martedì 16 agosto 2022

Costruire un convento non è un problema di cultura, è un problema di religione



Costruito sul pendio collinare tra Sanremo e Coldirodi, il convento [n.d.r.: il Monastero del Carmelo a Sanremo (IM)] è considerato da Giò Ponti una delle esperienze «che restano eccezionali nella […] vita d’architetto» (Ponti G., 1959, p. 2).
Caratterizzato da alti muri bianchi, in contrasto con l’azzurro del cielo e il verde circostante, il Monastero si presenta come una fortezza costruita intorno alla cappella centrale, primo elemento che si individua dalla strada e ultimo a cui i tortuosi collegamenti interni del monastero conducono.
Il monastero si divide in tre parti: la foresteria, con numerose stanze da letto, una sala da pranzo, una cucina, l’appartamento del cappellano e della direttrice, la cappella, con il sagrato e le zone pubbliche, e la parte di clausura. Quest’ultima, necessariamente la più ampia, comprende un ingresso adiacente a quello per il pubblico, un patio che separa la zona per le suore, la cucina, un refettorio, il laboratorio di cucito, una grande biblioteca, lo studio della madre Priora e della vice, la sala del Capitolo, la stireria e il deposito della biancheria, la sala degli oggetti sacri e lo spazio ricreativo. La zona di clausura ruota, poi, attorno a un grande chiostro caratterizzato da una struttura chiusa e rivolta verso l’interno, al centro del convento.
Il portico del chiostro, inoltre, ha colonne di legno che, con gli elementi orizzontali sovrastanti, creano una simbolica ”teoria di croci”.
Il convento ha un secondo piano destinato a celle di clausura e di non clausura, alle quali si accede con rampe di scale indipendenti che partono dalle corrispondenti aree, pubbliche e di clausura, del piano terra.
La terza parte del monastero è la cappella, luogo a cui Ponti dedicò particolare attenzione, per il suo ruolo simbolico e funzionale centrale. È una grande aula sul cui lato verso la zona di clausura si trovano l’altare e la parete forata che divide la cappella dal coro delle monache, mentre, sul lato opposto, otto setti murari, quasi quinte teatrali, dividono lo spazio sacro dal sagrato esterno coperto, senza separazioni nette. La disposizione dei setti murari, a semicerchio intorno allo spazio sacro dell’altare, chiude «virtualmente il breve spazio, creando il raccoglimento: ma per chi si volge indietro, ad uscire, esse fan sì che la cappella si apra tutta sulla vista del sagrato, e il muro di cinta ne è allora l’estrema verde parete, e il cielo di Sanremo ne è il bellissimo tetto.» (Ponti G., 1959, p. 5).
Giovanna Franco e Stefano Francesco Musso, Architetture in Liguria dopo il 1945, De Ferrari, Genova, 2017


