Ventimiglia (IM): un angolo della Città Vecchia, nella quale Pietro Tartamella abitava al tempo del diploma |
“C’è un poeta su un albero”: scriveva “La Stampa” il 10 dicembre 1973. “In Piazza Carlo Felice il giovane voleva dormire su un’amaca e raccogliere fondi per una rivista letteraria” continua la cronaca. “Alla fine è stato convinto a scendere. Erano le 2,30. Lo hanno accompagnato in Questura e identificato per Pietro Tartamella, 25 anni, Via Madama Cristina 6, due volte laureato. È stato visitato dalla guardia medica e giudicato sano di mente”.
Da quella gelida notte torinese sono trascorsi molti anni, ma Pietro Tartamella ha conservato il coraggio delle scelte difficili seppur “creative”.
Se così non fosse, non si spiegherebbe, per esempio, la magica invenzione di Cascina Macondo, un esperimento originale e forse unico dove uomini, donne, bambini, anziani, stranieri, s’incontrano in un clima di amicizia, studiano, imparano, ricercano: dalla lettura creativa ad alta voce, alla dizione, alla danza, al teatro, alla scrittura creativa, alla manipolazione dell’argilla, alla musica.
Tutto questo avviene in un vecchio cascinale nella placida campagna di Riva presso Chieri. Da quasi trent’anni. Ma prima, Pietro Tartamella, classe 1948, da Camporeale (Palermo), uomo dalle doti affabulatorie non comuni, era stato tante altre cose.
“La passione per la lettura e per i racconti di storie nasce da bambino. Mia madre e mio fratello erano dei bravi affabulatori. Soprattutto mio fratello Giuseppe, che mi raccontava sempre i film che andava a vedere con gli amici. Era un narratore così bravo che ancora adesso non so se quei film li ho visti per davvero o se è lui che me li ha raccontati. Questo mi ha fatto capire la potenza della parola. Da lì è nato il piacere di raccontare, di scrivere e di usare la voce per creare i racconti”.
Come si lavora sulla voce?
“Quando sentivo una voce che mi colpiva, mi allenavo a tentare di riprodurne le intonazioni. Una che adoravo era quella del doppiatore di Perry Mason. Lo studio ha senz’altro modificato la mia voce; infatti non ricordo più com’era prima!”
Arrivato a Torino nel ‘70, dopo un’infanzia trascorsa a Ventimiglia, Pietro Tartamella frequenta la facoltà di Lettere e Filosofia, ma per protesta contro il mondo accademico e “la concezione utilitaristica che la nostra società ha della cultura” rinuncia deliberatamente al conseguimento della laurea a soli quattro esami dal suo raggiungimento. Fonda una rivista di poesia e letteratura, “La Tenda”. Per mantenersi fa mille lavori, durati una stagione, uno o due anni: manovale, cameriere, sceneggiatore di fumetti, correttore di bozze, edicolante, traduttore, aiutante restauratore di affreschi.
“Ho fatto anche politica attiva, con la Sinistra Indipendente, quando avevo l’edicola a Torino, in via Vanchiglia. Sono stato eletto consigliere in Circoscrizione e poi sono stato candidato in Parlamento con i radicali, ma lì è andata male. Proprio nel mio quartiere realizzavo e distribuivo gratuitamente in diecimila copie un giornale molto letto: ma ai miei colleghi consiglieri non piaceva che avessi tutta questa visibilità, così mi boicottarono. Questa e altre circostanze per me negative furono decisive nell’allontanarmi definitivamente dalla politica”.
[...]
Com’è nata l’idea di creare Cascina Macondo?
“Erano tanti anni che mia moglie Anna, bravissima ceramista, voleva trasferirsi in campagna. Dopo la nausea della politica anche in me è cominciata a farsi strada l’idea di mollare il rumore, l’insensatezza della metropoli. Anni prima mi ero imbattutto in Cent’anni di Solitudine, il capolavoro di Garcia Marquez. È destino di chi legge incontrare almeno un libro che diventa davvero importante per la tua vita. Per me è stato quello. Un libro che mi ha aperto delle porte. Nel ‘93 fondiamo, con altri artisiti, l’associazione Cascina Macondo, un laboratorio di ceramica, poesia e musica, dove si impara a parlare in pubblico ed a trasformare il suono della voce in immagini. Non solo: Cascina Macondo ha proposto negli anni percorsi didattici riabilitativi anche per i carcerati e i disabili”.
