Corredano questo articolo alcune immagini da e di Strada alle Ville di Ventimiglia (IM), arteria evocata all'inizio del racconto che qui segue |
Pochi sanno che quando Carlo Gallinella accelera l'abituale andatura, lascia l'Aurelia e punta con decisione il manubrio da corsa in direzione delle Calandre, è perché, tra una pedalata e l'altra, ha trovato lo spunto per un racconto che bisogna fissare, nero su bianco, prima che s'involi e si dissolva. È così che sono nate centinaia di pagine, rimaste finora nei cassetti di casa o in quelli dell'ARCI.
Molte di esse ruotavano attorno alla figura di Antonio, un comunista torinese che aveva scelto Ventimiglia per trascorrervi la seconda metà della propria vita. Naturale è venuta l'idea di cucire questi racconti con il filo doppiamente rosso della biografia al fine di far assumere loro la forma del romanzo. Ne è venuto fuori il lavoro che i lettori hanno tra le mani: una storia circolare che inizia e finisce nello stesso punto e si dipana, attraverso il meccanismo del flash-back, con il susseguirsi di episodi che riemergono nella memoria del protagonista e degli altri personaggi.
Antonio, che ha appreso la difficile arte della meccanica iniziando come fuochista-bigliettaio sulle corriere a vapore del dopoguerra, da ragazzo sapeva già mantenere in perfetta efficienza quei gioielli che erano le Lancia dell'epoca, poi è entrato alla Fiat ed infine, come il Faussone di Primo Levi, è andato in giro per i cantieri di mezzo mondo, non ad innalzare tralicci ma a riparare borbottanti motori diesel. A Ventimiglia, città che ha conosciuto da ragazzino quando la corriera aveva sufficiente pressione per superare il Tenda, Antonio continua a fare l'operaio ed abita con Giovanna e la figlia Letizia in un surreale "container attrezzato" posto su una fascia tra gli ulivi, non lontano dal confine francese.
Il container è il luogo di incontro di una serie di pittoreschi personaggi: il vicino calabrese che inscena animate ed animose pantomime all'apparire del Sommo Pontefice; il frontaliero che ha ideato un originale progetto per la conquista del potere da parte del proletariato; l'ex legionario che sogna di sbarchi in Sardegna e di attacchi alle basi NATO; Terenzio, "il più grande della pur numerosa famiglia dei passeur", conosciuto dal Principato di Seborga fino a Saorge; Gino,"la vittima della Merlin"; l'anarchico Bacì, convinto che «quando nel mondo la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera»; Berto, il creatore di abiette ricette atte a salvare, nello stesso tempo, l'unità della famiglia e il bilancio dello stato; il vecchio Ernesto, detto Lenin, che ha combattuto con le brigate internazionali in Spagna, ecc. Il prefabbricato si trasforma di volta in volta in sede di sindacato e di partito, in circolo culturale, in studio di psicanalista. Antonio, che assieme ai suoi amici accarezza il mito della creazione dell'Uomo Nuovo, vi officia tutte le funzioni attinenti alla figura del prete rosso: capocellula, dirigente sindacale, sociologo, psicologo e quant'altro.
Se Antonio ha le variegate conoscenze tipiche della formazione culturale dell'autodidatta dai vasti interessi, in politica - lettore più di Vie Nuove che di Rinascita - egli appare monolitico, assomigliando un po' al trinaricciuto di guareschiana memoria. La sua fede nel comunismo (e nella correlata costruzione del socialismo nei paesi fratelli) è incrollabile. La storia è, però, spietata e le crepe si fanno sempre più evidenti. In apparenza Antonio resta tetragono, fedele, come si diceva allora, "agli ideali della Rivoluzione d'Ottobre". In realtà, come scopriranno i lettori, la sua costruzione incrollabile - fondata sulla rigidezza piuttosto che sulla duttilità delle costruzioni antisismiche - comincia a vacillare e finisce per rovinare ingloriosamente al suolo.
I lettori scopriranno pure cosa celi l'incessante attivismo del prete rosso a cui non stanno a cuore soltanto i destini di un'astratta umanità, ma anche quelli degli uomini in carne ed ossa con iquali sa tessere una straordinaria rete relazionale. L'amicizia, però, non può essere che un surrogato dell'amore. É su questo terreno che egli rivela la sua grande fragilità, predestinato com'è ad essere imprigionato nel ruolo infecondo di vittima-carnefice. Il vitalismo si rivela essere un antidoto contro l'angoscia. Quando le forze cedono, anche questo pilastro della vita di Antonio crolla. In tali casi, infatti, come diceva R. Gary, «au-delà de cette limite (di età, di salute) le ticket n'est plus valable».