[...] “Costruire un convento non è un problema di cultura, è un problema di religione” <3: così, nel giugno 1955, Gio Ponti avverte le Carmelites de Saint-Élie, francesi ma insediate a Sanremo nel 1901, che lo hanno invitato a studiare il progetto e la costruzione del nuovo Convento di Bonmoschetto.
Le Carmelitane potrebbero essere arrivate a incontrare l’architetto milanese, per affidargli l’incarico del loro nuovo convento, grazie a un contatto con la redazione di “Art Sacré”, cui è stato chiesto un consiglio preliminare <4. Tale inizio farebbe supporre una consapevolezza culturale che, fin dalle prime fasi progettuali, tuttavia appare ai progettisti piuttosto invasiva, quando non inopportuna. Già nel novembre 1956 Ponti scrive, con garbo puntiglioso: “voi sapete che non insisto nelle mie opinioni per cocciutaggine: è che lavoro con troppo amore per questo Carmelo e qualche volta devo proteggerlo contro voi stesse che, seguendo certe suggestioni, potete toglierle [sic] tutta la sua espressione” <5. In ogni caso, i contatti sono fruttuosi e il progetto è avviato con slancio <6.
Il sito è scelto anche per la posizione isolata, su un pendio dolce che sale da Sanremo verso Codirodi, da dove la vista si allarga ad abbracciare un paesaggio naturale di grande serenità, quasi a ricordo del passo biblico dedicato all’ascesa del profeta Elia sul monte Carmelo <7.
La posa della prima pietra è nel marzo 1957 ma la costruzione ha luogo in due tempi separati: prima la parte propriamente claustrale, per dar modo alle suore di trasferirsi, e poi la parte della chiesa, aperta al pubblico; la consacrazione avviene il 5 giugno 1959 <8. Mai costruita, invece, sarà la foresteria, da Ponti stesso auspicata come “il luogo più bello dove passare gli ultimi anni e per morire con la Speranza” <9.
Grazie ai pochi disegni superstiti <10, è possibile avere un’idea del processo progettuale. L’architetto parte da una figura geometrica elementare, trasformata in un “piano irregolare ed espansivo” <11 attraverso un caleidoscopio di flessioni e deformazioni, dettate soprattutto dall’attenzione maniacale al programma funzionale. Per essere luogo sublime di preghiera, il monastero è reso una sofisticata macchina distributiva, attraverso la distinzione di tre livelli gerarchici d’uso dello spazio: la clausura, gli ambienti per le novizie, quelli aperti al pubblico, e in particolare la piccola chiesa.
Superata la recinzione della proprietà, l’edificio appare come una serie di volumi articolati in altezza, ma racchiusi entro un muro continuo, rifinito a intonaco bianco grezzo. Secondo l’idea originaria, il visitatore avrebbe trovato quattro ingressi: i primi due avrebbero permesso l’accesso diretto alla foresteria, mentre gli altri alla cappella e al convento vero e proprio. Questi ultimi - i soli costruiti - sono immaginati in termini assai diversi, poiché se il primo è soltanto una fessura di vetro nel muro di cinta, il secondo dà vita a una facciata autonoma, alta due piani, conclusa in alto dagli spioventi di una vela e sormontata da un calvario stilizzato in ferro battuto, che diventa omaggio leggiadro all’architettura ligure.
Entrati nel convento, tale semplicità compositiva si trasforma in complessità distributiva. Nelle parole di Ponti, “se da un lato le piante funzionalissime […] portano la sigla della mia tendenza alle forme finite e chiuse, ed al disegno espressivo […], e se i muri, pur nella loro espressione mediterranea, sono coerenti alla mia espressione […], questi muri del ‘mio Carmelo’ sono nei loro movimenti e nel loro candore i protagonisti non strutturali ma espressivi di quest’architettura, per esser essi la custodia di vite e di preghiere e di giornate preziose ed elevatissime” <12.
Attraverso filtri che impongono lievi slittamenti tra le giaciture delle pareti, gli spazi da pubblici si fanno privati per divenire, infine, claustrali.
