dichiarazione di guerra, voleva Nizza e Savoia, insieme alla Corsica, Tunisi e Gibuti, riduce le pretese. L’occupazione è limitata a quei pochi chilometri di territorio francese conquistato a caro prezzo: 631 morti, 2631 feriti, 616 dispersi (un neologismo per non ammettere l’esistenza di altre vittime) e ben 2151 congelati su quelle montagne che solo Napoleone e Annibale osarono sfidare ma con altri eserciti e un’altra preparazione.
La Francia è tenuta a smilitarizzare una zona di 50 chilometri di profondità. Lo stesso ai confini tra Tunisia e Libia e con l’Algeria. L’Italia potrà usufruire del porto di Gibuti e della ferrovia che collega lo scalo ad Addis Abeba. Punto e basta. A parte le clausole per la smobilitazione delle forze armate francesi, il disarmo della flotta, la consegna di armi e munizioni, la restituzione dei prigionieri di guerra e di quei civili in carcere per motivi politici.
In mare una sola battaglia navale tra Italia e Francia. Si svolge davanti alle coste della Liguria nelle prime ore del 14 giugno [...] 
Pier Paolo Cervone, La seconda guerra mondiale in Savona in guerra. Militari e vittime della provincia di Savona caduti durante il secondo conflitto mondiale (1940-’43/1943-’45), Isrec Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Savona, 21 gennaio 2013