In barba alle apparenze, la vita del protagonista va letta dunque come una storia di dispersione dell'energia iniziale, proprio come avviene nel romanzo di Balzac citato da Anna, il primo amore di Antonio. La felicità è simile alla Corsica che si presenta improvvisa agli occhi di Letizia dalle parti di Castel d'Appio, «un'isola bizzosa che come una bella donna appare solo quando ne ha voglia». E molto raramente, potremmo aggiungere.
Nel riscrivere le pagine di Carlo, mi sono imbattuto in uomini semplici, intrisi di istinti primari, come si conviene a personaggi di estrazione popolare della Ventimiglia di qualche anno fa. Al taglio narrativo, di chiara ascendenza orale, non faceva difetto né l'esprit gaulois, né il gusto dell'iperbole, né la tradizionale misoginia della letteratura popolare, né la (pur legittima) rievocazione nostalgica. Spero di non aver arrecato danni a questo impianto espositivo.
Antonio è una persona che è realmente vissuta; Carlo ha amato e ammirato quel comunista un po' poeta, profondo conoscitore dell'animo umano. Nella finzione letteraria, cercando di non scivolare nell'agiografia, si è voluto trasformarlo in un personaggio che, attraverso le sue vicissitudini, ci ricordasse come eravamo prima che cadessero i muri. Che ci parlasse di cosa avvenne a Ventimiglia l'8 settembre, di cos'era nel dopoguerra il servizio militare di un ragazzo presso una caserma di alpini, dell'immigrazione calabrese, della speculazione edilizia, delle metastasi del cancro massonico; del femminismo e del '68 come furono vissuti qui, alla periferia dell'impero.
Questo libro in fondo non è che una sorta di chiacchierata, che mi auguro gradevole, tra amici che parlano lo stesso linguaggio. Esso potrà fare arricciare il naso a chi ha frequentazione della letteratura con la L maiuscola. Per questo, assieme a Carlo, mi affretto ad invocare la clemenza di Francesco Biamonti e della schiera dei suoi estimatori intemeli.
Enzo Barnabà, Prefazione
Molte di esse ruotavano attorno alla figura di Antonio, un comunista torinese che aveva scelto Ventimiglia per trascorrervi la seconda metà della propria vita. Naturale è venuta l'idea di cucire questi racconti con il filo doppiamente rosso della biografia al fine di far assumere loro la forma del romanzo. Ne è venuto fuori il lavoro che i lettori hanno tra le mani: una storia circolare che inizia e finisce nello stesso punto e si dipana, attraverso il meccanismo del flash-back, con il susseguirsi di episodi che riemergono nella memoria del protagonista e degli altri personaggi.
Antonio, che ha appreso la difficile arte della meccanica iniziando come fuochista-bigliettaio sulle corriere a vapore del dopoguerra, da ragazzo sapeva già mantenere in perfetta efficienza quei gioielli che erano le Lancia dell'epoca, poi è entrato alla Fiat ed infine, come il Faussone di Primo Levi, è andato in giro per i cantieri di mezzo mondo, non ad innalzare tralicci ma a riparare borbottanti motori diesel. A Ventimiglia, città che ha conosciuto da ragazzino quando la corriera aveva sufficiente pressione per superare il Tenda, Antonio continua a fare l'operaio ed abita con Giovanna e la figlia Letizia in un surreale "container attrezzato" posto su una fascia tra gli ulivi, non lontano dal confine francese.
Il container è il luogo di incontro di una serie di pittoreschi personaggi: il vicino calabrese che inscena animate ed animose pantomime all'apparire del Sommo Pontefice; il frontaliero che ha ideato un originale progetto per la conquista del potere da parte del proletariato; l'ex legionario che sogna di sbarchi in Sardegna e di attacchi alle basi NATO; Terenzio, "il più grande della pur numerosa famiglia dei passeur", conosciuto dal Principato di Seborga fino a Saorge; Gino,"la vittima della Merlin"; l'anarchico Bacì, convinto che «quando nel mondo la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera»; Berto, il creatore di abiette ricette atte a salvare, nello stesso tempo, l'unità della famiglia e il bilancio dello stato; il vecchio Ernesto, detto Lenin, che ha combattuto con le brigate internazionali in Spagna, ecc. Il prefabbricato si trasforma di volta in volta in sede di sindacato e di partito, in circolo culturale, in studio di psicanalista. Antonio, che assieme ai suoi amici accarezza il mito della creazione dell'Uomo Nuovo, vi officia tutte le funzioni attinenti alla figura del prete rosso: capocellula, dirigente sindacale, sociologo, psicologo e quant'altro.