Se al pianterreno rimangono i locali di servizio e al primo piano le celle delle monache, cuore dell’impianto diventa il chiostro rettangolare, locus amoenus caratterizzato da pilastri disegnati come croci dalle braccia sollevate, simili a figure danzanti, leggere come in punta di piedi: la vita contemplativa trova, nello spazio comunitario dominato solo dal bianco della parete e dall’azzurro del cielo, il tempo della gioia che solo la preghiera quotidiana può assicurare.
Dal chiostro, così come dai corridoi interni, le suore possono raggiungere il coro da cui assistere alla messa, senza violare il voto di clausura. Si tratta di una stanza spoglia, dove trovano posto solo gli stalli in rovere, dal disegno elementare, appoggiati come soldati alle due pareti cieche; in fondo, verso la chiesa, una grata rettangolare permette d’intravedere l’altare. Rispetto all’ariosità del chiostro, è qui che si percepisce la massima tensione mistica e antiretorica insieme.
Di là dalla grata, è la cappella conventuale. In pianta, appare il frutto dell’innesto di due figure geometriche: un quadrato, dove è l’altare, combinato con un pentagono di dimensioni maggiori. La geometria, però, non rende giustizia alla felicità della composizione, poiché solo una parte dell’area pentagonale è coperta, costituendo lo spazio della celebrazione, laddove il resto è una sorta di hortus conclusus perimetrale, a cielo aperto, stretto tra alti muri che impediscono la percezione del paesaggio circostante.
Non un vero e proprio esterno, ma un luogo dove solo la luce del sole e del cielo ligure racconta l’esistenza di un altrove. Il passaggio tra interno e esterno è immaginato, inoltre, attraverso una serie di setti murari, orientati come quinte sceniche verso l’altare e separati da ampie finestrature. In tal modo, si ottiene una percezione dello spazio uguale e contraria, poiché dall’altare le quinte scompaiono, lasciando vedere solo le vetrate che, rispetto alla posizione dei fedeli in preghiera, permettono un’illuminazione naturale proveniente dal retro o dai lati <13.
“L’architettura canta mediante il suo alto silenzio” <14: la chiesa dialoga col resto del mondo attraverso il solo filtro di quel sagrato fatto di un ritaglio di cielo, che ricorda a ognuno come ci si ritrovi in uno spazio nel mondo, ma distinto dal resto.
Il luogo sacro si costruisce soltanto attraverso il dialogo tra il silenzio della preghiera e i colori dei fiori coltivati nel sagrato, per apparire “così come siamo, in piedi, con l’animo nudo, con le nostre pene. E sentirci sicuri, protetti, isolati nel silenzio delle brevi mura, e riconosciuti” <15, ciascuno nella propria individualità.
Come lo stesso Ponti scrive, immaginare un convento di clausura impone di pensare a una religiosità introversa, laddove la “chiesa parrocchia [è] tutta estroversa nella sua funzione e missione, fraterna e popolare” <16.
L’interesse dell’architetto è qui rivolto verso il funzionamento di una macchina il cui fine ultimo, tuttavia, rimane la costruzione di uno spazio di preghiera assoluto, “emozionalmente religioso” come per Ponti è, ad esempio, l’interno di Ronchamp <17. Uno spazio sacro privo di velleità decorative, lontano persino dalla tradizione cattolica più consolidata quando prende, ad esempio, il simbolo supremo della croce, replicato ovunque nel convento, ma ne conserva soltanto il valore letterale: un patibolo, “un simbolo terribile, di supplizio e di umiliazione - elevazione” <18, frutto di una scarnificazione figurativa paragonabile a quanto si vede nella cappella di Saint-Marie du Rosaire a Vence (1947-1951), dove Henri Matisse “si limitò a simboli puramente grafici”, anche se ai limiti di una calligrafia “troppo graziosa ed ‘elegante’” <19.
Al contrario, il Convento di Bonmoschetto è inteso come “una cappella di Dio, dove l’arte si esprime con discrezione sottomessa” <20. Destinata a resistere al tempo, perché le stagioni la rivestiranno d’una patina che la renderà preziosa, l’architettura è accolta in un paesaggio contaminato solo dal lavoro dell’uomo nei campi e “ha bisogno del tempo e della pioggia e del sole e sovratutto del crescere degli alberi, delle erbe, dei rampicanti per essere quale è stata immaginata” <21.
Soltanto in questa silenziosa, paziente comunione tra materia e spirito, tra terra e cielo l’architettura potrà dirsi veramente compiuta.
 

