mercoledì 15 gennaio 2020

U barba Pi de a Giordara

Pietro Asplanato
La guerra, la Grande Guerra stava tutta nei suoi occhi feriti e spenti, occhi che lentamente si nascosero alla luce, ingabbiando mio zio dentro ad un buio irreale.

Pietro Asplanato, “u barba Pi de a Giordara”, che aveva sposato la sorella di mia nonna materna, era nato nella seconda metà degli anni novanta del XIX secolo. Generazioni dimenticate e scaraventate sui vari fronti della Grande Guerra mandati a morire senza parsimonia. Non amava parlare con nessuno di quei terribili anni di “fronte”, fatto salvo con mio padre, credo uno dei pochi privilegiati che riuscì a farsi raccontare qualche passaggio di quella tragedia.
Era un diario intimo, quello che io oggi posso immaginare, del suo racconto, un diario che, una volta chiuso, difficilmente poteva essere riaperto senza causare dolore e distacco.
Papà anche lui parsimonioso ed attento a non ferirsi a sua volta si portava dietro la triste vicenda di suo padre, mio nonno Ettore, anche lui reduce di quella terribile guerra combattuta sui ghiacciai dell'Adamello: una ferita sempre aperta.

Papà amava raccontare i momenti terribili di quella triste vicenda. Però partiva da lontano: era il racconto che faceva mia nonna che visse la mobilitazione dalla parte francese nel 1914, la stazione ferroviaria di Nizza piena di giovani che partivano... e, credo, una delle preoccupazioni maggiori di tutta la popolazione senza distinzione di classe: quella di non reperire più nulla di commestibile.

Imparai dal suo “girarci intorno” di quanto e come fosse potente la rimozione che lui aveva attuato, il conflitto lo riportava inevitabilmente al ricordo lontano di suo padre fatto internare alla fine del 1939 e morto in solitudine in un luogo sconosciuto - mai un fiore abbiamo potuto depositare sulla sua povera tomba - in quelle semplici parole si chiudeva il suo dolore e rammarico di figlio inerme al cospetto degli eventi che ci colgono e ci trascinano in un dove estraneo ed impensabile.

Lo zio era stato in uno di quei luoghi “impensabili” ; lì aveva passato tre lunghi anni dal 1915 al 1917 fino alla decima battaglia sull’Isonzo nel maggio del 1917 (che costò oltre 160 mila morti italiani). Lui era sul Carso e citava spesso la Bainsizza, dove i combattimenti per un pezzo di terra furono violentissimi e dove si fece ricorso a tutte le barbarie possibili, dai gas ai grossi calibri sparati quasi ad alzo zero, dalle mazze usate per finire i feriti alle urla degli stessi abbandonati per giorni nei crateri o nelle buche dove venivano adagiati in attesa del nulla.
L’Isonzo era un termine che stava ad indicare per lo zio la sofferenza massima che un uomo può sopportare. Era lì che il suo racconto si interrompeva: lo ricordo con una mano ferma ed adagiata sui suoi occhi spenti, come se i pensieri che aveva dentro, rinchiusi, si rifiutassero di uscire.
Si poteva scorgere un che di intimo timore a parlarne, quasi come, anni dopo, ne parlò Primo Levi. Come per chi fu vittima degli orrori della Shoà non riuscire a trovare le parole per raccontare della sofferenza patita; è il blocco dei sopravvissuti, il sentirsi in colpa per essere riusciti ad uscirne più o meno incolumi.

Zio Pietro non ne uscì incolume. Un attacco credo con i gas e lo scoppio di una bomba colsero di sorpresa il suo reparto che fu decimato; molti suoi compagni persero la vita e lui perse, oltre alle ferite, anche la vista; fu riportato indietro dopo mille peripezie, anche perché il contrattacco austriaco fu devastante in quei primi di giugno del 1917.
Perdemmo tutto amava ripetere non restarono che i morti e noi feriti da riportare indietro. Ma quando si è ciechi tutto si complica: sei in balia degli eventi e devi appoggiarti ad altri che ignori chi essi siano.
Fu in quel caos terribile che raggiunse il primo posto di medicazione e poi da qui l'ospedale di Verona. Le ferite gravi e l’accecamento gli consentirono di rientrare alla fine del 1917 in congedo a Pigna.
La Grande Guerra lo aveva trasformato e riconsegnato ferito e svuotato alla sua terra.
I suoi occhi ritornarono a vedere un po' alla volta ma mai come prima. 

Come gli disse Alessandro Natta, al quale avevano scritto i miei parenti, a proposito della sua domanda sul riconoscimento di invalido di guerra “le vostre domande sono state tutte relegate nell’ufficio del dimenticatoio”.
Migliaia di casi fecero quella triste fine, chi in silenzio rinunciò chi per timore, quel timore tipico del nostro mondo contadino, chi non voleva arrecare disturbo a nessuno, chi invece, per un caso fortuito, come quello incorso allo zio Pietro, riuscì a farsi “sentire”. 
Allora, come mi confermò Alessandro Natta (un giorno viaggiammo insieme da Milano a Imperia; era il 1994; io gli ricordai di quella vicenda dello zio; la sua risposta fu eloquente) centinaia di casi sparsi in quei paesini che percorsi nei primi tempi della mia attività politica, uomini invalidati, accecati con disturbi mentali terribili, senza un che di protezione, tutti affidati alle cure dei parenti e spesso in perfetta solitudine.
I suoi occhi che cessarono di vedere la luce nel 1962 - divenne cieco completo - mentre stava ridiscendendo con il mulo dalla sua campagna alle Megiare, una campagna che era un giardino -  un piccolo Paradiso amava ripetere mio padre -: avevano la mucca, conigli, una pergola di uva ormeasca che dava un vino gradevole e la sorgente di acqua, tutto quello che la nostra terra, se curata, sa offrirci.
Papà dovette nelle settimane seguente smobilitare tutto.
Fu un dolore per tutti.
I suoi occhi non videro più.
 Conservava le due medaglie per merito di guerra in una scatoletta che si portò con se quando cessò di vivere.
Oggi [novembre 2019] andremo al Monumento ai Caduti ed io li rivedo tutti i reduci che ho conosciuto allineati in un malfermo attenti ad ascoltare l’Inno del Piave. 

Citando Ugaretti “nessun volto manca nel mio cuore”.

 
Roberto Trutalli, Sindaco di Pigna (IM)