sabato 9 ottobre 2021

Solitamente scrivo sulla riviera di Ponente perché io sono di laggiù

Un acquerello di Nico Orengo - Fonte: Università degli Studi di Torino cit. infra

[...] Nicola Antonio Maria Orengo, detto Nico, era nato a Torino il 24 febbraio 1944. Torinese di nascita ma ligure di origine, era figlio del marchese Pier Paolo Vladi, regista  e scrittore, e di Casimira Incisa di Camerana.
A Torino frequentò i primi anni della scuola  elementare per poi trasferirsi nei luoghi d’origine della sua famiglia, a La Mortola Inferiore, nella Liguria dell’estremo Ponente. Nello scenario incantato dei giardini Hanbury, nella villa che era stata un tempo della sua famiglia, trascorse la propria infanzia a stretto contatto con la natura. In quei luoghi avvenne la sua vera formazione e si sviluppò il suo interesse per il mare, la botanica, i libri, il teatro, il cinema, e in particolare verso quel tipico paesaggio ligure che divenne caratteristica peculiare di quasi tutta la sua produzione letteraria, punto privilegiato da cui osservare le trasformazioni della società.
Non a caso proprio il distacco dalla terra d’origine generò in Orengo la necessità della scrittura: a sedici anni con la sua famiglia fece ritorno a Torino, dove proseguì gli studi nella scuola di Agraria di Lucento, per poi trasferirsi a Roma presso la zia Renata, fine intellettuale, sorella del padre e moglie di Giacomo Debenedetti. Nella capitale, dove era già stato alla fine degli anni Cinquanta per sostenere l’esame di recitazione al Centro Sperimentale di  Cinematografia, conseguì il diploma di maturità magistrale; lì conobbe, fra gli altri, Elsa Morante, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, che frequentavano il salotto di suo zio. Di nuovo a Torino, si iscrisse alla facoltà di magistero che abbandonò per incominciare a scrivere.
Grazie all’appoggio di Franco Antonicelli, aveva esordito in poesia con la raccolta Motivi per canzoni popolari (1964), mentre il suo esordio in prosa avvenne, per intercessione di Nanni Balestrini, con l’uscita del racconto ‘sperimentale’ Per preparare nuovi idilli (Milano 1969), che era stato letto due anni prima (maggio 1967) all’incontro del Gruppo 63 a Fano.
A 22 anni Orengo entrò, a fianco di Italo Calvino, all’ufficio stampa dell’Einaudi dove rimase fino al 1977. Abile scopritore di talenti, assorbì e interpretò a fondo lo “spirito einaudiano” di quegli anni, insieme a Roberto Cerati, Ernesto Ferrero, Giulio Bollati e Guido Davico Bonino. Nel giro di poco tempo, sviluppò un profondo, contrastato e duraturo legame di amicizia con Giulio Einaudi.
Con la nascita del primo figlio Simone, a cui dedicò A-ulì-ulé (Torino 1972 poi Milano 2011), una raccolta di filastrocche, conte e ninnenanne con i disegni di Bruno Munari, Orengo incominciò a dedicarsi alla poesia per l’infanzia, che coltivò per lungo tempo, pubblicando decine di titoli, alcuni dei quali (ad esempio L’allodola e il cinghiale, Torino 2001, con i disegni di Luigi Mainolfi) sono stati dedicati ai figli che nacquero successivamente: Vladimiro, Antonio ed Eugenio.
Se i primi romanzi furono influenzati dalla  neoavanguardia, come il romanzo E accaddero come figure (Padova 1972), con Miramare (dapprima rifiutato da Calvino per Einaudi e pubblicato da Marsilio nel 1976; poi Torino 1989), Orengo col tempo cambia direzione e indaga la sua nostalgia per la terra d’origine, popolando le sue storie (la sua bibliografia non è ancora stata completamente esplorata: una ventina di romanzi e decine di raccolte poetiche oltre a traduzioni, prefazioni, curatele e migliaia di articoli giornalistici) con  personaggi che abitano quella lingua di terra così vicino alla Francia: pescatori, giardinieri, dive del cinema, commercianti di sale, barman, nobili russi, contrabbandieri, donne inquiete e marinai, e coltivando una lunga e approfondita poetica in difesa del territorio.
Nel 1977 tornò alla poesia, Collier per Margherita (Roma) raccolta di poesie amorose intrise di ironia, cui seguì Cartoline di mare (Torino 1984 e 1999) dove la natura diventa sempre più protagonista, anticipando così il romanzo Dogana d’amore (Milano 1986; poi Torino 1996), cui seguirono Ribes (1988) e Le rose di Evita (1990).
A partire dal 1978, Orengo aveva iniziato a lavorare come giornalista culturale presso il quotidiano torinese “La Stampa” dove, nel giugno del 1989, divenne responsabile del supplemento settimanale Tuttolibri, ruolo che ricoprì fino al dicembre 2007, continuando successivamente a collaborarvi.
Nel 1993, in collaborazione con l’Università di Genova, ideò il Premio Hanbury-La Mortola, dedicato allo studio e alla salvaguardia del paesaggio.
Collaboratore di numerose riviste letterarie, della radio e della Rai, per cui scrisse alcune sceneggiature e radiodrammi, Orengo fu anche un bravo acquerellista e seguì con passione l’arte contemporanea, avendo stretto amicizia con numerosi artisti tra i quali Giulio Paolini, Luigi Mainolfi, Gilberto Zorio, Salvo, Marco Gastini, Michelangelo Pistoletto, Giosetta Fioroni, Claudio Parmiggiani, Giorgio Griffa, Luigi Stoisa, Ugo Giletta. Scrisse a lungo di arte, come dimostrano numerosi cataloghi di mostre e curò le edizioni della Via del sale, rassegna d’installazioni d’arte tra Piemonte e Liguria organizzata da Silvana Peira.
Si spense a Torino il 30 maggio 2009. [...]
Redazione, L'eredità di Nico Orengo all'Università di Torino: libri, manoscritti e documenti al Centro Gozzano Pavese - Fotocomunicato, Università degli Studi di Torino, 12 maggio 2017

