Bevera, Frazione di Ventimiglia (IM): il fiume Roia, la centrale elettrica, una cava, la linea ferrata per Val Roia e Cuneo |
"La Val Bévera era piena di gente, contadini e anche sfollati da Ventimiglia, e s’era senza mangiare; scorte di viveri non ce n’era e la farina bisognava andarla a prendere in città. Per andare in città c’era la strada battuta dalle cannonate notte e giorno.
Ormai si viveva più nei buchi che nelle case e un giorno gli uomini del paese si riunirono in una tana grande per decidere.
- Qui,- disse quello del comitato,- bisogna fare a turno che deve scendere a Ventimiglia a pigliare il pane" (La fame a Bévera in RR I, p. 253).
"Così Bisma andò a Ventimiglia anche l’indomani. […] Ogni giorno continuò ad andare giù e a portare il pane, e ogni giorno la scampava, passava attraverso le bombe incolume: dicevano avesse fatto un patto con il diavolo.
Poi i tedeschi abbandonarono la riva destra del Bévera, fecero saltare due ponti e un pezzo di strada, misero le mine" (La fame a Bévera in RR I, p. 257).
"Furono falciati insieme, uomo e mulo, ma rimasero ancora in piedi. Come se il mulo fosse caduto sulle quattro zampe, e fosse tutto d’un pezzo, con quelle sue gambe nere e sbilenche. […] poi s’inchinarono insieme, uomo e mulo; sembrava stessero per fare un altro passo, invece diroccarono giù uno sopra l’altro" (La fame a Bévera), (RR I, p. 259).
Il racconto La fame a Bévera è ambientato durante la seconda guerra mondiale, presso Bévera, una frazione del comune di Ventimiglia. Il paese è situato alle pendici sud-est del monte Pozzo (560 mt. s.l.m.), verso la confluenza dell’omonimo torrente con le acque del fiume Roia, a quattro chilometri dal capoluogo. Probabilmente il toponimo Bévera aveva in origine il significato di «corso d’acqua dove si abbeverano le greggi».
Le parole di Calvino, nel racconto confluito in Ultimo viene il corvo, ci presentano un paese segnato profondamente dalla presenza nemica costante, dove si fatica a recuperare il minimo di viveri per il sostentamento. La figura di Bisma è in stretto rapporto con la città semi distrutta: «un paio di baffi bianchi, bisunti e spioventi, sembrava stessero per cascare in terra da un momento all’altro, come tutte le parti del suo corpo» (RR I, p. 254). Anche il fidato mulo contribuisce a creare un ambiente devastato e desolato: «col collo piatto come una tavola chinato fino a terra, e una cautela nel muoversi come se le ossa sporgenti stessero per rompergli la pelle e sbucargli fuori dalle piaghe nere di mosche» (RR I, pp. 254-255). L’immagine che si presenta è quindi quella di un uomo anziano e sordo che per tutta la vita ha sempre dovuto guadagnarselo il pane, con fatica e asperità, ritrovandosi adesso a ricercarlo «per tutta Bévera». La sordità lo aveva fatto vivere in un mondo ovattato e silenzioso, stesso destino riservato al suo mulo: «Gli scoppi non lo imbizzarrivano: aveva tanto penato in vita sua che nulla poteva fargli più impressione» (RR I, p. 255). Quindi, forse incoscientemente, si propongono come veri e propri eroi alla ricerca del pane per l’intero paese, attraversando i nemici e i bombardamenti.
«Finché ho scritto di partigiani sono sicuro che andavo bene: dei partigiani avevo capito molte cose, e attraverso a quelli avevo messo il naso in parecchi strati anche ai margini della società» (S, p. 2711) e Bisma, a mio parere, rappresenta proprio l’esempio di uomo non conformista, né borghese, modello ricercato da Calvino che emerge in Questionario 1956. Proposto da G. B. Vicari a Calvino nel 1956, si interroga l’autore riguardo gli ambienti e i personaggi di cui amava maggiormente scrivere: «Le storie che mi interessa di raccontare sono sempre storie di ricerca d’una completezza umana, d’una integrazione, da raggiungere attraverso prove pratiche e morali insieme al di là delle alienazioni e dei dimidiamenti che vengono imposti all’uomo contemporaneo» (S, p. 2712) e, il protagonista de La fame a Bévera è sicuramente un uomo di cui Calvino ama raccontare le gesta e lo stile di vita non convenzionale.