I primi giorni di guerra sulle Alpi furono quindi incruenti, soltanto scontri di pattuglie.
La catena di comando italiana aveva aspetti tragicomici, un mucchio di generali in competizione. Comandante del gruppo armate ovest era il principe Umberto, l'erede del trono, una figura evanescente dimenticata da tutti.
Il maresciallo Graziani, capo di stato maggiore dell'esercito, si precipitò in Piemonte per dirigere le operazioni, seguito dal gen. Soddu, sottosegretario del ministero della Guerra (ministro era sempre Mussolini), che, non potendo reclamare compiti di comando, si presentò come “il telefonista del duce”.
In realtà le decisioni erano prese a Roma da Mussolini, con qualche freno posto dal maresciallo Badoglio, capo di Stato maggiore generale messo in disparte, incredibili ritardi di trasmissione e un buon contributo di confusione del gen. Roatta, il vice di Graziani rimasto a dirigere lo Stato maggiore dell'esercito, che il 17 giugno dava ordini che non gli competevano: “Stare alle calcagna del nemico. Audaci. Osare. Precipitarsi contro”, subito contraddetto dal suo capo Graziani: "Le ostilità 15 con la Francia sono sospese".
La decisione dell'offensiva
“Savoia, Nizza, Corsica, Tunisi, Gibuti”, erano gli obiettivi reclamati nelle manifestazioni fasciste di piazza del 1939. Non è facile capire perché Mussolini si aspettasse di averli in regalo da Hitler, né perché nel giugno 1940 avesse pretese ancora maggiori, l'occupazione della Francia fino al Rodano e la flotta da guerra francese. Ambizioni e illusioni che furono drasticamente ridimensionate nell'incontro tra Hitler e Mussolini a Munich il 18 giugno.
La decisione fu chiara, Mussolini avrebbe ottenuto soltanto i territori francesi che fosse riuscito a occupare prima della conclusione imminente dell'armistizio. L'unica concessione di Hitler fu che l'armistizio franco-tedesco sarebbe entrato in vigore soltanto dopo la firma di quello franco-italiano.
Quindi Mussolini diede ordine il 19 di condurre forti attacchi alla frontiera e poi il 20 decise un'offensiva generale, dicendo a un riluttante Badoglio: “Non voglio subire l'onta che i tedeschi occupino e poi ci consegnino il Nizzardo”.
Badoglio trasmise gli ordini a Graziani: “Domani, giorno 21, iniziando l'azione ore 3, I e IV Armata attacchino a fondo su tutta la fronte. Scopo: penetrare più profondamente possibile in territorio francese”. Graziani passò l'ordine alle armate: "I tedeschi hanno occupato Lione. Bisogna evitare nel modo più assoluto che siano i primi ad arrivare al mare. Per questa notte ore 3 dovete attaccare su tutta la fronte dal San Bernardo al mare. L'aviazione concorrerà con masse da bombardamento sulle opere e sulle città. I tedeschi nella giornata di domani e dopodomani faranno concorrere colonne corazzate provenienti da Lione e dirette a Chambéry, St. Pierre de 16 Chartreuse e Grenoble".
Fu l'inizio di una battaglia di quattro giorni, dalla mattina del 21 giugno alla notte del 24, una battaglia condotta quando le sorti della guerra erano già decise e a Roma erano in corso le trattative per l'armistizio franco-italiano.
Era un'offensiva senza speranza. Prima di tutto perché la frontiera francese era ben fortificata. Abbiamo già detto che tutti gli studi italiani escludevano la possibilità di uno sfondamento. Poi perché fino al 20 giugno lo schieramento italiano era stato difensivo: truppe e artiglieria erano ancora dislocate in modo da arrestare un'offensiva francese ormai impossibile.
Quindi le truppe italiane dovevano andare all'attacco delle posizioni francesi senza altro appoggio che il fuoco dei forti italiani, quasi sempre orientati alla difensiva.
Inoltre il tempo era pessimo:  di notte si registrarono temperature fino a 20 gradi sotto zero, troppo per il mediocre equipaggiamento della fanteria che avanzava nella neve.
In termini militari, era un'offensiva fallita in partenza.
In termini politici, era un'offensiva che doveva dimostrare che anche l'Italia fascista aveva avuto qualche parte nella guerra.
C'era anche una malcelata speranza che il collasso della Francia dinanzi ai tedeschi si estendesse anche all'Armée des Alpes, in modo da permettere una facile avanzata italiana.
Quattro mesi più tardi Mussolini decise l'aggressione della Grecia sulla base della sua convinzione che l'esercito greco non si sarebbe battuto.
La vittoriosa resistenza dell'Armée des Alpes è l'unico successo francese nel tragico disastro della primavera 1940. Si può quindi comprendere che sia ricordata e celebrata. Il grande merito dell'Armèe des Alpes del gen. Orly fu di continuare a combattere con determinazione quando la Francia crollava, anche contro i tedeschi che avanzavano da Lione. Il suo successo contro gli italiani non va però esagerato: nella battaglia delle Alpi tutti i vantaggi erano dalla parte francese.
Il modo più efficace di introdurre i combattimenti è il confronto delle perdite. I francesi ebbero 32 morti, 121 feriti, 259 prigionieri o dispersi. Gli italiani 642 morti, 2631 feriti, 2151 congelati, 616 dispersi. I dati sui dispersi lasciano molti dubbi, come sempre. Da parte francese, i caduti dichiarati dispersi perché non ne venne ricuperato il corpo non dovrebbero essere molti, soltanto pochi reparti combatterono fuori delle fortificazioni.
Secondo le fonti italiane i prigionieri francesi furono 153. E' possibile che tra i dispersi siano contati anche gli sbandati delle retrovie dinanzi all'avanzata tedesca. Da parte italiana, i dispersi dovrebbero essere in certa parte caduti di cui non fu ricuperato il corpo. I dati relativi risultano da una relazione dello Stato maggiore italiano del 18 luglio 1940, quando molti caduti italiani giacevano ancora sotto la neve.
Quindi 32 caduti francesi, forse 40 con i dispersi, e 642 morti italiani, forse 800 e oltre con i dispersi.
Cifre che bastano a documentare cosa fu l'offensiva italiana: le fanterie lanciate contro le moderne fortificazioni francesi senza appoggio dell'artiglieria né dell'aviazione. E un'altra cifra significativa, 2151 congelati abbastanza gravi da essere ospedalizzati. Notti passate nella neve con un equipaggiamento mediocre. Il tempo era pessimo, ma si era in giugno e sulle montagne di casa.
Raccontare i quattro giorni dell'offensiva italiana non è facile. Manca un centro di gravità, un obiettivo preciso. Si attacca su tutto il fronte dal Monte Bianco al mare, in una dozzina di settori diversi, ma lo schema è sempre uguale.
 

Treno Ospedale della Sanità Militare del Regio Esercito a Ventimiglia

[...] Il risultato della grande offensiva italiana fu ben misero: l'occupazione del versante francese della frontiera con una profondità ridotta e variabile, che non arrivava mai ai forti francesi. Furono conquistate soltanto un numero limitato di opere avanzate. Il maggiore successo fu la cittadina di Menton sul mare, subito messa a sacco.
NOTA: la relazione del prof. Giorgio Rochat (storico, Università di Torino) ha fatto riferimento ad un suo precedente testo scritto per la “Revue historique des armèes” pubblicato sulla RHA n. 250/2008, qui riprodotto per sua gentile concessione.
 