Nel '94, dopo aver lasciato l’edicola, Tartamella viaggia in camper per l’Italia con un grande tepee, la tipica casa a forma di cono degli indiani d’America, ospitando gruppi di bambini e di adulti a cui Il “Raccontastorie della tenda indiana” narra le leggende e le storie della tradizione popolare indiana.
“Il tepee era un luogo ideale e raccolto per raccontare. L’avevo fatta costruire da un amico con un telo leggero di lino, era di 6 metri di diametro, poteva ospitare anche 50 bambini. Ci volevano tre ore per montarla e quasi altrettante per smontarla. La tenda era arredata con manufatti realizzati da mia moglie, e con altri oggetti che ricordavano il mondo indiano. Regalavamo ai bambini copricapi indiani in cartoncino con le piume di carta colorata. Terminati gli spettacoli, passavamo la notte a confezionare i copricapi per il giorno dopo”.
Come si svolgeva il vostro spettacolo?
“Lo spettacolo durava tre quarti d’ora, in una giornata facevamo anche 3-4 repliche. Finita la storia, regalavamo una pallina d’argilla con un buco in mezzo, che, spiegavo ai bambini, ha il potere di ascoltare tutte le parole che sente e di restituirle ai bambini che sanno davvero ascoltare con attenzione. Era una cosa che li colpiva. L’atmosfera della tenda era davvero magica. Credo che in quel periodo abbiamo fatto della grande cultura. È stata un’importante occasione per dare informazioni positive sulla vita degli indiani, in modo che il concetto di selvaggio fosse definitivamente rimosso”.
[...]
Qual è il fascino dell’haiku?
“L’essenzialità. Cimentarsi con gli haiku significa osservare il mondo con occhio attento. Costringe a liberarsi delle sovrastrutture, delle parole inutili e superflue, di tutti i concetti che contemporaneamente si affollano attorno ad un evento, ad una esperienza, ad una sensazione. Ci spinge a guardare e soprattutto a cogliere l'essenza di un accadimento di cui siamo testimoni, la sostanza di una esperienza, il centro di una emozione”.
Chissà se Pietro Tartamella ha mai provato a scrivere un haiku che racchiuda il senso e la missione sociale della sua vita di artista con la A maiuscola?
Se così non fosse, lo invitiamo cordialmente a farlo.
Nico Ivaldi, Pietro Tartamella e la sua Cascina Macondo, Piemontemese.it, giugno 2011
Da quella gelida notte torinese sono trascorsi molti anni, ma Pietro Tartamella ha conservato il coraggio delle scelte difficili seppur “creative”.
Se così non fosse, non si spiegherebbe, per esempio, la magica invenzione di Cascina Macondo, un esperimento originale e forse unico dove uomini, donne, bambini, anziani, stranieri, s’incontrano in un clima di amicizia, studiano, imparano, ricercano: dalla lettura creativa ad alta voce, alla dizione, alla danza, al teatro, alla scrittura creativa, alla manipolazione dell’argilla, alla musica.
Tutto questo avviene in un vecchio cascinale nella placida campagna di Riva presso Chieri. Da quasi trent’anni. Ma prima, Pietro Tartamella, classe 1948, da Camporeale (Palermo), uomo dalle doti affabulatorie non comuni, era stato tante altre cose.
“La passione per la lettura e per i racconti di storie nasce da bambino. Mia madre e mio fratello erano dei bravi affabulatori. Soprattutto mio fratello Giuseppe, che mi raccontava sempre i film che andava a vedere con gli amici. Era un narratore così bravo che ancora adesso non so se quei film li ho visti per davvero o se è lui che me li ha raccontati. Questo mi ha fatto capire la potenza della parola. Da lì è nato il piacere di raccontare, di scrivere e di usare la voce per creare i racconti”.
