domenica 15 maggio 2022

L'immigrazione calabrese si addensava soprattutto a Taggia e nella fascia da Bordighera al confine con la Francia

Un vicolo del centro storico di Taggia (IM)

«Andare lassù» era l’espressione ricorrente usata da chi negli anni Cinquanta-Settanta emigrava nell’Italia settentrionale dai paesi calabresi. Almeno, in base ai ricordi personali, da quelli della Calabria nord-occidentale. La locuzione avverbiale indicava uno strano luogo indeterminato, che in realtà era metafora della Liguria occidentale, della provincia di Imperia in particolare, ed era mutuata da modi di dire quali «lavoro lassù», «vivo lassù» e simili pronunciati da coloro che ritornavano nei luoghi d’origine per portare al Nord il resto della famiglia. La metafora - sintetica, suggestiva e mitizzante - non trovava applicazione per gli esodi in Piemonte (si partiva sempre per Torino), in Lombardia, di cui Milano era la sineddoche, in Costa Azzurra, che designava genericamente la Francia, e in Brasile, tout-court l’America.
[...] Per l’argomento in trattazione non si è potuto disporre di un’adeguata ed esauriente documentazione: non solo le fonti non risultano fruibili per il divieto di accesso stabilito dalla nostra legislazione ai dati anagrafici, ma i Comuni liguri qui presi in esame non dispongono di sintesi statistiche anche in ragione del fatto che gli uffici non hanno mai attuato screenings almeno numerici sulla popolazione immigrata <2.
Unica eccezione il Comune di Taggia.
Di validissimo aiuto, tuttavia, nell’inesistenza di letteratura specifica, si è rivelato lo studio, ancora oggi unico e insuperato sul tema, sia da parte ligure che calabrese, di Franco Martinelli *, funzionario all’epoca dell’Ufficio Provinciale di Imperia del Servizio Contributi Agricoli, su Contadini meridionali nella Riviera dei Fiori edito nel 1958 (nello svolgimento del presente scritto richiamerò questo denso rapporto col nome dell’estensore). Benché limitato agli anni Cinquanta, il lavoro di Martinelli è comunque paradigmatico della situazione immigratoria meridionale dei successivi decenni Sessanta e Settanta. Il testo è stato integrato da alcune significative tabelle che, pur riguardando la presenza dei meridionali in generale nei centri del litorale floricolo della Riviera, riportano indicazioni molto utili alla comprensione del fenomeno, anche quando gli indici sono retrodatati al 1946 o elaborati, per Taggia, fino al 1973.
I centri oggetto di indagine furono quelli di Ventimiglia, Camporosso, Vallecrosia, Bordighera, Ospedaletti, Sanremo, Taggia, Riva Ligure, Santo Stefano al Mare, Costarainera, Cipressa e San Lorenzo al Mare. I primi immigrati meridionali risalgono al periodo 1921-1930, calabresi a Ventimiglia, abruzzesi a Sanremo e Riva Ligure. Furono essi a richiamare l’attenzione dei paesani sulle possibilità di lavoro e di insediamento offerte dalla zona dopo la Grande Guerra, costituendo così i veri «piloti» dell’immigrazione meridionale in Riviera, senza trascurare che in non pochi casi si sono stabiliti nel Ponente ligure soggetti intenzionati ad emigrare in Francia ed impossibilitati dalle leggi ivi vigenti ad espatriare in quel paese o di individui rimpatriati dalla Costa Azzurra per le difficoltà incontrate nell’inserimento lavorativo (Martinelli, p. 23).
Per un riepilogo delle unità meridionali immigrate nell’arco 1946-1957, è esplicativa la tabella 1 contenuta nell’inchiesta di Martinelli (p. 20): Al 31 dicembre 1957, nei dodici Comuni dell’indagine, su una popolazione residente di 99.715 abitanti 10.942 erano meridionali, concentrati per un terzo a Sanremo e un terzo a Ventimiglia. A Riva Ligure un terzo dei residenti erano meridionali, soprattutto abruzzesi. Percentuali notevoli risultavano a Santo Stefano al Mare, Camporosso e Taggia. Per l’arco temporale 1946-1957, gli immigrati meridionali e i corrispondenti nuclei familiari risultavano distribuiti nella zona litorale floricola come nella Tabella 2.
Gli occupati nell’edilizia erano dislocati soprattutto a Taggia, Ospedaletti e Ventimiglia, mentre a Sanremo e Bordighera trovavano occupazione principalmente i lavoranti nel terziario turistico. Calabresi e abruzzesi - i gruppi più numerosi - fornivano l’apporto più considerevole di manovalanza non qualificata: i primi provenivano da ceti bracciantili e di piccoli proprietari coltivatori non autonomi; i secondi, originari pressoché esclusivamente di paesi delle provincie di Teramo e Pescara, comprendevano una piccola proprietà contadina in cui era diffuso il contratto di mezzadria classica (Martinelli, p. 26).