Giorgio Rochat, La campagna delle Alpi. Giugno 1940, Atti del convegno “10 giugno 1940: la guerra di Mussolini”, Quaderni Savonesi, n. 22 novembre 2010, Isrec
 
 
Mussolini (e Badoglio) in visita all'ospedale di Sanremo (IM) il 25 giugno 1940. Fonte: Archivio Centrale dello Stato



La disposizione dei reparti dell’Armée des Alpes alla vigilia del 10 giugno 1940 - Fonte: Atti Convegno Savona cit. infra, Isrec


 

 
Mussolini in visita all'ospedale di Sanremo (IM) il 25 giugno 1940. Fonte: Archivio Centrale dello Stato

Quando i militari francesi responsabili della definizione della Maginot alpina scelsero l'impiantazione delle opere di difesa della frontiera coll'Italia, decisero di lasciare Mentone, la cosiddetta «perla della Francia», davanti alla «posizione di resistenza» articolata sui forti di Cap Martin, Roquebrune-Cornillat, Sainte-Agnès, Mont Agel e Castillon poichè degli avamposti fortificati dovevano essere costruiti al ponte San Luigi (chiudendo la rotabile littorale), a Colletta e a Pilon (da ogni parte di Castellar), a La Penna (di fronte al Grammondo) come a Scuvion ed a Pierre Pointue (da ogni parte del monte Razet) e, soprattutto, perchè le truppe alpine allineate sul terreno (25° BCA di Mentone, 24° BCA di Villafranca e 22° BCA di Nizza) costituivano una garanzia di incolumità della frontiera tra il Cuore ed il mare.
Ma, conto tenuto della situazione di non belligeranza adottata dal governo italiano e dei rischi di offensiva massiccia della Wehrmacht sul fronte del Nord-Est, gli strateghi francesi scelsero di trasferirci le due divisioni alpine reclutate nel Nizzardo (29° e 30° DIA), dalla fine di settembre alla metà di ottobre 1939, lasciando soltanto sul posto le loro sezioni di esploratori sciatori, piazzate in prima linea al contatto dell'avversario potenziale, cioè tre sezioni dei 20°, 25°, 49° BCA nel Mentonasco, associate alle tre sezioni dei battaglioni alpini di fortezza (76°, 86°, 96° BAF).
[...] Nella giornata del 21 giugno 1940, Mussolini avendo saputo che l'Italia non avrebbe potuto occupare altro che i territori francesi eventualmente conquistati, lanciò un ordine di offensiva generale per l'indomani.
La mattina del 22, 216 cannoni spararono più di una ora sulle fortificazioni francesi, senza causare grossi danni, mentre una ventina di aeri di bombardamento lanciarono dei proiettili sul monte Orso, il colle des Banquettes e le pendici del Mont Agel ed il treno armato n° 2 sparò 252 obici su Cap Martin fino ad essere circondato da tiri francesi di controbatteria che lo costrinsero a raggiungere la galleria della Mortola. 


Ventimiglia (IM): la galleria di Punta Mortola davanti alla quale venne colpito il treno armato italiano