Come si lavora sulla voce?
“Quando sentivo una voce che mi colpiva, mi allenavo a tentare di riprodurne le intonazioni. Una che adoravo era quella del doppiatore di Perry Mason. Lo studio ha senz’altro modificato la mia voce; infatti non ricordo più com’era prima!”
Arrivato a Torino nel ‘70, dopo un’infanzia trascorsa a Ventimiglia, Pietro Tartamella frequenta la facoltà di Lettere e Filosofia, ma per protesta contro il mondo accademico e “la concezione utilitaristica che la nostra società ha della cultura” rinuncia deliberatamente al conseguimento della laurea a soli quattro esami dal suo raggiungimento. Fonda una rivista di poesia e letteratura, “La Tenda”. Per mantenersi fa mille lavori, durati una stagione, uno o due anni: manovale, cameriere, sceneggiatore di fumetti, correttore di bozze, edicolante, traduttore, aiutante restauratore di affreschi.
“Ho fatto anche politica attiva, con la Sinistra Indipendente, quando avevo l’edicola a Torino, in via Vanchiglia. Sono stato eletto consigliere in Circoscrizione e poi sono stato candidato in Parlamento con i radicali, ma lì è andata male. Proprio nel mio quartiere realizzavo e distribuivo gratuitamente in diecimila copie un giornale molto letto: ma ai miei colleghi consiglieri non piaceva che avessi tutta questa visibilità, così mi boicottarono. Questa e altre circostanze per me negative furono decisive nell’allontanarmi definitivamente dalla politica”.
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Com’è nata l’idea di creare Cascina Macondo?
“Erano tanti anni che mia moglie Anna, bravissima ceramista, voleva trasferirsi in campagna. Dopo la nausea della politica anche in me è cominciata a farsi strada l’idea di mollare il rumore, l’insensatezza della metropoli. Anni prima mi ero imbattutto in Cent’anni di Solitudine, il capolavoro di Garcia Marquez. È destino di chi legge incontrare almeno un libro che diventa davvero importante per la tua vita. Per me è stato quello. Un libro che mi ha aperto delle porte. Nel ‘93 fondiamo, con altri artisiti, l’associazione Cascina Macondo, un laboratorio di ceramica, poesia e musica, dove si impara a parlare in pubblico ed a trasformare il suono della voce in immagini. Non solo: Cascina Macondo ha proposto negli anni percorsi didattici riabilitativi anche per i carcerati e i disabili”.
Nel '94, dopo aver lasciato l’edicola, Tartamella viaggia in camper per l’Italia con un grande tepee, la tipica casa a forma di cono degli indiani d’America, ospitando gruppi di bambini e di adulti a cui Il “Raccontastorie della tenda indiana” narra le leggende e le storie della tradizione popolare indiana.
“Il tepee era un luogo ideale e raccolto per raccontare. L’avevo fatta costruire da un amico con un telo leggero di lino, era di 6 metri di diametro, poteva ospitare anche 50 bambini. Ci volevano tre ore per montarla e quasi altrettante per smontarla. La tenda era arredata con manufatti realizzati da mia moglie, e con altri oggetti che ricordavano il mondo indiano. Regalavamo ai bambini copricapi indiani in cartoncino con le piume di carta colorata. Terminati gli spettacoli, passavamo la notte a confezionare i copricapi per il giorno dopo”.
Come si svolgeva il vostro spettacolo?
“Lo spettacolo durava tre quarti d’ora, in una giornata facevamo anche 3-4 repliche. Finita la storia, regalavamo una pallina d’argilla con un buco in mezzo, che, spiegavo ai bambini, ha il potere di ascoltare tutte le parole che sente e di restituirle ai bambini che sanno davvero ascoltare con attenzione. Era una cosa che li colpiva. L’atmosfera della tenda era davvero magica. Credo che in quel periodo abbiamo fatto della grande cultura. È stata un’importante occasione per dare informazioni positive sulla vita degli indiani, in modo che il concetto di selvaggio fosse definitivamente rimosso”.