Se Antonio ha le variegate conoscenze tipiche della formazione culturale dell'autodidatta dai vasti interessi, in politica - lettore più di Vie Nuove che di Rinascita - egli appare monolitico, assomigliando un po' al trinaricciuto di guareschiana memoria. La sua fede nel comunismo (e nella correlata costruzione del socialismo nei paesi fratelli) è incrollabile. La storia è, però, spietata e le crepe si fanno sempre più evidenti. In apparenza Antonio resta tetragono, fedele, come si diceva allora, "agli ideali della Rivoluzione d'Ottobre". In realtà, come scopriranno i lettori, la sua costruzione incrollabile - fondata sulla rigidezza piuttosto che sulla duttilità delle costruzioni antisismiche - comincia a vacillare e finisce per rovinare ingloriosamente al suolo.
I lettori scopriranno pure cosa celi l'incessante attivismo del prete rosso a cui non stanno a cuore soltanto i destini di un'astratta umanità, ma anche quelli degli uomini in carne ed ossa con iquali sa tessere una straordinaria rete relazionale. L'amicizia, però, non può essere che un surrogato dell'amore. É su questo terreno che egli rivela la sua grande fragilità, predestinato com'è ad essere imprigionato nel ruolo infecondo di vittima-carnefice. Il vitalismo si rivela essere un antidoto contro l'angoscia. Quando le forze cedono, anche questo pilastro della vita di Antonio crolla. In tali casi, infatti, come diceva R. Gary, «au-delà de cette limite (di età, di salute) le ticket n'est plus valable».
In barba alle apparenze, la vita del protagonista va letta dunque come una storia di dispersione dell'energia iniziale, proprio come avviene nel romanzo di Balzac citato da Anna, il primo amore di Antonio. La felicità è simile alla Corsica che si presenta improvvisa agli occhi di Letizia dalle parti di Castel d'Appio, «un'isola bizzosa che come una bella donna appare solo quando ne ha voglia». E molto raramente, potremmo aggiungere.
Nel riscrivere le pagine di Carlo, mi sono imbattuto in uomini semplici, intrisi di istinti primari, come si conviene a personaggi di estrazione popolare della Ventimiglia di qualche anno fa. Al taglio narrativo, di chiara ascendenza orale, non faceva difetto né l'esprit gaulois, né il gusto dell'iperbole, né la tradizionale misoginia della letteratura popolare, né la (pur legittima) rievocazione nostalgica. Spero di non aver arrecato danni a questo impianto espositivo.
Antonio è una persona che è realmente vissuta; Carlo ha amato e ammirato quel comunista un po' poeta, profondo conoscitore dell'animo umano. Nella finzione letteraria, cercando di non scivolare nell'agiografia, si è voluto trasformarlo in un personaggio che, attraverso le sue vicissitudini, ci ricordasse come eravamo prima che cadessero i muri. Che ci parlasse di cosa avvenne a Ventimiglia l'8 settembre, di cos'era nel dopoguerra il servizio militare di un ragazzo presso una caserma di alpini, dell'immigrazione calabrese, della speculazione edilizia, delle metastasi del cancro massonico; del femminismo e del '68 come furono vissuti qui, alla periferia dell'impero.
Questo libro in fondo non è che una sorta di chiacchierata, che mi auguro gradevole, tra amici che parlano lo stesso linguaggio. Esso potrà fare arricciare il naso a chi ha frequentazione della letteratura con la L maiuscola. Per questo, assieme a Carlo, mi affretto ad invocare la clemenza di Francesco Biamonti e della schiera dei suoi estimatori intemeli.
Enzo Barnabà, Prefazione
[...] «Ehi bocia, non vai incontro a un vecchio amico che ti viene a trovare?»