Un acquerello di Nico Orengo - Fonte: Università degli Studi di Torino cit.

Anche per quello che riguarda la «generazione del ‘68», Raboni è abbastanza chiaro, e le sue scelte, in tutto concomitanti alla sua attività di consulente editoriale, si riflettono in buona misura nel catalogo dello “Specchio” e della “Fenice” così come si delinea nel corso degli anni Novanta:
"Nell’elenco «anagrafico» della generazione, che la forte vicinanza (alcuni di questi autori hanno debuttato una decina di anni fa, altri più di recente, e da tutti è ragionevole aspettarsi ulteriori indicazioni e sviluppi) rende particolarmente provvisorio, possiamo intanto scrivere i nomi di Dario Bellezza, Angelo Lumelli, Nico Orengo (1944), Giuseppe Conte e Maurizio Cucchi (1945), Biancamaria Frabotta, Vivian Lamarque, Francesco Serrao (1946), Patrizia Cavalli e Cesare Viviani (1947), Roberto Carifi (1948).
Marco Corsi, Canone e Anticanone. Per la poesia negli anni Novanta, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, Anni 2010/2012 

Un acquerello di Nico Orengo - Fonte: Università degli Studi di Torino cit.

Quest'intervista ha avuto luogo nel dicembre del 1995 a Torino, negli uffici di via Marenco della Stampa. Nico Orengo, responsabile di Tuttolibri, ha risposto a alcune domande sulla sua attività di critico e di intellettuale e, soprattutto, sui suoi più recenti lavori di narrativa. Ne riportiamo il testo in questa sede.
SL: Perché sempre e solo la Liguria, anzi, la riviera di Ponente nei suoi romanzi? Perché non Torino?
ORENGO: Volevo aspettare una storia, vorrei provare cose, fatte in precedenza, di cui non sono stato assolutamente convinto. Vorrei provare a scrivere un romanzo su Torino, che non ho mai scritto. Cioè ne ho scritto uno che proprio non mi convinceva. Si chiamava La misura del ritratto (Bompiani, 1979, n.d.r.). C'era in esso la presunzione di poter capire Torino e vedere Torino, quando Torino era già stata scritta e descritta molto bene da Calvino, da Pavese, da Arpino, da Fruttero e Lucentini. Lì ho capito che dovevo ancora conoscerla, infatti non ho mai più scritto su Torino. Adesso, invece, vent'anni dopo quel romanzo, vale la pena riprovare. Provare perché il problema è sempre quello di scrivere una storia, ma, se si parla di una città, bisogna anche dare un taglio diverso, e, allora, lo vorrei fare attraverso le case che ho abitato. Solitamente scrivo sulla riviera di Ponente perché io sono di laggiù, la conosco molto bene, ed anche perché, ormai, non esiste più nella vita e, quindi, anche nella letteratura, un centro e una periferia, cioè delle storie che possono essere raccontate solo in una città e non in una cosiddetta periferia. Ormai i problemi di una città si trovano anche in una periferia.
[...] Poi (le ambiento) là perché, intanto è il luogo delle radici, ma anche perché è una Liguria strana perché, come dire, è tipica, molto mare, scoglio, roccia, una Liguria pietrosa, impervia, ma allo stesso tempo è anche la Liguria degli inglesi, una doppia Liguria, fatta dagli inglesi, e quindi c'è una cultura in più. Questo è un fascino ulteriore alla motivazione di scrivere di lì.
SL: A proposito di radici ne Le rose di Evita, l'Alborno senior, il nonno, seguendo il suo sogno d'amore, riceve questa punizione (se vogliamo chiamarla così). Cioè, è vero che chi parte dal proprio paese, dalla propria società, dal proprio ambiente rischia l'emarginazione, l'alienazione, e in certi casi addirittura la follia?
ORENGO: Chi taglia le radici, taglia la storia, e in qualche modo compie un grande delitto.
SL: Ma ognuno non si porta dietro la propria storia? Non si può creare qualcosa di nuovo?
ORENGO: Sì, se la può portare, ma inevitabilmente "tira" queste radici che ci sono. Credo più all'innesto che al disvellere la radice per creare una cosa nuova. Non si può mai creare una cosa nuova e forte, se non è forte la motivazione della memoria. Memoria che non è nostalgia, ma è proprio qualcosa che indica il movimento. Può darsi che loro vengano puniti da chi non capisce che, andando via, ma avendo una forte memoria, può dare rinnovamento. Quelli che li puniscono sono quelli che rimangono sempre lì, e che, magari, non ne hanno nemmeno coscienza. E quindi le loro radici si appassiscono. Può darsi, per esempio, che il padre del ragazzo che ha la forza di girare una collina e che rimarrà sempre lì sia, come dire, l'altra faccia dell'andar via, cioè la forza della memoria e dello stare lì, ma di riuscire a girare una collina, quindi di dare del nuovo. Non va a cercare il sole. Porta il sole lì. Il nonno, invece, va a cercare il sole.
