giovedì 2 dicembre 2021

Mi avevano offerto di comprare una torre saracena dietro la Piana di Latte


Ad animare il mondo di Nico Orengo è sempre l’idea di un artificio necessario, il confine sottile che passa tra la letteratura e la vita, la frontiera allusiva e illusiva che s’incide come una ruga burbera, non diversa da quella frontiera geografica che lui ha marcato tra Latte e Mentone, tra il corruccio di una terra di fasce e lo splendore di un mare di luce, tra aprico e «ubagu», tra grandi alberghi e poveri carrugi, un lembo ultimo di Costa Azzurra che trae il suo alimento dall’emozione dei nomi. Un domestico Far West che diventa origine, illusione, sotterfugio, meraviglia, miracolo, ferita.
Esordiente negli anni Sessanta, compagno di strada della Neoavanguardia raccolta intorno al disparato «Gruppo 63» - e dunque sensibile allo sperimentalismo delle strutture e dei linguaggi -, Orengo si è via via allontanato da quella esperienza costruendosi una personale e originale misura di realtà e di grazia, di malizia e di pietà, di leggerezza e di grottesco, attaccandosi alla geografia di un fazzoletto di terra: la spiaggetta di Mamante, Punta Beniamin, le barme dei Balzi Rossi, Punta Mortola, i Giardini Hanbury, la baia di Garavan, Grimaldi, Latte («Latte fu il primo luogo») <1, i borghetti interni di Apricale, Taggia, Isolabona, Pigna, Triora, Perinaldo.
Un mondo che sa tenere in tasca come un Tom Sawyer che ami far comunella con Robinson e con Alice, con l’ultimo dei Mohicani e con Tom Mix: sia che si mobiliti a difesa di un uliveto minacciato, sia che esplori la memoria di un’infanzia difficile in cui muovere la fitta trama dei paesi, dei personaggi, delle ville, degli alberghi, dei profumi, dei nomi, dei silenzi, dei caratteri, dei sapori di un paesaggio di fasce e declivi, di mare e monte, di pesca e caccia, di frontiere blu e borghi abbarbicati a un costone. Una terra capace di «stare nel poco», ma percorsa dai brividi della mondanità internazionale.
In tanto svariare di affetti e di umori, colpisce il senso di una fedeltà capace di incidere un carattere, l’idea - appunto - di un paesaggio (con figure) che sa fissare un’origine.
Basta un paio di mocassini (del padre morto) per strappare la più implicata delle confessioni: "Ringrazio mio padre, con il quale ho avuto rapporti molto difficili, di avermi fatto diventare o tornare ad essere un ligure, qualcuno di tenace, malmostoso, fiero, levantino, fedele, generoso. Qualcuno che ama la sua terra, con fatica se ne sta lontano e la sogna come una terra che «solo a sé è permessa»". <2
Del resto in un’altra circostanza - una di quelle rare in cui si sia concesso a dichiarazioni dirette - Orengo ha sottolineato: "Per scrivere il «giardino incantato» di quando abitavo natura e stagioni, avevo dovuto subirne il distacco e le parole si erano fatte sature di quella distanza, di quella impossibile continuità. Se fossi ancora vissuto in Liguria, nel Ponente, sulla Piana di Latte, o a Mortola, forse non avrei scritto una parola, non sarei stato costretto a tradurre in parole le zigurelle che colorano gli scogli di Punta Beniamin, né le mormore che girano sui fondali di Mamante, o i voli dei beccafichi sulla via Romana, o quelli dei rondoni che arrivano assetati, esausti, da Bonifacio sugli uliveti di Mentone". <3
Luogo dunque delle radici ritrovate e luogo mitico, luogo di grande aura, tra pittori artisti banchieri inventori attori, luogo degli inglesi (ma anche dei russi), uno scoglio di Liguria selvaggia e di terra dolce e ospitale. Ma anche luogo dei ritorni continui, della verifica costante. Non solo un nido d’anima mosso da segrete pulsioni. Non solo una geografia emotiva entro cui covare l’antica ferita prima dell’origine e poi della lontananza. Ma luogo di vita vissuta, universo «sempre più avvelenato» che si misura coi traumi e gli strappi della modernità più postmoderna.
Il paesaggio di "Ribes" (1988), ad esempio, è tutto un entroterra di eucalipti e ulivi, faggi e roverelle, salici e pepi, castagni e vigne di rossese. Ma fa ben presto a trasformarsi in uno scenario congestionato e multiforme, in cui vibra il molteplice. A contare, non tanto le vicende individuali, che pure si consumano a volte in spasimi segreti, ma il loro intricarsi e muoversi su una superficie apparentemente esteriore, mistione di gesti, di azioni, movimenti, figure che si dispongono in una sorta di caleidoscopio fantastico o di iperrealismo fantasiosamente grottesco.