Ventimiglia (IM): Punta Mortola

Poichè il generale Gambara pretese che detto treno riprendesse i tiri contro il forte Maginot, il tenente di vascello Ingrao ubbidì e, prima che i martinetti di stabilità fossero installati, il treno ricevette quattro obici di 75 mm sparati dalle torrette del Mont Agel: tre dei quattro vagoni armati andarono distrutti, provocando la morte dell'ufficiale e di otto marinai ed il ferimento grave di quattro altri.
Approfittando della nebbia, diverse compagnie dei 42° e 89° RF occuparono le Granges Saint-Paul (i cui difensori furono catturati poco dopo a Garavan superiore), Plan du Lion, L'Ormea, Castellar Vieil e Fascia Fonda (dove un gruppetto avanzato dell'opera di La Pena fu annientato: 5 caduti ed un prigioniero), mentre il caposaldo di La Colle (sopra il cimitero di Mentone) resistette con energia (sparando 20000 cartucce e 500 granate) prima di evacuare la posizione campale nella sera; gli avamposti fortificati di Scuvion, Pierre Pointue e Pilon furono investiti ma respinsero tutti gli attacchi; due battaglioni del 90° RF furono bloccati nelle gallerie dei Balzi Rossi dall'artiglieria francese mentre delle chiatte si concentravano a La Mortola all'inizio della notte allo scopo di sbarcare 100 uomini a Garavan e 900 a Cap Martin: l'operazione fu annullata dopo la partenza a causa del mare troppo agitato, di diverse avarie e del rumore troppo elevato delle imbarcazioni. Per tutta la notte le mitragliatrici dell'opera di Castillon spararono sulla cresta del Razet avvicinata dalle unità di assalto della Modena.
Il 23, i treni armati N° 1 e 5 spararono 358 obici sull'opera di Cap Martin con poco efficacia poichè, impauriti dalla distruzione del treno N° 2, si erano installati troppo lontano; nello stesso tempo, 82 apparecchi dell'Aeronautica militare italiana lanciarono delle bombe sui forti di Mont Agel, Roquebrune-Cornillat et Cap Martin, con scarsa efficacia tenuto conto del maltempo che riduceva la visibilità.
Questo problema di visibilità consentì però delle infiltrazioni notevoli nella vecchia Mentone, poi tra i torrenti Careï e Borrigo, ossia Gorbio fino alle 18 quando una breve schiarita rivelò agli osservatori del Cap Martin che gli invasori si avvicinavano alla sua rete di reticolati: un diluvio di 1320 obici sparati da tutte le opere del settore fece rifluire gli attaccanti italiani fino al Careï.
Di fronte al bunker di ponte San Luigi successe un episodio poi sfruttato dalla propaganda fascista, col tentativo teatrale di due militari del 21° reggimento della Cremona, il fante Puddu ed il sottotenente Lalli, che, esigendo la resa della piccola guarnigione, granata e pistola in mano, andarono, invece, a perdere la vita.
Più a nord, gli avamposti di Colletta e Pilon furono accerchiati, mentre quelli di Scuvion e Pierre Pointue erano investiti, perdendo un caduto e due prigionieri, ma con la cattura da parte francese di 10 soldati della Modena.
All'inizio della notte, i capisaldi di Castellar, L'Annonciade et Villa Tardieu furono evacuati poichè considerati come aggirati dal nemico.  Il 24, la progressione italiana riprese nell'abitato di Mentone con quattro battaglioni (I/21°, I/89°, II/90° RF, 33° CCNN) fino al torrente Gorbio mentre più a nord il fronte si stabilizzò, ma con l'avamposto di Pierre Pointue che catturava 9 soldati della Modena durante una sortita.
Un contrattacco francese fu preparato ad ovest di Mentone con una compagnia di Senegalesi ed una dozzina di carri armati leggeri, ma non ebbe luogo a causa della notizia della firma dell'armistizio di Villa Incisa.
Nello stesso tempo, i due cannoni di 220 mm in posizione sul piano di Mont Agel incendiarono la stazione ferroviaria di Ventimiglia, allorchè la battaglia era praticamente finita.
La mattina del 25, la delimitazione del confine di armistizio (ponte dell'Unione, Sanatorio, L'Annonciade, ponte Husson, Colletta, cappella San Bernardo, vetta del Razet) vide tre incidenti.
Sul Gorbio inferiore, una unità italiana rifiutò di entrare in contatto con i Senegalesi, i quali furono ritirati.
Dal bunker di ponte San Luigi, privo di informazioni (filo telefonico tagliato, radio guasta) si proseguì a sparare sui militari italiani desiderosi di ritirare lo sbarramento controcarro, allo scopo di permettere a delle ambulanze di pervenire nel centro di Mentone per ricuperare i numerosi feriti della Cosseria: ci furono la morte di due uomini ed il ferimento di altri sette, fino all'arrivo di due ufficiali da Cap Martin che confermarono l'armistizio, per ottenere il ritorno della guarnigione in zona non occupata. Lo stesso trattamento fu riservato alla guarnigione accerchiata di Pilon.
A Pierre Pointue, la guarnigione uscita per respirare e fare asciugare i suoi panni col sole ritrovato fu catturata da una compagnia della Modena, la quale pretese così di avere conquistato il bunker, suscitando una minaccia di ripresa dei tiri da parte del forte di Castillon, minaccia che risultò efficace.
Jean-Louis Panicacci, La Battaglia per Mentone (10-24 giugno 1940) e l’occupazione italiana di Mentone, Atti del convegno “10 giugno 1940: la guerra di Mussolini”, Quaderni Savonesi, n. 22 novembre 2010, Isrec
 
Mussolini in visita all'ospedale di Sanremo (IM) il 25 giugno 1940. Fonte: Archivio Centrale dello Stato