[...]
Qual è il fascino dell’haiku?
“L’essenzialità. Cimentarsi con gli haiku significa osservare il mondo con occhio attento. Costringe a liberarsi delle sovrastrutture, delle parole inutili e superflue, di tutti i concetti che contemporaneamente si affollano attorno ad un evento, ad una esperienza, ad una sensazione. Ci spinge a guardare e soprattutto a cogliere l'essenza di un accadimento di cui siamo testimoni, la sostanza di una esperienza, il centro di una emozione”.
Chissà se Pietro Tartamella ha mai provato a scrivere un haiku che racchiuda il senso e la missione sociale della sua vita di artista con la A maiuscola?
Se così non fosse, lo invitiamo cordialmente a farlo.
Nico Ivaldi, Pietro Tartamella e la sua Cascina Macondo, Piemontemese.it, giugno 2011
Eravamo molto amici io e Piero. Da ragazzi abitavamo in Liguria, a Ventimiglia.
Avevo conosciuto Pietro Tartamella, per me semplicemente Piero, in una festa che aveva organizzato a casa sua in una sera d’estate del 1968. Festeggiava il diploma da geometra che aveva appena conseguito.
Era nato in una modesta famiglia, il minore di cinque figli (tre fratelli e due sorelle). Amava dire: “Siamo quel che siamo… non ci si può illudere di avere origini o radici diverse…Quello è il nostro punto di partenza. Inequivocabile. Il resto è cammino”.
Eravamo tutti e due squattrinati e accettai di fare con lui un viaggio in autostop per l’Europa.
Era l’anno del movimento studentesco, Piero si era lasciato crescere i capelli, da contestatore. Il parroco della chiesa notava che tagliare i capelli non serve…quando questi sono lunghi nell’anima!
Diventammo amici.
Avevamo caratteri diversi, ma ci capivamo al volo.
Mi affascinava il suo modo di riflettere. Era molto attento alla comunicazione e ai messaggi, a quelli volontari ma soprattutto a quelli involontari, che intercorrono tra gli individui. Li indagava, traeva conclusioni, era un pensatore.
Ci siamo ritrovati a Torino, iscritti all’università: lui in Ingegneria, io in Medicina. Nessuno dei due continuò quella strada.
Piero ad un certo punto decise: né geometra né ingegnere. Studiare sì, ma letteratura, linguistica. Soprattutto gli interessava la poesia.
Avrebbe lavorato per mantenersi, non però alle dipendenze di qualcuno. Fece la scommessa con stesso di perseguire tenacemente le proprie idee affidandosi esclusivamente alle proprie forze, al proprio ingegno. Gli sarebbe costato dei sacrifici, specie quando in seguito avrebbe messo su famiglia. Ma era riuscito a dare un significato all’esistenza.
Di carattere meditativo, dotato di una profonda calma, che a me risultava sorprendente e quasi misteriosa, possedeva una voce attraente, che definiva il miglior organo sessuale secondario! “Io scrivo con la voce!”. Manifestava una personalità magnetica.
Ricordo la sua contagiosa risata, quando reclinava il capo e si accarezzava la barba.
Era contro l’autoritarismo e la prepotenza. Lo definisco un socievole eremita.
Negli anni ’70 a Torino aveva pubblicato i primi libretti di poesie (“Sentimenti” e “Stalattiti di speranze ammutolite”) e poi la bella e lunga lirica de “Il poeta sull’albero”. Elaborava in quegli anni la teoria della poesia gestazionale: il poeta è anche attore che si mostra in pubblico con azioni spettacolari, la scrittura ne delucida il senso.
Una sera di dicembre nel 1973, compì la prima di queste azioni: si era arrampicato su un albero di fronte alla stazione di Porta Nuova a Torino.