Se l’immigrazione abruzzese era concentrata a Santo Stefano, Riva Ligure, Sanremo e Ospedaletti, quella calabrese si addensava soprattutto a Taggia e nella fascia da Bordighera al confine con la Francia. Era una massa di manovalanza instabile e generica impiegata nella floricultura e nell’edilizia, ma anche attratta dal mercato del lavoro oltre frontiera. Le catene immigratorie più consistenti dalla Calabria originavano da Rizziconi, Molochio e Varapodio per Ventimiglia, da Verbicaro per Taggia (Martinelli, p. 28).
Numerosa la manodopera femminile prestata nella lavorazione dei fiori, settore in cui l’irrigazione, la distribuzione degli anticrittogamici, la raccolta e confezione dei mazzi di fiori, più che lo sforzo fisico, richiedevano doti di abilità e sveltezza. Le donne calabresi, occupate nei loro paesi per poche settimane all’anno come raccoglitrici di olive conobbero, inserendosi in questo processo lavorativo, una indubbia emancipazione sociale e tecnica, inserendosi profondamente nel processo di produzione locale.
Gli artigiani - in particolare i calzolai - hanno avuto un ruolo prioritario nell’insediamento dei calabresi in Riviera (Martinelli, p. 56). Dopo l’inurbazione nei centri più grossi, i meridionali cominciarono a stabilirsi nelle frazioni agricole: Bussana, Poggio e Coldirodi di Sanremo, Borghetto e Latte di Ventimiglia, spingendosi gradualmente nei paesi interni, come Soldano, San Biagio della Cima, Pompeiana, Castellaro, Terzorio (Martinelli, p. 98).
Se gli abruzzesi hanno incrementato l’uso dei contratti parziari, i calabresi hanno mirato con tenacia all’acquisto della terra, inteso come segno tangibile di ascesa sociale, sintetizzata dal detto «Se chi vende scende, chi acquista sale» (Martinelli, p. 31).
Il dialetto ligure era considerato segno di prestigio ed era parlato correntemente. Ciò nonostante, i calabresi erano tenuti in disparte dai locali («I calabresi tengono malo sangue», si diceva), e riguardo a loro i liguri distinguevano tra i cosentini, più apprezzati e stimati, e i reggini, mentre verso gli abruzzesi non erano mosse riprovazioni (Martinelli, p. 92). D’altro canto, se questi si mostravano remissivi verso i loro datori di lavoro, i calabresi, ritenuti senza eccezioni solidi lavoratori (Martinelli, p. 102), rifuggivano da questo atteggiamento e dimostravano maggiore maturità nella comprensione dei problemi connessi ai diritti del lavoratore e alle norme previdenziali. Non essendo abituato a legami di associazione con il padrone, il calabrese contrattava apertamente il compenso della giornata e non esitava a far valere i propri diritti (Martinelli, pp. 52, 56).
Per tutti, comunque, le condizioni di vita nelle località di immigrazione furono inizialmente difficili, soprattutto con riguardo alla sistemazione abitativa, risolta in alloggi di fortuna (magazzini per lo più), adattati alla meglio con tramezzi, forniti spesso dagli stessi datori di lavoro che così tenevano sotto controllo il loro dipendente dal quale pretendevano affitti in più di un caso piuttosto elevati, tenuto conto che i vani erano privi di luce, acqua e servizi igienici. Frequenti erano i contratti di locazione con obbligo di restauro e miglioria degli edifici antichi e fatiscenti concessi in affitto, che gli immigrati spesso subaffittavano ai compaesani. Non era insolito che chi occupava l’immobile vi convivesse con altri nuclei familiari di compaesani o di corregionali (Martinelli, pp. 52, 68-71, 98-99).
Le comunità calabresi si presentavano in quegli anni come gruppi chiusi e isolati, con forti legami di solidarietà endogena. Non molto incisivo risultava il contributo all’interazione/integrazione delle sezioni cittadine di partito e delle sedi di rappresentanza sindacale. I luoghi di socializzazione rimasero a lungo le sale parrocchiali, le mescite e i bar dove era possibile seguire i programmi televisivi, nonché i cinema di terza visione. I calabresi della provincia cosentina si rivelarono più facilmente inclini alla socializzazione soprattutto fra i giovani, favoriti dalla migliore considerazione di cui godevano presso i liguri rispetto ai corregionali della provincia di Reggio. Ciò nonostante, non mancò dapprima di suscitare stupore tra i locali il legame sentimentale tra il muratore verbicarese [...] e la tabiese [...], poi lo scalpore per il matrimonio tra i due nel 1962, a lungo molto ostacolato dalla famiglia della giovane <3.