SL: Dogana d'amore ha aperto, diciamo, le porte alla narrativa, al romanzo. In questo lavoro però è molto tenue il confine fra narrativa e poesia, spesso il narrare lascia il posto a un'armonia di lingua echeggiante le sue "cartoline." Sia Siciliano che Guglielmi nel recensire questo romanzo furono colpiti dall'amore di Martino per la trota. Qual è la relazione fra le tre "femmine" del romanzo, cioè Armida, Margherita, e la trota?
ORENGO: Margherita è la donna reale. Armida e la trota sono le donne del disagio. Ognuna di loro cerca di varcare un confine, sia Armida che la trota, e anche lì (come nei personaggi di Le rose di Evita, n.d.r.) intervengono il disagio e il movimento, anche lì bisogna cercare di superare un confine. Nella morte tutti attraversano di nuovo quest'acqua e scendono nel profondo.
[...] SL: Passiamo al Suo romanzo più recente, cioè L'autunno della signora Waal (Einaudi, 1995). Che cosa l'ha spinto ad affrontare l'impresa di scrivere un romanzo interamente basato sulle donne? Un romanzo che, partendo dalla catena di indistinguibili "Luise, Luciane, Terese, ecc.," amiche e sorelle delle donne di Ribes, con il personaggio della signora Waal quale loro madre elettiva, consigliera e confessore (manca il sostantivo femminile), non vede né analizza, figure maschili?
ORENGO: Io, questi romanzi che scrivo, non li vedo mai come isolati, ma li vedo sempre come uno "spicchio," come un romanzo lungo. In questo "spicchio" volevo parlare degli stranieri in Liguria. Allora per parlare degli stranieri in Liguria, che poi sono le presenze inglesi, tedesche e olandesi, quelle forti, e quello che mi piaceva era descrivere (perché uno cerca sempre di scrivere l'altro, oppure di descrivere se stesso attraverso l'altro, oppure di descrivere se stesso per mancanza), anche perché sono tante, erano queste anziane signore vedove, ο che diventano vedove, che ancora abitano in Liguria. Io avevo alcuni modelli reali, insiemi di persone, comunque presenze, silhouettes. Altro dato: in ogni storia, in ogni libro credo di mettere sempre due storie, una, profonda, e l'altra è una storia più quotidiana, più realistica, più sull'oggi, che una volta può essere la televisione, un'altra volta può essere l'alga assassina. Questa volta, sul lato urticante nel senso positivo, vivo, mi sembrava che poteva essere il mondo delle donne, un certo mondo delle donne, un certo segmento del mondo delle donne. Allora, siccome anche in questi paesi, come del resto in Italia, la figura delle donne che lavorano è un problema molto grosso, mi piaceva di fare questo paese in cui gli uomini non ci sono, ο se ci sono sono morti, inesistenti, vengono fuori proprio per l'inesistenza, oppure attraverso il parlare delle donne. Quello che mi piaceva era, appunto, l'idea di avere un coro femminile senza volto, volutamente senza volto, anzi può darsi che sia addirittura un personaggio solo, diviso in molti momenti a formare un coro, oppure può darsi che siano tanti volti colti su un'unica musicalità, su un unico tema, che è l'insoddisfazione della casa, della famiglia, del marito, dei figli, dell'insoddisfazione del lavoro, e soprattutto, la fatica, di affrontare tutte queste cose insieme. Questo, fatto come una specie di coro, di frinire di grilli, come d'estate quando fa caldo, di cicale, questo ronzìo su dei fatti molto concreti e molto reali. L'anonimità del coro è un effetto voluto, certamente, altrimenti avrei dato dei volti, avrei dato dei comportamenti diversi. Invece ho dato dei comportamenti che sono piuttosto di superfìcie; ciò che è importante è che sono di una certa generazione, sono le donne degli anni settanta, venute su con gli anni di piombo, venute su col desiderio di lavorare, di diventare più libere, che però hanno ancora un linguaggio che è ancora maschile. La loro liberazione, purtroppo passa attraverso un modello che in questo momento è ancora inevitabilmente maschile, e poi diventerà un linguaggio loro, chissà. Trasgredire diventa un imperativo tristissimo per chi lo applica e, perché consumistico, non è profondo. Il loro trasgredire purtroppo ha dei confini (ma che poi credo per tutti), è il trasgredire che propongono poi le riviste femminili, la televisione, la pubblicità; non è un trasgredire libero, lo sento come un non trasgredire libero. Le donne sono ancora vittime di modelli imposti da una volontà maschile. [...]
Stefania Lucamante, «Intervista con Nico Orengo», Rivista di studi italiani, XIV (2), dicembre 1996, p. 138-151

