giovedì 5 agosto 2021

Io decisi di proseguire per Savona, con due altri di Imperia

Cipressa (IM): uno scorcio di borgata Poggio

Dopo alcuni giorni venimmo a sapere che il solito colonnello Buonincontro aveva chiesto l'invio dell'Autoparco in zona di operazione e allora io decisi di sfruttare la botta presa sul naso durante la ritirata di Russia: marcai visita e venni inviato all'ospedale. La notte del mio arrivo in ospedale lo stesso fu danneggiato durante un bombardamento aereo e il giorno dopo assieme a molti altri militari raggiunsi Asti, dove fui ricoverato in un asilo per poi proseguire per Casale Monferrato all'ospedale  Santo Spirito, dove venni operato e inviato a casa [Cipressa (IM)] in licenza di convalescenza.
L'8 settembre a sera, quando si seppe dell'armistizio, ero in compagnia di una ragazza mia amica, che dovevo accompagnare a casa sulle Langhe. Armistizio o no, l'accompagnai a casa [...]
Il giorno 10 ebbi chiara e netta la sensazione dello sfacelo del regio esercito italiano. I militari del paese, che erano di stanza nelle vicinanze, cominciarono a tornare a casa raccontando le incredibili decisioni dei Comandi. Nessuno aveva il coraggio di interpretare un ordine e di comportarsi conformemente allo stesso.
[...] Decisi di tornare a casa il 10 settembre, alla sera; dopo un breve viaggio in corriera, salii su un treno diretto a Savona, pieno zeppo di giovani vestiti con abiti che volevano sembrare borghesi, ma che, guardandoli meglio, si comprendeva benissimo che non erano stati confezionati per la corporatura di chi li indossava.
 

Ceva (CN) - Fonte: Mapio.net

[...] Avevo incontrato alcuni soldati della provincia di Imperia, i quali pensavano di scendere a Ceva per non essere costretti a transitare per Savona. Colà, infatti, era necessario attendere l'arrivo del Genova-Ventimiglia, rimanendo facile preda dei tedeschi che, a quanto diceva un passeggero di mezza età, vestito decorosamente, dal mattino ormai controllavano già la stazione di Savona in numero consistente. Mi ero deciso a scendere con loro a Ceva per proseguire a piedi per Ormea e, attraverso il Colle di Nava, raggiungere casa mia, così stupidamente lasciata il giorno dell'armistizio. Intervenne nella discussione un passeggero anziano che, con accento savonese, si rivolse al signore distinto che ci aveva appena informati sulla stazione di Savona, dicendogli: «Io sono partito da Savona questa mattina alle sette e, in stazione, non c'era neppure un tedesco: non so voi con quale treno siete partito, certamente non col mio. Il primo treno per Torino, dopo questo, parte quasi alle dieci da Savona e, siccome quando sono entrato in questo scompartimento a Cavallermaggiore, voi eravate già seduto dove sedete adesso, non capisco quanto tempo vi sia rimasto fra un treno e l'altro». E rivolto a noi, ci disse: «Faccio il pedone» (che vuol dire piccolo commerciante dei prodotti dalla campagna alla città e viceversa; allora però quel traffico si chiamava semplicemente «Borsa nera», ma forse il galantuomo si vergognava a dirlo) e dati i tempi che corrono, prima di partire da Cavallermaggiore, ho chiamato il Bar della stazione di Savona per sapere le novità, e mi è stato risposto che tutto era come quando ero partito».
Io decisi, dunque, di proseguire per Savona, con due altri di Imperia; altri invece decisero di scendere a Ceva. Il signore distinto non aprì più bocca. Uscito nel corridoio, feci parte dei miei sospetti ad altri militari: il signore distinto poteva essere una spia. «Lo immobilizziamo e controlliamo i suoi documenti; se è armato è una spia e lo buttiamo giù dal treno, se dai documenti non risulta niente ed è disarmato, gli facciamo tante scuse». Nessuno mi volle aiutare, e da solo pensai che fosse meglio lasciar perdere. Arrivammo a Ceva dove scesero la maggior parte dei militari e anche la presunta spia. Vidi allontanarsi nel buio i viaggiatori, quando echeggiarono i primi ordini tedeschi, seguiti da brevi raffiche di Mascin Pistola. Tra i fischi dei ferrovieri ed un rapido sbattere di porte, il treno si avviò. Ci sedemmo nello scompartimento, dove il vecchio pedone era rimasto immobile e impassibile. Ci disse: «Era una spia, ne sono certo, e ho cercato di farvelo capire». «Lo credo anch'io» gli dissi «ma nessuno ha voluto aiutarmi a perquisirlo; speriamo che nell'oscurità siano riusciti a fuggire».
 