La comunità calabrese in Riviera si articolava per stirpi familiari unite dalla solidarietà paesana. Le migrazioni avvenivano secondo una catena basata sul vincolo familiare e di vicinato, il che favoriva catene estese, persino di 40 unità (Martinelli, p. 74). Agiva in modo sensibile nell’emigrazione e sulla tenacia della volontà di inserimento l’opinione pubblica dei paesi di partenza, che vedevano come negativo l’eventuale rientro, in quanto indice di un’esperienza fallita. La comunità manteneva con forza il legame con i paesi natali e, benché i calabresi non siano giunti in nessun caso a festeggiare il loro Santo Patrono in Riviera, diversamente dagli abruzzesi teramani e pescaresi devoti a San Gabriele, tuttavia in occasione delle feste patronali raccoglievano collette da inviare al comitato organizzatore della festa al paese di provenienza (Martinelli, p. 74). Questa è stata per alcuni decenni la prassi dei verbicaresi per la festività di San Rocco e dei papasideresi per lo stesso santo, per la Madonna di Costantinopoli e per Sant’Antonio.
Nella carenza di organi dell’amministrazione centrale e periferica che curassero i problemi degli immigrati, si doveva alla Curia di Ventimiglia la creazione nel 1955 di un Comitato di Assistenza per i meridionali, aiutata in quest’opera dal Patronato INAS della CISL (Martinelli, p. 100) e dalla CGIL, dove era molto attivo, prima della sua elezione come deputato al Parlamento, il papasiderese Gino Napolitano <4.
La carenza di assistenza, tuttavia, per i calabresi era per così dire surrogata in qualche centro della Riviera - ad esempio a Bordighera Alta ** - da un capolega o un “sindaco” paesano
[...] Il caso di Taggia è di particolare interesse perché è l’unico tra i centri della zona floricola ponentina a concentrare un numero di calabresi cosentini provenienti da uno stesso paese, Verbicaro, che oggi, con la seconda e terza generazione, fornisce il nucleo allogeno più robusto della popolazione tabiese <5. Consistenza che diventa più clamorosa se si considerano gli immigrati dal paese calabrese confinante, Orsomarso, come si evince dalle tabelle che seguono. Sempre con riferimento all’Alto Tirreno calabrese, il caso della comunità verbicarese trova un più limitato, ma non esiguo, riscontro nel gruppo proveniente da Papasidero e insediato principalmente a Riva Ligure e Vallecrosia.
I nuclei di verbicaresi più consistenti insediati a Taggia, principalmente nelle vie San Dalmazzo, Lercari, Spagnoli, Santa Lucia, Anfossi, si riferiscono agli [...]
[NOTE]
2 Sulle difficoltà relative alla misurazione anagrafica degli spostamenti di popolazione e sui modelli statistici relativi, si vedano le osservazioni di Paul Ginsborg, Storia d’Italia, cit., pp. 295-98 e Corrado Bonifazi, Frank Heins, Ancora migranti: la nuova mobilità degli italiani, in Storia d’Italia. Annali 24, Migrazioni a cura di Paola Corti e Matteo Sanfilippo, Einaudi, Torino 2009, p. 507.
3 Una successiva unione tra un verbicarese e una tabiese si ebbe nel 1965 nelle persone di [...], anch’egli muratore, e [...], che dovette vincere la scontata opposizione della famiglia. Le informazioni sulla vita dei verbicaresi a Taggia le devo al loro compaesano Angelo Cirimele, immigrato ancora ragazzo con la famiglia nella seconda metà degli anni Cinquanta e oggi maestro elementare, che ringrazio molto cordialmente.
4 Su questo personaggio, nato a Papasidero nel 1924 e morto nel 2000 a Sanremo, dove era emigrato con la sua famiglia all’età di cinque anni, protagonista della Resistenza nell’imperiese in qualità di vice-comandante partigiano, militante del PCI e deputato al Parlamento dal 1963 al 1972 nelle file del suo partito in rappresentanza della circoscrizione Liguria, si veda Gino Napolitano. La semplicità della politica. Scritti autobiografici, lettere, immagini, a cura di Saverio Napolitano, Arma di Taggia 2012.
Saverio Napolitano, «’Nni iamu lassù». L’immigrazione calabrese nel Ponente ligure (1950-1970). Le provenienze dall’Alto Tirreno cosentino e il caso di Taggia in La Calabria dei Migranti (a cura di V. Cappelli, G. Masi, P. Sergi), Rivista Calabrese di Storia del ‘900, 2 (numero monografico), 2014

NOTE DEL REDATTORE
* F. Martinelli, Contadini meridionali nella Riviera dei Fiori, in “Alcuni problemi economico-agrari della Riviera ligure. Raccolta di Studi”, Imperia, C.C.I.A., 1959, pp. 219-247 [pubblicato pure in «Rivista italiana di Economia, Demografia, Statistica», XIII (1959), n. 1-2]
** Al più volte qui citato lavoro di Martinelli fece ampio ricorso qualche anno fa per il caso cittadino, un articolo (non più online) di Paize Autu, Periodico dell’Associazione “U Risveiu Burdigotu” di Bordighera