Altro spessore culturale ha il volume di Antonella Tarpino, Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini (Einaudi, 2016); e soprattutto diversi sono il tono e i modi con cui l’Autrice affronta il tema e ci espone le sue riflessioni.
[...] Una volta chiarito che l’identità non è stabile ma fluida e mutevole, la Tarpino comincia ad illustrare i luoghi che ha visitato. Il primo itinerario si svolge proprio sulle Alpi, partendo da Ventimiglia e percorrendo tutta la Val Maira, fino a Elva, a 1637 metri di quota: si tratta di “paesaggi del limite”, cioè di zone dove la cultura non ha attraversato i territori, non ha “circolato”, ma si è espansa in lunghezza utilizzando strade tortuose e sentieri impervi che dal mare portano alla montagna. Erano le strade dei “capellai” e degli “acciugai”, di quelli, cioè, che andavano nei villaggi montani per comprare i lunghi capelli delle donne per poi farne parrucche, e di quelli che andavano a vendere le acciughe salate, trasportandole nelle botti su carretti improvvisati. Ma erano anche le strade per le quali passò il pittore Hans Clemer che nei primi del XVI secolo affrescò le chiese di alcuni villaggi, portando in quei paesi fuori mano i primi vagiti della pittura rinascimentale. Gli stessi sentieri erano percorsi dai colporteurs, infaticabili venditori di libri e abili narratori di storie che, essendo analfabeti, avevano appreso dalle letture altrui. A sostenerla nella sua descrizione dei luoghi, la Tarpino chiama in aiuto gli scrittori Nico Orengo e Lalla Romano, che in quei paesaggi hanno ambientato alcuni loro romanzi.
Mariano Fresta, Il senso, il sentimento e la ragione dei luoghi, Dialoghi Mediterranei, n° 24, marzo 2017