[...] Una delle caratteristiche salienti del suo narrare è l’attitudine a muovere sulla tela più storie insieme giocandole in una piccola girandola di associazioni e di allusioni lungo i confini lievi di un osservatorio locale cui l’intero universo si connette. Il risvolto lunare e a volte fiabesco della realtà insieme con il ritmo segreto di una natura sensuale e metamorfica, sempre un po’ distante e fuggitiva.
Tutto questo comporta una mano attentissima alle risorse del linguaggio, trattate con parsimoniosa ricchezza. Toponimi, nomi, profumi, cibi semplici, sapori essenziali, una botanica e una zoologia assai precise ma nello stesso tempo fantastiche. Un mondo di parole esatte, localmente connotate, ma nello stesso tempo ricche di un loro alone evocativo. Parole correlative ad un mondo in cui - altra frontiera - poesia e prosa sono costantemente in dialogo.
Non a caso Orengo ha una volta parlato della poesia «come laboratorio, falegnameria della prosa». <4
Il che significa - nella relazione allusa che passa tra un poemetto (Trotablu) e un romanzo (Dogana d’amore) - quasi il perfetto rovesciamento del canone alfieriano-leopardiano (la prosa come «nutrice» del verso), che si abbevera tuttavia - al di là delle apparenze - a una comune e congeniale tensione.
[...] Lungo le rive della Bormida Giuseppe Cesare Abba scrive la sua avventura garibaldina e Augusto Monti ambienta l’epopea dei "Sanssôssì", mentre lungo le rive del Belbo Pavese concepisce la melvilliana fantasia del cetaceo, legando l’incanto della sua fuga bambina al fascino giramondo di magnani e carrettieri. Poco dopo di lui Arpino sfoga a Genova i suoi conati ribelli dietro l’amato Campana, e un po’ dopo ancora - a Savona - Gina Lagorio tenta di congiungere la «Cascina delle monache» alla speranza di un più aperto riscatto. Non sono che parziali riscontri di un destino che diventa scrittura.
E destino è certo stata la Liguria per Nico Orengo, anche se il suo tracciato - siano amorose dogane o salti d’acciuga o spiccioli d’acquarello - non passa di qua, ma piuttosto da Vermenagna e Tenda, per altre tappe, per altre stazioni (ancorché da Alba, con "Di viole e liquirizia", si disegni il tragitto del misterioso Eta Beta, alter ego mai così prossimo alla malinconia del suo ideatore: per dirla con un’espressione che s’incontra in "Figura gigante", la malinconia che gli «circumnaviga» il cuore): "Così si andava lungo la Valle Roja, verso il mare, incontro agli ulivi di García Lorca e alla possibilità di imbattersi in un pesce grande come quello del pescatore di Hemingway. Ci portavamo dietro piccoli libri dove orsi venivano, chissà come, abbandonati in isole di rose, mentre noi sapevamo che la nostra realtà sarebbe stata ben più infelice. E dalla città saremmo stati sbalzati su terre da Robinson Crusoe, e avremmo dovuto accendere falò, contro il buio; pescare il pesce, cucinarlo sulla spiaggia, vivere solitari". <5
Ecco qui posta la questione della prospettiva. Che non è questione secondaria nel mondo di Orengo. Che infatti l’universo più letterariamente suo proceda a partire da Torino - dalla casa di Corso Cairoli e dalla scuola del Sociale «che dopo l’espulsione dalla Tommaseo in piazza Cavour mi costringeva sui banchi con un cerotto sulla bocca» <6 - non potrà risultare come un semplice dettaglio, ma come un vero e proprio mito fondativo: "Un anno a settembre non tornammo in città. Non prendemmo come tutti gli anni la via del Roja e del Tenda. Rimanemmo con mia madre e mia sorella al mare. Così imparai a conoscere la Liguria autunnale di sole tiepido e natura che ripartiva caricando l’aria di odori e colori. Cominciammo a cambiare case, «Villa Boyer», «Villa Corinna». Cominciai ad ascoltare per l’Aurelia la cantilena del vetraio, dell’arrotino, del risuolatore di scarpe, del venditore di bughe, «belle bughe fresche». Imparai l’orario del venditore di giuggiole che arrivava sullo spiazzo appena di fronte al ponte di Latte, con il suo carrettino e i sacchetti di una carta gialla che assomigliava a quella della farinata e anche del pesce. Imparai gli inverni lunghi, tiepidi, le case fredde scaldate dal putagè della cucina e i camini dove bruciavano pezzi d’olivo e nel letto si mettevano mattoni scaldati sulle stufe e bottiglie d’acqua calda, foderate di lana e pelle di coniglio, che perdevano sempre un po’ dal tappo. Imparai che i pomeriggi erano di luce breve e di ore lunghissime e bisognava avere qualcuno con cui passarle. E il mio compagno preferito era Dante, il ciabattino, grande cacciatore, grande pescatore, grande costruttore di barche in legno, caravelle e padri pellegrini. Grande ciabattino, musicista della risolatura, manovratore di filo e spago e pece. Maestro di una piccola orchestra di martelletti e chiodini che suonava a metà pomeriggio, accompagnata dai profumi di cucina che la moglie Rina sapeva estrarre da una coscia di coniglio, una ricciola, una carota". <7
