mercoledì 6 ottobre 2021

Addio distintivi di carica e fasciste littorie


Vi fu un personaggio che il 1° maggio 1924 invitò in Pieve [di Teco (IM)] gli squadristi di Albenga e fu lui che, in quella memoranda notte, indicò a quella ciurmaglia avida di malaffare le case ove farvi irruzione sicché, vittime di gravi percosse, furono trascinati alle carceri cittadini onesti e stimati.
In questo episodio di terrore trovò la morte Bartolomeo Cerato, che decedette poco dopo, a seguito delle percosse ricevute.
Ma queste azioni contano poco dinnanzi al miraggio spregiudicato d'un avvenire di prosperità famigliare.
E l'impiego venne - era naturale. Il (...), senza concorsi o titoli, si trovò impiegato governativo presso l'Agenzia Catastale di Imperia, riuscendo sempre naturalmente, quale benemerito fascista, a far trasferire ad Imperia Città la propria moglie, maestra in Pieve di Teco.
Così arrotondò egregiamente i suoi proventi e così raggiunse ciò che per lui sarebbe stato follia sperare.
Era dunque possibile che un regime dittatoriale potesse perdurare e resistere nel tempo se tra i suoi sudditi più significativi, al centro e in periferia, c'erano di questi esemplari?
«Un trucco podestarile»: la definizione scaturisce limpida come acqua di fonte dall'analisi dei fatti che mettono in piena luce un passato ed un presente, e che inquadrano una vita manchevole di ogni vera attività qualificante  amministrativamente.
Il (...) giunge al potere attraverso un armeggio velato da un leggero senso di supponenza indisponente, che però nascondeva un ardente desiderio, malamente simulato. E così è accaduto che, trasportato dalla sola curiosità del mandato podestarile, ne assunse l'investitura ma, come un immorale spregiudicato, respinge poi ciò che prima servì ai propri sensi, così lui abbandonò al capriccio degli eventi il culto dell'amministrazione, distruggendo quel senso d'autorità, indispensabile per chi tiene al proprio prestigio.

Infatti, nei caffè e per le vie, il suo mandato lo commentava fra smorfie e sberleffi, come se si trattasse di scherzi da menestrello, ben felice quando riusciva a indurre al riso i suoi interlocutori.
Ma poiché dal ridicolo al disprezzo il passo è breve, si pervenne agli omonimi stercorei battesimi della sua targa professionale, forse per dirgli che più in basso non si sarebbe potuti scendere e per colpire tanta sua strafottenza podestarile.
Troppe volte egli ha ripetuto espressioni menefreghiste ai suoi amministratori ed essi, per legittima ritorsione, lo hanno voluto colpire colla forma più triviale ed offensiva.
Questo io credo sia stato per lui il vero significato di un tale conferimento e, benché esagerato, non del tutto immeritato.
Nel campo amministrativo, un uomo veramente consapevole della responsabilità assunta, deve mettere a disposizione dell'autorità Prefettizia, le sue dimissioni, ogni qualvolta riconosca l'insostenibilità della sua carica.
Se ciò non fa è naturale che debba sopportare tutte le conseguenze derivanti da un mandato assunto come una semplice sinecura, cioè con una trascuratezza che, spesso, confina con atti di strafottenza.
Spesso poi tale comportamento urta il risentimento degli amministrati, che finiscono per reagire con gliatti e i mezzi che, a loro giudizio, possono sembrare i più adatti e consentiti.
Questa è la ragione degli stercorei imbrattamenti della targa professionale e dell'uscio stesso della sua casa di abitazione.


«Nicola». Tutti sanno chi è questo Nicola, perciò nessuno lo vorrà con fondere col buon questuante conventuale, noto nella valle per il saio francescano che lo onora.
Cioè, a tutti è ben nota questa occhialuta figura, tutta elettricità e squadrismo.
Egli è marziale, massimamente quando veste l'orbace con cimiero e stivaloni, e maestoso incede colle mani intrecciate al tergo, dondolandosi come oca sull'onda.
Quasi quasi fa sorgere il dubbio s'egli scenda di Val d'Arroscia, oppure se appaia come un'ombra risorta dal Vallo delle Termopili.
È veramente solenne il nostro Nicola!
Il Suo passo pesante e sonoro, da dragone della Guardia, manifesta al Suo Duce tutta la foga del suo spirito rivoluzionario.
Ma Nicola non è rettilineo, perché ignora come qualmente l'uomo, che professa con vero culto un'idea, non si deve limitare ad una disciplina puramente esteriore, ma deve sul serio uniformare la sua vita a tutte le esigenze morali e materiali necessarie per il trionfo del principio stesso che lo anima.
Perciò, se a questo concetto di sacrificio non si ispirano le attività di chi ricopre mandati di responsabilità, non solo egli tradisce l'idea, ma offende anche quella massa che, in buona fede, può averlo scelto come depositario delle proprie confidenze.

Ma quella di Nicola non è stata una vita di sacrificio per l'idea.
Il fascismo che, in un primo tempo, avrebbe voluto essere l'esaltazione del nazionalismo, inteso nel senso di elevazione spirituale di tutti i valori nazionali, rivendicati all'Italia quei diritti che ad ogni popolo competono per legge divina, ha chiesto per tale scopo il contributo personale dei suoi gregari.
Molti di questi onesti, e sinceramente convinti, disposti a tutto sacrificare per la maggior gloria dell'idea, hanno risposto con entusiasmo, ma il Nicola e gli infiniti nicolini locali, non solo non hanno risposto all'appello del Duce, ma hanno persino smarrite nell'agitazione del panico le proprie insegne.
Addio distintivi di carica e fasciste littorie: ben altra posta vi era in giuoco. Si trattava ormai della conservazione della pelle, che più contava, e questa fu salvata.

[...] 


Il 1° maggio 1924, a seguito di una incursione punitiva in Pieve di Teco da parte delle squadre di azione di Albenga, io con Pepin Ferrari - Cesare Molinari e Andrea Rossi - (questi tre ultimi d'antica fede socialista) e parecchi altri, fummo costretti ad accettare la tessera del fascio.
Ciò è avvenuto perché il Pretore di Pieve, sig. Accame, di Pietra Ligure, unitamente al Commissario Prefettizio locale dell'epoca, ci avevano assicurati che, con tal gesto, avremmo ottenuto la scarcerazione della trentina di arrestati in quel giorno, che poi furono portati nelle carceri giudiziarie di Oneglia.
In effetti si ottenne la scarcerazione di parecchi ma non di tutti; i rimanenti vennero scarcerati in seguito.

Così restammo inscritti, e la cosa la accettammo anche per sorvegliare ciò che andava succedendo, tanto che eravamo sempre tenuti d'occhio, perché ben pensavano le nostre tendenze.
Certo è che una vera preparazione dei vari personaggi da seguire non esisteva per cui troppo gravi furono le conseguenze deleterie che si scatenarono sulla Nazione.
Col tempo si vedrà e si potrà dunque giudicare meglio uomini e cose.
Per noi, semplici osservatori ed annotatori degli avvenimenti, ma digiuni dei segreti della politica, che non è mai stata tanto tenebrosa come in questa epoca, possiamo solo asserire che non fu possibile darci ragione del comportamento dell'esercito che all'8 settembre del 1943 lo vedemmo deporre le armi innanzi alle forze tedesche. 

Nino Barli, Vicende di guerra partigiana. Diario 1943-1945, Valli Arroscia e Tanaro, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, tip. Dominici Imperia, 1994