Lassù, tra ventri di freddo e dita biforcate, confermava a se stesso e agli altri la scelta di farsi poeta “con l’abbraccio della vita e della lotta... scrissi / tante volte /a tutte le lune / dell’universo / inviando doni / e mi risposero…”
In quegli anni io mi ero trasferito a Como. Piero si era sposato con Anna, e hanno avuto due bimbe: Nagy e Ajdi.
Mi incontravo ancora con lui e rivederlo era un piacere: sempre nuove idee, proposte, socialità e cultura.
Non saprei enumerare tutte le sue innumerevoli iniziative: la rivista La Tenda, i concorsi di poesia, i corsi di dizione, i racconti esposti nella Poeticola ’ l’edicola che gestiva in via Vanchiglia. E poi gli hajku giapponesi, la scrittura ortoèpica, la danza-teatro, le domeniche aperte ed il lavoro con i detenuti del carcere di Saluzzo, a cui teneva tanto.
Assieme ad Anna aveva creato la bella realtà di Cascina Macondo.
Per un lungo periodo non lo rividi più, finché nella primavera 2018 ci incontrammo a Torino, in occasione del suo settantesimo compleanno.. Mi confidò di voler pubblicare trentatré racconti, autobiografici, che avrebbero spaziato per l’intero l’arco della sua vita. Mi chiese di scriverne una prefazione. L’ho fatto ed ho riprovato lo stesso piacere di quando, cinquant’anni anni, prima gli avevo scritto la prefazione al “Poeta sull’albero”.
E se 50 anni prima, a Torino un grande albero lo aveva accolto tra i rami con la profezia di una feconda vita d’artista, dopo mezzo secolo un altro grande albero dialoga, questa volta con il protagonista del suo ultimo racconto, “Senza compianto per il luogo natio”, ma questa volta per chiudere l’esistenza.
Nella sua vita Piero ha avuto un cruccio. Quello di partorire continuamente tante idee e progetti, più di quanto il tempo e la salute concessogli dal creatore potevano permettere di realizzare.
È comunque riuscito a mostrare una possibilità, una via, una visione del mondo. Una concezione della cultura che ricorda le parole di Giorgio Strehler: la cultura è un esserci, un essere insieme. Ascoltare insieme, pensare insieme. Lasciando vivere la curiosità e vincendo la pigrizia.
Meglio svelare, diceva Piero, meglio condividere idee e progetti, metterli a disposizione di tutti in un patrimonio comune piuttosto che lasciarli al buio chiusi per sempre in un cassetto.
È forse stata la sua un’ispirazione analoga a quella che ha spinto Paolo Godani, un filosofo contemporaneo, a scrivere:
“Noi, abitanti non pacificati delle società contemporanee, manchiamo di qualcosa di fondamentale: di un piacere che ha a che fare con la fruizione gioiosa dell’esistenza…
Di un vivere assieme che non contempla più alcuna concorrenza e dunque in questo senso è l’espressione più alta dell’amicizia…”
Recuperare questo piacere costitutivo è stata propriamente la vocazione profonda di Piero nel suo continuo pellegrinaggio e ricerca: Come se Dio avesse mescolato una manciata di uomini in mezzo agli altri uomini, dando ad essi il compito di trovarsi ("I poeti de La Tenda", 1975).
Negli ultimi anni, Piero ha affrontato la lunga malattia con saggezza ed umiltà, con sempre accanto Annamaria, nella Cascina Macondo, dove si è spento alle prime luci dell’alba del 25 febbraio.
Un mese prima, quando il male avanzava, gli avevo chiesto: “Scrivi ancora?”, mi aveva risposto “No, sono stanco. Sto quasi sempre a letto. Nonostante ciò i giorni corrono veloci. Cerco di cucire delle frasi...mi manca il lavorare. Ho il rammarico di non essere riuscito a pubblicare i miei racconti”.
Ora, Piero, sei nelle grandi praterie´. Forse sei su un albero o forse all’interno di un tepee azzurro. Forse abbozzi passi di danza o forse scolpisci nuvole di fumo a colpi di frusta.
Ti ho voluto bene! Ti vogliamo bene!