Uno scorcio della zona di Albenga (SV)

Arrivammo a Savona: di tedeschi neanche l'ombra. Attendemmo l'ultimo treno in arrivo da Genova per Albenga: non proseguiva oltre, per cui si doveva aspettare lì il primo treno del mattino per Ventimiglia, oppure proseguire per Albenga, ed attendere colà. Scelsi quest'ultima soluzione. Giunti al nostro capolinea, scorsi alcuni militari tedeschi; non sembrava avessero cattive intenzioni nei nostri confronti, ma decisi lo stesso di uscire dalla stazione, a scanso di eventuali ripensamenti. Ci inoltrammo nel sottopassaggio. L'uscita era però bloccata da sentinelle tedesche; ritornammo indietro, con la speranza di riuscire ad allontanarci dalla parte del fiume. Non c'era niente da fare, c'era adesso una sentinella anche dalla parte della stazione. Mi ero fatto fregare come uno stupido; potevo scendere a Finale o a Pietra Ligure: avevo voluto avvicinarmi a casa il più possibile e adesso ero bloccato in un sottopassaggio ferroviario. Avevo un vantaggio sui miei compagni di sventura: non c'era nessuno che mi incolpasse di aver scelto Albenga anzichè aspettare a Savona, come avevo sentito fare nei vari gruppi che si erano formati. Non riuscivo a capire perchè avessero fermato nel sottopassaggio anche le donne e gli uomini che, per la loro età, non potevano essere certamente dei militari. Decisi di avvicinarmi ai due tedeschi di guardia in cima alla scalinata. Appena gli fui a tiro, mi ordinarono, come a tutti quelli che avevano provato prima di me, di tornare indietro. Risposi loro in quel linguaggio ibrido col quale riuscivano a capirsi i soldati sui vari fronti: che non resistevo più, che mi mancava l'aria, di lasciarmi respirare qualche minuto; mi avvicinai ancora di più. Ero vestito sì diversamente dai soliti soldati, che avevano racimolato un paio di pantaloni e una maglietta o camicia di fortuna; ma la mia risposta al loro ordine ormai mi aveva fatto identificare, senza possibilità di dubbio; e quando gli arrivai davanti, uno di loro mi disse: «Sei un soldato». Lo guardai e vidi che aveva il distintivo che potevano portare solo i combattenti del primo inverno sul fronte russo. Gli dissi: «Io non sono stato fortunato come te, sono tornato dal fronte russo con i polmoni a pezzi; non si decidono a riformarmi, continuano a darmi licenze una dopo l'altra e niente paga. Questa è la riconoscenza per quanto abbiamo fatto a Stalino contro i carri armati russi».
Avevo bluffato: non ero stato a Stalino in quel periodo, quando il generale Messe aveva rifiutato l'aiuto dei carri armati tedeschi, con la frase che avevo sentito ripetere tante volte dai protagonisti sopravvissuti: «Tre dei miei bersaglieri fanno più di un carro armato tedesco». E lo avevano dimostrato. Il tedesco conosceva la frase e quel fatto d'armi. Mi chiese ancora alcuni particolari che conoscevo, per averli sentiti raccontare tante volte, e così conquistai la sua stima e considerazione. Rimasi a parlare con lui in attesa del mio treno, lo invitai a bere al bar della stazione quando aprì; egli accettò di buon grado. Mi raccontò della campagna di Francia e della Russia e mi disse: «Nella tua disgrazia sei fortunato, per te la guerra è finita, ti invidio». Mi parlò della sua famiglia, dei suoi due bambini, mi fece vedere le fotografie, quello che ogni soldato si porta sempre appresso, per averne conforto, e da esse trarre la volontà di continuare quando invece viene voglia di abbandonarsi o di farla finita. Mi confidò che, quando aveva saputo dell'armistizio, firmato dall'Italia, aveva sperato che la guerra per lui, come per tutti i tedeschi che erano nel nostro paese, fosse finita. Erano preparati alla resa e soltanto il nostro assurdo comportamento faceva succedere il contrario. Io non potei fare a meno di parlargli di quei brodacci dei nostri ufficiali superiori, incluso Messe: gli dissi che, per pavoneggiarsi di fronte a loro, costui aveva sacrificato numerose esistenze, per dimostrare quanto eravamo bravi con le molotof, ora, che era il tempo di dimostrare quanto valevamo sulla loro pelle, abbandonavamo la partita (non sapevo di Cefalonia e di qualche altro raro caso). Gli chiesi che sorte sarebbe toccata ai rimasti nel sottopassaggio, mi disse: «Siamo in pochi e, per far rispettare il coprifuoco che abbiamo ordinato, il miglior sistema era quello di bloccare il sottopassaggio con tutti i passeggeri». Il treno per Ventimiglia era in arrivo e lui mi accompagnò al vagone, rimasi a parlare con lui vicino allo sportello di salita. I passeggeri del treno, come tutti i treni in quei giorni, erano quasi tutti dei militari mimetizzati che certamente erano preoccupati per la presenza del tedesco. Arrivarono gli occupanti del sottopassaggio e anch'io salii sul treno, dopo aver salutato calorosamente il mio amico-nemico. Durante la guerra partigiana feci poi dei prigionieri tedeschi, dovetti sparare anche sui soldati tedeschi, ma in quegli istanti mi auguravo, speravo, che fra loro non ci fosse lui, il tedesco al quale avevo raccontato quello che avevo sentito raccontare dai tedeschi per carpire la sua fiducia. Salii sul treno e, poco tempo dopo ero a casa. Era l'11 settembre del 1943.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994