Antonio interruppe la lettura del giornale che aveva acquistato il mattino ma che aveva potuto aprire solo da pochi minuti, seduto davanti al container in attesa che anche Giovanna tornasse dal lavoro e che il sole andasse definitivamente spegnersi dietro Mont Angel. Era Beppe, Beppe d'la Marmotta, il compagno di infanzia con cui aveva "fatto la resistenza". Veniva giù lentamente per il sentiero scrutando con gli occhialetti il suolo e sprizzando gioia dal viso ogni volta che alzava lo sguardo verso l'amico. Una rilassata pinguedine aveva preso il posto della magrezza di un tempo. Era ancora più calvo dell'ultima volta che era venuto a fargli visita. La peluria che gli incorniciava il volto si era fatta più grigia.
Si sedette sulla panchina accanto a lui e prese a decantare il paesaggio soffermandosi sulla fortuna che aveva ad abitare lì, mentre egli era costretto a passare la vita in un anonimo appartamento romano o sui treni in giro per l'Italia. Spiegò che era venuto a presiedere il convegno del sindacato pensionati che sarebbe cominciato l'indomani a Bordighera. Si mise a parlare con calore della situazione politica. Era rimasto l'entusiasta dì sempre.
Antonio avrebbe voluto parlargli dei suoi dubbi e confidargli le sue angosce. Più volte fu sul punto di interromperlo ma, senza sapere perché, non riusciva a farlo. Si rassegnò e, mentre l'amico parlava, il suo pensiero corse verso quanto aveva seguito il 25 aprile.
Lui era tornato a Torino, mentre Beppe si era messo a lavorare col padre che girava per paesi e città ancora devastate dai bombardamenti spingendo un carrettino colmo di fasci di erbe aromatiche, con su il grammofono, la tenda da montare e la marmotta che saltellava dentro la gabbia.
Lo seguiva di malavoglia, sempre più determinato a cambiare mestiere quando sarebbe diventato più grande. Pieno di imbarazzo e di risentimento, ascoltava il padre strillare: «Donne, ecco la marmotta che balla per voi. Abbiamo la vera menta del Piemonte, le erbe per le tisane e caviamo anche i denti.»
Fecero grandi affari con neri dal cuore infantile e un po' ingenuo che accettavano di barattare le razioni dell'esercito americano con la paccottiglia che loro raccattavano nei casolari di contadini contenti di disfarsi dei cimeli di famiglia per racimolare qualche lira. Sulla mensa degli stravaganti ed inventivi Marmotta arrivarono così cioccolata, chewing gum, latte condensato, scatolette di ogni tipo e forma, gallette e una bevanda gassata che consumarono in anteprima: la coca cola.
Passarono poi alla vendita delle foto-tessera e delle dentiere usate, di cui avevano abbondanti scorte. Le prime, ritoccate appena un po' (l'ufficiale dell'anagrafe dei piccoli paesi non faceva troppe storie: una certa somiglianza era sufficiente ad ottenere il documento), facevano fare un bel risparmio a chi non poteva permettersi di pagarsi il fotografo. Le seconde, debitamente limate ed adattate, permisero a numerosi contadini dell'Alto Piemonte di ritrovare il piacere di masticare il poco cibo disponibile, con grande sollievo delle gengive e della borsa.
Il mestiere principale restava, però, quello del dentista.
Montavano la tenda nella piazza del paese e gridavano a squarciagola:
«Attenzione per favore
contadini, brava gente.
Per due lire, se vi duole,
vi togliamo pure il dente»
I clienti non mancavano. Il padre li faceva accomodare sulla sedia di paglia ed invitava il figlio ad approntare il grammofono.
I malcapitati trovavano tempestiva e puntuale risposta alla domanda che legittimamente si facevano: «Che ci fa un grammofono dal dentista?».
«Dai volume quando tiro» ordinava il padre mentre ficcava la pinza in bocca al cliente. Le note del Rigoletto «sia vendetta, tremenda vendetta...» sovrastavano le urla del poveretto e i pazienti in attesa restavano tranquilli. A volte, però, l'estrazione veniva interrotta dalla fuga del malato che bisognava poi inseguire per indurlo a portare a termine l'operazione ed incassare la parcella. Beppe partecipava all'inseguimento colmo di rabbia e di vergogna.
Il periodo dell'adolescenza, che per molti è il più bello della vita, era trascorso in fretta, senza lasciare grandi ricordi. Vi erano attorno troppa miseria e troppa sofferenza. Impossibile essere veramente felici.
Quando Antonio ritornava in paese, la domenica si divertivano ad andare a rompere le balle a quelli della banda municipale. Si piazzavano sotto il palco e si mettevano a picchiettare sulle transenne per mandare i suonatori fuori tempo, oppure a mangiare limoni per far venire l'acquolina in bocca ai fiati e farli steccare. Immancabilmente, la bacchetta del maestro cessava di danzare nell'aria, e guizzava sulle loro teste.