Infine, una suggestione riguardo ai dialetti locali, emerge in un saggio di Calvino intitolato Il dialetto <29. Ad una domanda riguardo l’uso dei dialetti nella cultura contemporanea, Calvino risponde: «Quando ero studente, cioè già in una società che parlava correntemente in lingua, il dialetto era ciò che ci distingueva - per esempio - noi di San Remo dai nostri coetanei per esempio di Ventimiglia o di Porto Maurizio, e dava motivo a frequenti canzonature tra noi» (S, p. 2815).
In poco più di una trentina di chilometri di costa, da Imperia a Ventimiglia, i dialetti locali, alla metà del Novecento, sono molti e ben differenti gli uni da gli altri e non solo nelle città costiere, ma ancora più forte nei paesi dell’entroterra: «per non parlare del contrasto più forte dei dialetti dei villaggi montanari, come Baiardo e Triora, che corrispondevano a una situazione sociologica completamente diversa» (ibidem).
Calvino attribuisce al dialetto una grande «ricchezza lessicale» che costituiva «un patrimonio […] insostituibile» e riferisce al lettore che quando aveva incominciato a scrivere, quindi nelle sue prime opere, la sua lingua, vicina al dialetto e all’uso del parlato popolare, erano considerati per lui, «garanzia d’autenticità». Non scrive attingendo costantemente ai dialetti locali, ma ne fa uso preciso e limitato a voci spesso legate a «tecniche (agricole, artigiane, culinarie, domestiche) la cui terminologia si è creata o depositata nel dialetto più che nella lingua» (ibidem). Quindi, personaggi come Bisma, uniti anche all’uso dell’italiano popolare, hanno contribuito a far conoscere altri aspetti del ponente ligure agli innumerevoli lettori di Italo Calvino.
[...] Percorso consigliato: partendo dalla stazione della cittadina, si percorre una vecchia pista militare dove si trovano numerose fortificazioni risalenti alla seconda guerra mondiale. Il giro compie un breve anello intorno alla cima del monte Pozzo.
Lungo il tragitto sono visibili rifugi militari ora usati come ricoveri per animali. La quota massima non supera i 500 mt. di altitudine sul livello del mare e il sentiero in alcuni punti è a strapiombo sulla sottostante val Roya. Tutta la val Bévera, con il forte Saint-Roch, il forte dell’Agaisen e il forte del Barbonnet, costituisce un patrimonio storico artistico che testimonia i tormentati episodi bellici in questo scenario montuoso.
[NOTA]
29 Saggio uscito nel 1976, il 9 maggio su «La Fiera letteraria», S, pp. 2814-2817.
Elisa Longinotti, Calvino e i suoi luoghi, Tesi di laurea, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2022-2023
Ormai si viveva più nei buchi che nelle case e un giorno gli uomini del paese si riunirono in una tana grande per decidere.
- Qui,- disse quello del comitato,- bisogna fare a turno che deve scendere a Ventimiglia a pigliare il pane" (La fame a Bévera in RR I, p. 253).
"Così Bisma andò a Ventimiglia anche l’indomani. […] Ogni giorno continuò ad andare giù e a portare il pane, e ogni giorno la scampava, passava attraverso le bombe incolume: dicevano avesse fatto un patto con il diavolo.
Poi i tedeschi abbandonarono la riva destra del Bévera, fecero saltare due ponti e un pezzo di strada, misero le mine" (La fame a Bévera in RR I, p. 257).
"Furono falciati insieme, uomo e mulo, ma rimasero ancora in piedi. Come se il mulo fosse caduto sulle quattro zampe, e fosse tutto d’un pezzo, con quelle sue gambe nere e sbilenche. […] poi s’inchinarono insieme, uomo e mulo; sembrava stessero per fare un altro passo, invece diroccarono giù uno sopra l’altro" (La fame a Bévera), (RR I, p. 259).
Il racconto La fame a Bévera è ambientato durante la seconda guerra mondiale, presso Bévera, una frazione del comune di Ventimiglia. Il paese è situato alle pendici sud-est del monte Pozzo (560 mt. s.l.m.), verso la confluenza dell’omonimo torrente con le acque del fiume Roia, a quattro chilometri dal capoluogo. Probabilmente il toponimo Bévera aveva in origine il significato di «corso d’acqua dove si abbeverano le greggi».