Il tuo amico Bruno Veri, Un ricordo, Facebook, 27 febbraio 2022
Avevo conosciuto Pietro Tartamella, per me semplicemente Piero, in una festa che aveva organizzato a casa sua in una sera d’estate del 1968. Festeggiava il diploma da geometra che aveva appena conseguito.
Era nato in una modesta famiglia, il minore di cinque figli (tre fratelli e due sorelle). Amava dire: “Siamo quel che siamo… non ci si può illudere di avere origini o radici diverse…Quello è il nostro punto di partenza. Inequivocabile. Il resto è cammino”.
Eravamo tutti e due squattrinati e accettai di fare con lui un viaggio in autostop per l’Europa.
Era l’anno del movimento studentesco, Piero si era lasciato crescere i capelli, da contestatore. Il parroco della chiesa notava che tagliare i capelli non serve…quando questi sono lunghi nell’anima!
Diventammo amici.
Avevamo caratteri diversi, ma ci capivamo al volo.
Mi affascinava il suo modo di riflettere. Era molto attento alla comunicazione e ai messaggi, a quelli volontari ma soprattutto a quelli involontari, che intercorrono tra gli individui. Li indagava, traeva conclusioni, era un pensatore.
Ci siamo ritrovati a Torino, iscritti all’università: lui in Ingegneria, io in Medicina. Nessuno dei due continuò quella strada.
Piero ad un certo punto decise: né geometra né ingegnere. Studiare sì, ma letteratura, linguistica. Soprattutto gli interessava la poesia.
Avrebbe lavorato per mantenersi, non però alle dipendenze di qualcuno. Fece la scommessa con stesso di perseguire tenacemente le proprie idee affidandosi esclusivamente alle proprie forze, al proprio ingegno. Gli sarebbe costato dei sacrifici, specie quando in seguito avrebbe messo su famiglia. Ma era riuscito a dare un significato all’esistenza.
Di carattere meditativo, dotato di una profonda calma, che a me risultava sorprendente e quasi misteriosa, possedeva una voce attraente, che definiva il miglior organo sessuale secondario! “Io scrivo con la voce!”. Manifestava una personalità magnetica.
Ricordo la sua contagiosa risata, quando reclinava il capo e si accarezzava la barba.
Era contro l’autoritarismo e la prepotenza. Lo definisco un socievole eremita.
Negli anni ’70 a Torino aveva pubblicato i primi libretti di poesie (“Sentimenti” e “Stalattiti di speranze ammutolite”) e poi la bella e lunga lirica de “Il poeta sull’albero”. Elaborava in quegli anni la teoria della poesia gestazionale: il poeta è anche attore che si mostra in pubblico con azioni spettacolari, la scrittura ne delucida il senso.
Una sera di dicembre nel 1973, compì la prima di queste azioni: si era arrampicato su un albero di fronte alla stazione di Porta Nuova a Torino.
Lassù, tra ventri di freddo e dita biforcate, confermava a se stesso e agli altri la scelta di farsi poeta “con l’abbraccio della vita e della lotta... scrissi / tante volte /a tutte le lune / dell’universo / inviando doni / e mi risposero…”
In quegli anni io mi ero trasferito a Como. Piero si era sposato con Anna, e hanno avuto due bimbe: Nagy e Ajdi.
Mi incontravo ancora con lui e rivederlo era un piacere: sempre nuove idee, proposte, socialità e cultura.
Non saprei enumerare tutte le sue innumerevoli iniziative: la rivista La Tenda, i concorsi di poesia, i corsi di dizione, i racconti esposti nella Poeticola ’ l’edicola che gestiva in via Vanchiglia. E poi gli hajku giapponesi, la scrittura ortoèpica, la danza-teatro, le domeniche aperte ed il lavoro con i detenuti del carcere di Saluzzo, a cui teneva tanto.
Assieme ad Anna aveva creato la bella realtà di Cascina Macondo.