Monastero del Carmelo al Bonmoschetto, Sanremo 1957-1959. Pianta, matite su carta da lucido, cm 41×60. Courtesy CSAC, Università di Parma. Immagine qui ripresa da Sergio Pace, art. cit. infra


[NOTE]
3 Dal dattiloscritto di una conferenza di Gio Ponti a Sanremo, del 25 giugno 1955, nell’archivio dello studio Ponti, dove sono conservati anche gli altri documenti manoscritti citati in seguito; cfr. anche G. Ponti, Amate l’Architettura. L’architettura è un cristallo, Vitali e Ghianda, Genova 1957, pp. 260-280, dove il capitolo Architettura, religione è redatto - come precisa il sottotitolo - disegnando la Cappella del Carmelo di Sanremo e Id., Religione ed architetti, in “Domus”, n. 372, novembre 1960, pp. n.n.
4 C. Capponi, Il monastero carmelitano di Sant’Elia, Sanremo (Imperia) 1957-1959, in M. A. Crippa, Id. (a cura di), Gio Ponti e l’architettura sacra. Finestre aperte sulla natura, sul mistero, su Dio, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2005, pp. 136-147.
5 Cfr. la bozza di lettera del 2 novembre 1956. Di questa prima fase, purtroppo, non sono note molte tracce documentarie poiché, nel rispetto di un riserbo che ha caratterizzato sempre le consorelle di Bonmoschetto, gli archivi di quel Carmelo non sono mai stati disponibili.
6 Le fasi di elaborazione progettuale si sviluppano in tempi rapidi, comunque attraverso un colloquio serrato tra Ponti e la priora, suor Marie-Bernard de Jésus. Lo scambio di corrispondenza superstite restituisce tuttavia l’atteggiamento fermo, da parte dell’architetto, in difesa delle proprie proposte: “dans l’architecture ayez plus confiance en moi qu’en vous”, le suggerisce Ponti il 13 settembre 1958.
7 Ponti conserverà un dattiloscritto, proveniente dalle Carmelitane, dove i passi biblici su Elia sono riportati.
8 La ricostruzione degli eventi è fatta da suor Marie-Bernard, in una lettera a Ponti del 25 giugno 1959.
9 Da un appunto dattiloscritto, 30 giugno 1959.
10 Parma, Centro Studi e Archivio della Comunicazione, fondo Gio Ponti, Studio Bommoschetto convento del Carmelo San Remo (1955 ca.), coll. 105/2, n. inv. PRA.339, n. ID 13691.
11 Bonmoschetto Convent by Gio Ponti, in “The Architectural Review”, vol. CXXVII, n. 757, marzo 1960, pp. 149-150.
12 G. Ponti, Il Carmelo di Bonmoschetto, Monastero delle Carmelitane Scalze in San Remo, in “Domus”, n. 361, dicembre 1959, pp. 1-16.
13 Il Carmelo di Bonmoschetto in Sanremo, in “Vitrum”, n. 155, maggio-giugno 1966, pp. 34-38.
14 Lettera di Gio Ponti a suor Marie-Bernard, 13 settembre 1958.
15 G. Ponti, Amate l’Architettura, op. cit., p. 275.
16 G. Ponti, Chiesa e monastero Carmelo a Bonmoschetto (Sanremo), in “Chiesa e Quartiere”, n. 12, 1959, pp. 40-58, part. p. 48.
17 G. Ponti, Amate l’Architettura, op. cit., p. 267.
18 Ivi, p. 268.
19 Ivi, p. 269.
20 Lettera di Gio Ponti a suor Marie-Bernard, 13 settembre 1958.
21 G. Ponti, Il Carmelo di Bonmoschetto, op. cit., p. 5; ma cfr. anche le parole di P. Baudoin de la Trinité, in una lettera a Ponti e Fornaroli del 9 febbraio 1960, che rileva nel Carmelo sanremese un intreccio indissolubile tra ascesi e natura.

 

Monastero del Carmelo al Bonmoschetto, Sanremo 1957-1959. Veduta prospettica, pianta e alzato dell’altare con tabernacolo centrale in scala 1:20, inchiostro di china e pennarelli su copia eliografica. Courtesy CSAC, Università di Parma. Immagine qui ripresa da Sergio Pace, art. cit. infra

Sergio Pace, Convento di Bonmoschetto Sanremo, 1957-1959 in (a cura di) Maristella Casciato e Fulvio Irace, Gio Ponti. Amare l’architettura. 27 novembre 2019 - 13 aprile 2020, mostra retrospettiva al MAXXI di Roma,  catalogo ( a cura di Maristella Casciato e Fulvio Irace, doppia edizione in italiano e in inglese. 300 pagine, 150 immagini. Contributi di 45 autori, tra cui: Giorgio Ciucci, Barry Bergdoll, Domitilla Dardi, Anat Falbel, Farhan Karim, Jorge Rivas, Règean Legault, Bernard Colembrader, Alessandra Muntoni ), Forma Edizioni S.r.l., Firenze, 2019, articolo qui ripreso da Academia.edu