La notizia più interessante è però giunta a tarda ora da Imperia. A Pontedassio, un piccolo paese di quella provincia, è stato tratto in arresto Adolfo Manca, di 42 anni, che usava spacciarsi per conte spagnolo. A denunciarlo era stato un albergatore del luogo che invano aveva cercato di farsi pagare il conto. Una volta condotto alla Questura di Imperia, venivano in luce le sue numerose malefatte. Per vari reati era infatti ricercato dalle Questure di Milano, Venezia e Firenze. Ieri sono giunte a Roma le sue impronte digitali perchè siano raccolte nello schedario generale e stamane è stata ordinata l'immediata traduzione nella nostra città del Manca per poterlo interrogare in merito al delitto di Castelgandolfo. Non si sa se la decisione della polizia romana sia stata presa in seguito a un confronto delle impronte con quelle eventualmente rilevate sulla valigia della Longo, oppure se qualcuno, nel corso delle indagini abbia fatto il suo nome come persona che potrebbe sapere molte cose.
n.f., Falso conte spagnolo, La Nuova Stampa, mercoledì 14 settembre 1955
n.f., Falso conte spagnolo, La Nuova Stampa, mercoledì 14 settembre 1955
La sera del 7 aprile dello scorso anno, alle ore 20, l'agricoltore settantunenne Bernardo Delfino fu Bernardo, nato ad Arenzano e residente a Imperia, uccideva con una fucilata al petto l'arrotino ambulante Giovanni Pettinotti di 24 anni, nativo di Marsiglia e residente a Busca (Cuneo), il quale si era recato da lui per restituirgli due ombrelli e una sega, accompagnato dal suo giovane aiutante Dario Berruti, pure di Busca. Secondo le risultanze, causa del delitto sarebbe stata la differenza di cinquecento lire sul prezzo da corrispondere all'arrotino per la sua fatica, ma stamane il Delfino ha dato una nuova versione dei fatti dopo che il presidente dott. Garavagno li aveva brevemente illustrati ai giudici. Il Delfino, che è uomo ben piantato, rosso in viso e un po' sordo e parla un dialetto italianizzato, ha già dovuto rispondere una volta di lesioni personali. Egli esordisce affermando che non ha paura di nessuno e quindi racconta: «Quel pomeriggio andai a caccia per abbattere un gallinaceo che avevo notato nelle nostre campagne; ma non avendolo trovato, tornai a casa e posi il fucile sulla scala, dietro alcune ceste». Il presidente comincia subito con le contestazioni e gli fa osservare che quelle ceste nessuno le ha mai viste e quindi il fucile doveva necessariamente trovarsi in casa dove egli è andato a prenderlo per sparare. Ma il Delfino insiste affermando che le ceste esistevano e che dietro quelle aveva posto il fucile. Egli passa quindi a riferire dell'incontro con l'arrotino. Per pagarlo, si fece prestare mille lire dalla vicina di casa, signora Massa, e diede all'arrotino 1500 lire, convinto che fossero sufficienti per l'opera prestata. Ma subito i due cominciarono a minacciarlo. Il presidente chiede a questo punto in che modo venne minacciato e l'imputato risponde: «Mi ripresero la sega dalle mani dicendomi che l'avrebbero portata in Municipio dove avrei dovuto rivolgermi se la avessi voluta ritirare. «Ribattei che essi andavano in giro a imbrogliare il prossimo, al che il Pettinotti estrasse di tasca un acuminato punteruolo».
Poiché di tale arnese non si è trovato traccia, il presidente muove all'imputato lunghe contestazioni. E l'imputato finisce con l'ammettere che si trattava di un coltello. Egli continua narrando che il Pettinotti si mise a parlottare con il Berruti sui gradini della scala e poi cominciò a salire verso di lui con fare minaccioso. A questo punto - dice l'imputato - urlai all'arrotino di fermarsi altrimenti avrei sparato, e contemporaneamente presi il fucile da dietro le ceste. E' evidente l'intenzione del Delfino di sostenere che in quel momento si sentì minacciato ed infatti poco dopo lo dichiara chiaramente affermando di avere avuto l'impressione che stesse per essere aggredito.