[...] "Le mie cugine Ammirati mi avevano offerto di comprare una torre saracena, di proprietà Orengo, dietro la Piana di Latte. Non trovai quel denaro e per quella casa ci feci una malattia, ci «persi il cuore» in una notte di giugno che passai a fantasticare con le finestre aperte in casa di mia zia, al mare. Presi una polmonite aggravata da pericardite acuta. La città mi aveva indebolito. Passai tre mesi fra un ospedale a Santa Margherita e le Molinette di Torino. Pensarono che non ce l’avrei fatta, mi facevano le polaroid da far vedere a mio figlio Simone, allora molto piccolo. Successe lo stesso giorno che Lauda andò a fuoco sul Nürburgring. Quando ne uscii chiesi come se l’era cavata. E sentii di guarire un giorno che mi venne voglia di mangiare un coniglio con le olive. Fu dopo di allora che persi il concetto di distanza. Ero comunque, ci fossi o no, lì: presente ed estraneo". <13.
[...] A frugare nelle pieghe di quella frontiera o di quella «dogana», che - in senso lato - separa e unisce Liguria e Piemonte, Nico Orengo ci è andato con convinzione sempre maggiore. Conquistato il suo mondo, l’esplorazione dei dintorni è diventata meno guardinga e la «misura del ritratto» (per richiamare il titolo del suo romanzo più “torinese”) sempre più convinta. La partenza è "Trotablu" (che con "Dogana d’amore" fa in qualche modo dittico).
Ma poi sono venuti "Figura gigante" (1984), "Gli spiccioli di Montale" (1992), "Il salto dell’acciuga" (1997) e infine "Di viole e liquirizia" (2005) che non è il titolo migliore, ma di certo - nella direzione verso cui andiamo - uno dei più esposti.
"Figura gigante" è il racconto di un freak, di un «mostro» o di un «diverso» - il gigante delle Alpi Marittime - che gira il mondo come un fenomeno da baraccone, partendo dalla Valle Stura (e da Vinadio) in una pagina essenziale e sobriamente commossa («In un racconto tutto è essenziale», scriverà in una pagina degli "Spiccioli di Montale" <15)
[...]
[NOTE]
1 N. Orengo, Terre blu, Il nuovo melangolo, Genova 2001, p. 14.
2 Ivi, p. 62.
3 Id., Gli spiccioli di Montale, cit. dall’ed. Theoria, Roma 1992, p. 26.
4 Id., Trotablu, Genesi, Torino 1987, p. 64.
5 Id., L’allodola e il cinghiale, Einaudi, Torino 2001, p. 39.
6 Id., Terre blu, cit., p. 62.
7 Ivi, p. 29. Un piccolo lacerto potrei qui aggiungere dallo stesso libro per sottolineare una coincidenza, che potrebbe anche essere, se non proprio una citazione, una reminiscenza. Il passo è questo: «A scuola andavo attraversando oliveti cosparsi d’iris e gigli di San Giacomo da “Villa Corinna”, campi di carciofo dai fiori viola e di fave dai fiori bianchi. Ci andavo col mio ciocco d’ulivo e la mia mela, entrando direttamente, dalla finestra, sul mio banco» (p. 19). La coincidenza riguarda Gianni Rodari, il quale parla del gioco di entrare «dalla finestra» sia nella Grammatica della fantasia (che Orengo ben conosceva), sia nell’Autointervista (che cito da G. Rodari, Il cane di Magonza, a cura di C. De Luca, prefazione di T. De Mauro, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 186): «La fantasia fa parte di noi: guardare dentro la fantasia è un modo come un altro per guardare dentro noi stessi. E se la realtà è una casa, può essere divertente ogni tanto entrarci dalla finestra invece che dalla porta». La bella differenza sta nel fatto che Orengo sposti il suo entrare «dalla finestra» dalla casa alla scuola, ottenendo un effetto doppiamente fantasioso.
13 Id., Gli spiccioli di Montale, cit., pp. 29-30.
15 Id., Gli spiccioli di Montale, cit., p. 46.
Le dogane di Nico Orengo tra Mortola e Torino in Giovanni Tesio, Novecento in prosa da Pirandello a Busi, Edizioni Mercurio, Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale «Amedeo Avogadro» - Collana Studi Umanistici Nuova serie 24, 2011