Le parole di Calvino, nel racconto confluito in Ultimo viene il corvo, ci presentano un paese segnato profondamente dalla presenza nemica costante, dove si fatica a recuperare il minimo di viveri per il sostentamento. La figura di Bisma è in stretto rapporto con la città semi distrutta: «un paio di baffi bianchi, bisunti e spioventi, sembrava stessero per cascare in terra da un momento all’altro, come tutte le parti del suo corpo» (RR I, p. 254). Anche il fidato mulo contribuisce a creare un ambiente devastato e desolato: «col collo piatto come una tavola chinato fino a terra, e una cautela nel muoversi come se le ossa sporgenti stessero per rompergli la pelle e sbucargli fuori dalle piaghe nere di mosche» (RR I, pp. 254-255). L’immagine che si presenta è quindi quella di un uomo anziano e sordo che per tutta la vita ha sempre dovuto guadagnarselo il pane, con fatica e asperità, ritrovandosi adesso a ricercarlo «per tutta Bévera». La sordità lo aveva fatto vivere in un mondo ovattato e silenzioso, stesso destino riservato al suo mulo: «Gli scoppi non lo imbizzarrivano: aveva tanto penato in vita sua che nulla poteva fargli più impressione» (RR I, p. 255). Quindi, forse incoscientemente, si propongono come veri e propri eroi alla ricerca del pane per l’intero paese, attraversando i nemici e i bombardamenti.
«Finché ho scritto di partigiani sono sicuro che andavo bene: dei partigiani avevo capito molte cose, e attraverso a quelli avevo messo il naso in parecchi strati anche ai margini della società» (S, p. 2711) e Bisma, a mio parere, rappresenta proprio l’esempio di uomo non conformista, né borghese, modello ricercato da Calvino che emerge in Questionario 1956. Proposto da G. B. Vicari a Calvino nel 1956, si interroga l’autore riguardo gli ambienti e i personaggi di cui amava maggiormente scrivere: «Le storie che mi interessa di raccontare sono sempre storie di ricerca d’una completezza umana, d’una integrazione, da raggiungere attraverso prove pratiche e morali insieme al di là delle alienazioni e dei dimidiamenti che vengono imposti all’uomo contemporaneo» (S, p. 2712) e, il protagonista de La fame a Bévera è sicuramente un uomo di cui Calvino ama raccontare le gesta e lo stile di vita non convenzionale.
Infine, una suggestione riguardo ai dialetti locali, emerge in un saggio di Calvino intitolato Il dialetto <29. Ad una domanda riguardo l’uso dei dialetti nella cultura contemporanea, Calvino risponde: «Quando ero studente, cioè già in una società che parlava correntemente in lingua, il dialetto era ciò che ci distingueva - per esempio - noi di San Remo dai nostri coetanei per esempio di Ventimiglia o di Porto Maurizio, e dava motivo a frequenti canzonature tra noi» (S, p. 2815).
In poco più di una trentina di chilometri di costa, da Imperia a Ventimiglia, i dialetti locali, alla metà del Novecento, sono molti e ben differenti gli uni da gli altri e non solo nelle città costiere, ma ancora più forte nei paesi dell’entroterra: «per non parlare del contrasto più forte dei dialetti dei villaggi montanari, come Baiardo e Triora, che corrispondevano a una situazione sociologica completamente diversa» (ibidem).
Calvino attribuisce al dialetto una grande «ricchezza lessicale» che costituiva «un patrimonio […] insostituibile» e riferisce al lettore che quando aveva incominciato a scrivere, quindi nelle sue prime opere, la sua lingua, vicina al dialetto e all’uso del parlato popolare, erano considerati per lui, «garanzia d’autenticità». Non scrive attingendo costantemente ai dialetti locali, ma ne fa uso preciso e limitato a voci spesso legate a «tecniche (agricole, artigiane, culinarie, domestiche) la cui terminologia si è creata o depositata nel dialetto più che nella lingua» (ibidem). Quindi, personaggi come Bisma, uniti anche all’uso dell’italiano popolare, hanno contribuito a far conoscere altri aspetti del ponente ligure agli innumerevoli lettori di Italo Calvino.
[...] Percorso consigliato: partendo dalla stazione della cittadina, si percorre una vecchia pista militare dove si trovano numerose fortificazioni risalenti alla seconda guerra mondiale. Il giro compie un breve anello intorno alla cima del monte Pozzo.
Lungo il tragitto sono visibili rifugi militari ora usati come ricoveri per animali. La quota massima non supera i 500 mt. di altitudine sul livello del mare e il sentiero in alcuni punti è a strapiombo sulla sottostante val Roya. Tutta la val Bévera, con il forte Saint-Roch, il forte dell’Agaisen e il forte del Barbonnet, costituisce un patrimonio storico artistico che testimonia i tormentati episodi bellici in questo scenario montuoso.
[NOTA]
29 Saggio uscito nel 1976, il 9 maggio su «La Fiera letteraria», S, pp. 2814-2817.
Elisa Longinotti, Calvino e i suoi luoghi, Tesi di laurea, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2022-2023