Quando Antonio andò a lavorare alla FIAT, l'amico lo raggiunse. Si ritrovarono insieme nei reparti battilastra e nelle sedi del sindacato. Beppe aveva fede e carisma. Fece una rapida carriera nella FIOM e, pochi anni dopo, partì per Roma.
«Vieni a trovarmi, domani. Passiamo assieme la giornata» disse l'amico nel congedarsi. Antonio esitò non poco, ormai era stufo di riunioni, tavole rotonde e convegni. Non servivano a nulla se non a far passare qualche momento rilassante a quei relatori che riuscivano a portarsi appresso mogli, amanti, figli e nipoti, facendo pagare il soggiorno all'organizzazione. Ancora meglio, se si svolgevano in posti di villeggiatura e durante la stagione estiva. Non seppe, però, dire di no all'amico.
Quell'anno, la riviera dei fiori riservava ai turisti un agosto particolarmente afoso; qualche bagnante era addirittura passato a miglior vita, come informavano a grossi titoli le gazzette locali. Appena mise il piede nelsalone dove si teneva il convegno, Antonio fu come investito da una zaffata che gli fece pensare alla camerata della caserma quando gli artiglieri si toglievano le calze dopo una lunga marcia. Beppe era al tavolo della presidenza in mezzo a due anzini dirigenti.
A sinistra stava un tipo che assomigliava a quello che morde la mela in TV e invita ad usare il tal fissante per dentiere. Quello di destra, col capo che brillava della luce del sovrastante lampadario, poteva far venire in mente uno stagionato Yul Brinner. Ma ascoltare il vecchio caro Beppe d'la Marmotta lo inteneriva.
"La condizione di disagio del pensionato nella situazione attuale. Segue rinfresco" recitava il manifesto. Ormai si ricorreva a quei mezzucci per attirare anche chi voleva sbafarsi agratis un paio di gelati. (pp. 159-162)
Antonio interruppe la lettura del giornale che aveva acquistato il mattino ma che aveva potuto aprire solo da pochi minuti, seduto davanti al container in attesa che anche Giovanna tornasse dal lavoro e che il sole andasse definitivamente spegnersi dietro Mont Angel. Era Beppe, Beppe d'la Marmotta, il compagno di infanzia con cui aveva "fatto la resistenza". Veniva giù lentamente per il sentiero scrutando con gli occhialetti il suolo e sprizzando gioia dal viso ogni volta che alzava lo sguardo verso l'amico. Una rilassata pinguedine aveva preso il posto della magrezza di un tempo. Era ancora più calvo dell'ultima volta che era venuto a fargli visita. La peluria che gli incorniciava il volto si era fatta più grigia.
Si sedette sulla panchina accanto a lui e prese a decantare il paesaggio soffermandosi sulla fortuna che aveva ad abitare lì, mentre egli era costretto a passare la vita in un anonimo appartamento romano o sui treni in giro per l'Italia. Spiegò che era venuto a presiedere il convegno del sindacato pensionati che sarebbe cominciato l'indomani a Bordighera. Si mise a parlare con calore della situazione politica. Era rimasto l'entusiasta dì sempre.
Antonio avrebbe voluto parlargli dei suoi dubbi e confidargli le sue angosce. Più volte fu sul punto di interromperlo ma, senza sapere perché, non riusciva a farlo. Si rassegnò e, mentre l'amico parlava, il suo pensiero corse verso quanto aveva seguito il 25 aprile.
Lui era tornato a Torino, mentre Beppe si era messo a lavorare col padre che girava per paesi e città ancora devastate dai bombardamenti spingendo un carrettino colmo di fasci di erbe aromatiche, con su il grammofono, la tenda da montare e la marmotta che saltellava dentro la gabbia.
Lo seguiva di malavoglia, sempre più determinato a cambiare mestiere quando sarebbe diventato più grande. Pieno di imbarazzo e di risentimento, ascoltava il padre strillare: «Donne, ecco la marmotta che balla per voi. Abbiamo la vera menta del Piemonte, le erbe per le tisane e caviamo anche i denti.»
Fecero grandi affari con neri dal cuore infantile e un po' ingenuo che accettavano di barattare le razioni dell'esercito americano con la paccottiglia che loro raccattavano nei casolari di contadini contenti di disfarsi dei cimeli di famiglia per racimolare qualche lira. Sulla mensa degli stravaganti ed inventivi Marmotta arrivarono così cioccolata, chewing gum, latte condensato, scatolette di ogni tipo e forma, gallette e una bevanda gassata che consumarono in anteprima: la coca cola.