Nella produzione letteraria di Orengo due metafore identificano efficacemente due diverse fasi del suo percorso: la scrittura come viaggio e la scrittura come giardino.
La prima metafora si trova nel poemetto L’esercizio del sentimento, pubblicato su rivista nel 1974 e in volume nel 1977. <128 Il testo si divide in una prima parte narrativa in cui viene descritto il viaggio in automobile di una coppia, l’exemplum, nella definizione di Maria Corti, che precede l’argumentatio (come in una quaestio amatoria medievale), <129 in cui vengono approfonditi e illustrati gli spunti dell’inizio. L’argumentatio comincia da «Lezione come: / insegnamento che in una volta si dà», e la sua funzione è precisata subito dopo in «analisi sommaria / sull’esempio» e in «idea di misurare e confrontare ogni parola / che si fa balbettio curvo sull’esempio» (CMe, 23). Le due parti si distinguono anche metricamente: a «versi lunghi e diseguali cola ritmici» seguono «versi più brevi e ritmicamente definiti, legati da numerose rime e da un molto più pronunciato sistema di rispondenze foniche». <130
[NOTE]
128 NICO ORENGO, L’esercizio del sentimento, in “Pianura”, 1974, pp. 15-26. NICO ORENGO, L’esercizio del sentimento, in ID., Collier per Margherita e, Roma, Cooperativa scrittori, 1977, pp. 19-35.
129 MARIA CORTI, Prefazione, in Ibidem, p. 5.
130 MAURIZIO CUCCHI e STEFANO GIOVANARDI (a cura di), Poeti italiani del secondo Novecento, Milano, Mondadori, 2004, vol. II, p. 742.
Federica Lorenzi, Il paesaggio nell’opera di Nico Orengo, Tesi di Laurea, Université Nice Sophia Antipolis en cotutelle internationale avec Università degli Studi Di Genova, 14 novembre 2016