Per un lungo periodo non lo rividi più, finché nella primavera 2018 ci incontrammo a Torino, in occasione del suo settantesimo compleanno.. Mi confidò di voler pubblicare trentatré racconti, autobiografici, che avrebbero spaziato per l’intero l’arco della sua vita. Mi chiese di scriverne una prefazione. L’ho fatto ed ho riprovato lo stesso piacere di quando, cinquant’anni anni, prima gli avevo scritto la prefazione al “Poeta sull’albero”.
E se 50 anni prima, a Torino un grande albero lo aveva accolto tra i rami con la profezia di una feconda vita d’artista, dopo mezzo secolo un altro grande albero dialoga, questa volta con il protagonista del suo ultimo racconto, “Senza compianto per il luogo natio”, ma questa volta per chiudere l’esistenza.
Nella sua vita Piero ha avuto un cruccio. Quello di partorire continuamente tante idee e progetti, più di quanto il tempo e la salute concessogli dal creatore potevano permettere di realizzare.
È comunque riuscito a mostrare una possibilità, una via, una visione del mondo. Una concezione della cultura che ricorda le parole di Giorgio Strehler: la cultura è un esserci, un essere insieme. Ascoltare insieme, pensare insieme. Lasciando vivere la curiosità e vincendo la pigrizia.
Meglio svelare, diceva Piero, meglio condividere idee e progetti, metterli a disposizione di tutti in un patrimonio comune piuttosto che lasciarli al buio chiusi per sempre in un cassetto.
È forse stata la sua un’ispirazione analoga a quella che ha spinto Paolo Godani, un filosofo contemporaneo, a scrivere:
“Noi, abitanti non pacificati delle società contemporanee, manchiamo di qualcosa di fondamentale: di un piacere che ha a che fare con la fruizione gioiosa dell’esistenza…
Di un vivere assieme che non contempla più alcuna concorrenza e dunque in questo senso è l’espressione più alta dell’amicizia…”
Recuperare questo piacere costitutivo è stata propriamente la vocazione profonda di Piero nel suo continuo pellegrinaggio e ricerca: Come se Dio avesse mescolato una manciata di uomini in mezzo agli altri uomini, dando ad essi il compito di trovarsi ("I poeti de La Tenda", 1975).
Negli ultimi anni, Piero ha affrontato la lunga malattia con saggezza ed umiltà, con sempre accanto Annamaria, nella Cascina Macondo, dove si è spento alle prime luci dell’alba del 25 febbraio.
Un mese prima, quando il male avanzava, gli avevo chiesto: “Scrivi ancora?”, mi aveva risposto “No, sono stanco. Sto quasi sempre a letto. Nonostante ciò i giorni corrono veloci. Cerco di cucire delle frasi...mi manca il lavorare. Ho il rammarico di non essere riuscito a pubblicare i miei racconti”.
Ora, Piero, sei nelle grandi praterie´. Forse sei su un albero o forse all’interno di un tepee azzurro. Forse abbozzi passi di danza o forse scolpisci nuvole di fumo a colpi di frusta.
Ti ho voluto bene! Ti vogliamo bene!
Il tuo amico Bruno Veri, Un ricordo, Facebook, 27 febbraio 2022
Voglio ricordarlo, Pietro, con uno dei primi libri che mi aveva mandato, testimonianza del suo grande impegno anche nelle carceri: “La stretta di mano e il cioccolatino”, in qualche modo resoconto di un progetto che ha coinvolto, fra Belgio, Italia, Polonia, Serbia, Grecia, dodici prigioni con circa 200 detenuti, impegnati in percorsi didattici, laboratori creativi e tante altre iniziative. E’ stato come un fiume lo scorrere di queste pagine, un’antologia di diari, riflessioni, racconti, poesie, haiku. Il racconto dei mille giorni di un progetto nato per portare scrittura ed arti nelle carceri. Ma soprattutto per portarne fuori, dalle carceri, scrittura e arti.
Francesca de Carolis, Il grande cuore di Pietro Tartamella, Ultima Voce, 27 febbraio 2022
Francesca de Carolis, Il grande cuore di Pietro Tartamella, Ultima Voce, 27 febbraio 2022