Passarono poi alla vendita delle foto-tessera e delle dentiere usate, di cui avevano abbondanti scorte. Le prime, ritoccate appena un po' (l'ufficiale dell'anagrafe dei piccoli paesi non faceva troppe storie: una certa somiglianza era sufficiente ad ottenere il documento), facevano fare un bel risparmio a chi non poteva permettersi di pagarsi il fotografo. Le seconde, debitamente limate ed adattate, permisero a numerosi contadini dell'Alto Piemonte di ritrovare il piacere di masticare il poco cibo disponibile, con grande sollievo delle gengive e della borsa.
Il mestiere principale restava, però, quello del dentista.
Montavano la tenda nella piazza del paese e gridavano a squarciagola:
«Attenzione per favore
contadini, brava gente.
Per due lire, se vi duole,
vi togliamo pure il dente»
I clienti non mancavano. Il padre li faceva accomodare sulla sedia di paglia ed invitava il figlio ad approntare il grammofono.
I malcapitati trovavano tempestiva e puntuale risposta alla domanda che legittimamente si facevano: «Che ci fa un grammofono dal dentista?».
«Dai volume quando tiro» ordinava il padre mentre ficcava la pinza in bocca al cliente. Le note del Rigoletto «sia vendetta, tremenda vendetta...» sovrastavano le urla del poveretto e i pazienti in attesa restavano tranquilli. A volte, però, l'estrazione veniva interrotta dalla fuga del malato che bisognava poi inseguire per indurlo a portare a termine l'operazione ed incassare la parcella. Beppe partecipava all'inseguimento colmo di rabbia e di vergogna.
Il periodo dell'adolescenza, che per molti è il più bello della vita, era trascorso in fretta, senza lasciare grandi ricordi. Vi erano attorno troppa miseria e troppa sofferenza. Impossibile essere veramente felici.
Quando Antonio ritornava in paese, la domenica si divertivano ad andare a rompere le balle a quelli della banda municipale. Si piazzavano sotto il palco e si mettevano a picchiettare sulle transenne per mandare i suonatori fuori tempo, oppure a mangiare limoni per far venire l'acquolina in bocca ai fiati e farli steccare. Immancabilmente, la bacchetta del maestro cessava di danzare nell'aria, e guizzava sulle loro teste.
Quando Antonio andò a lavorare alla FIAT, l'amico lo raggiunse. Si ritrovarono insieme nei reparti battilastra e nelle sedi del sindacato. Beppe aveva fede e carisma. Fece una rapida carriera nella FIOM e, pochi anni dopo, partì per Roma.
«Vieni a trovarmi, domani. Passiamo assieme la giornata» disse l'amico nel congedarsi. Antonio esitò non poco, ormai era stufo di riunioni, tavole rotonde e convegni. Non servivano a nulla se non a far passare qualche momento rilassante a quei relatori che riuscivano a portarsi appresso mogli, amanti, figli e nipoti, facendo pagare il soggiorno all'organizzazione. Ancora meglio, se si svolgevano in posti di villeggiatura e durante la stagione estiva. Non seppe, però, dire di no all'amico.
Quell'anno, la riviera dei fiori riservava ai turisti un agosto particolarmente afoso; qualche bagnante era addirittura passato a miglior vita, come informavano a grossi titoli le gazzette locali. Appena mise il piede nelsalone dove si teneva il convegno, Antonio fu come investito da una zaffata che gli fece pensare alla camerata della caserma quando gli artiglieri si toglievano le calze dopo una lunga marcia. Beppe era al tavolo della presidenza in mezzo a due anzini dirigenti.
A sinistra stava un tipo che assomigliava a quello che morde la mela in TV e invita ad usare il tal fissante per dentiere. Quello di destra, col capo che brillava della luce del sovrastante lampadario, poteva far venire in mente uno stagionato Yul Brinner. Ma ascoltare il vecchio caro Beppe d'la Marmotta lo inteneriva.
"La condizione di disagio del pensionato nella situazione attuale. Segue rinfresco" recitava il manifesto. Ormai si ricorreva a quei mezzucci per attirare anche chi voleva sbafarsi agratis un paio di gelati. (pp. 159-162)
Carlo Gallinella, L'uomo nuovo, Edizione "Il gabbiano"