Alle varie contestazioni mossegli dal presidente, perchè anche questa circostanza è nuova, il Delfino continua ad insistere dicendo di avere ripetutamente gridato al Pettinotti di non salire. Questi invece fece un balzo per avventarglisi contro ed allora lui sparò.
Ma qui fornisce una versione nuova anche del tragico momento: «Non sparai verso il Pettinotti, bensì dall'altra parte; ma l'arrotino fece un movimento con il braccio e toccando la canna del fucile la girò verso di sè ricevendo quindi il proiettile in pieno petto. Caduto sui gradini, il compagno si chinò, lo raccolse, lo trasportò all'esterno, mentre io correvo alla finestra gridando ai passanti di chiamare i carabinieri. Mi sono quindi ritirato in camera a piangere sulla disgrazia, che certamente non sarebbe accaduta se i due se ne fossero andati, come più volte io li invitai a fare».
Presidente: "Non le pare di avere esagerato?". Delfino: "La colpa è loro. Il Pettinotti non doveva venirmi incontro ed il compagno doveva trattenerlo". Presidente: "Che male le potevano fare?". Delfino: "Cosa è venuto a fare sulle mie scale? Dei soldi non me ne aveva parlato. Sono io che senza che chiedesse nulla, gli diedi millecinquecento lire convinto che fossero sufficienti". Presidente: "In definitiva una parola di pietà per un padre di famiglia di 26 anni, non la può dire?". Delfino: "Ho pianto a casa mia".
Ha così termine l'interrogatorio dell'imputato.
e.b., L'uccisione dell'arrotino nel racconto dell'omicida, Stampa Sera, mercoledì 1 - giovedì 2 febbraio 1956
Poiché di tale arnese non si è trovato traccia, il presidente muove all'imputato lunghe contestazioni. E l'imputato finisce con l'ammettere che si trattava di un coltello. Egli continua narrando che il Pettinotti si mise a parlottare con il Berruti sui gradini della scala e poi cominciò a salire verso di lui con fare minaccioso. A questo punto - dice l'imputato - urlai all'arrotino di fermarsi altrimenti avrei sparato, e contemporaneamente presi il fucile da dietro le ceste. E' evidente l'intenzione del Delfino di sostenere che in quel momento si sentì minacciato ed infatti poco dopo lo dichiara chiaramente affermando di avere avuto l'impressione che stesse per essere aggredito.
Alle varie contestazioni mossegli dal presidente, perchè anche questa circostanza è nuova, il Delfino continua ad insistere dicendo di avere ripetutamente gridato al Pettinotti di non salire. Questi invece fece un balzo per avventarglisi contro ed allora lui sparò.
Ma qui fornisce una versione nuova anche del tragico momento: «Non sparai verso il Pettinotti, bensì dall'altra parte; ma l'arrotino fece un movimento con il braccio e toccando la canna del fucile la girò verso di sè ricevendo quindi il proiettile in pieno petto. Caduto sui gradini, il compagno si chinò, lo raccolse, lo trasportò all'esterno, mentre io correvo alla finestra gridando ai passanti di chiamare i carabinieri. Mi sono quindi ritirato in camera a piangere sulla disgrazia, che certamente non sarebbe accaduta se i due se ne fossero andati, come più volte io li invitai a fare».
Presidente: "Non le pare di avere esagerato?". Delfino: "La colpa è loro. Il Pettinotti non doveva venirmi incontro ed il compagno doveva trattenerlo". Presidente: "Che male le potevano fare?". Delfino: "Cosa è venuto a fare sulle mie scale? Dei soldi non me ne aveva parlato. Sono io che senza che chiedesse nulla, gli diedi millecinquecento lire convinto che fossero sufficienti". Presidente: "In definitiva una parola di pietà per un padre di famiglia di 26 anni, non la può dire?". Delfino: "Ho pianto a casa mia".
Ha così termine l'interrogatorio dell'imputato.
e.b., L'uccisione dell'arrotino nel racconto dell'omicida, Stampa Sera, mercoledì 1 - giovedì 2 febbraio 1956