Mi chiamò il commissario il quale mi disse che gli era diventato impossibile aiutarmi anche minimamente e che era perciò indispensabile che io lasciassi la mia famiglia e l'Italia per recarmi in Francia. Si sarebbe interessato lui per farmi ottenere il passaporto e l'unico mezzo per ottenerlo era quello di portare come scusa che mi recavo in Francia per acquistare del terreno. Giunsi così a Nizza dove trovai ospitalità presso alcuni parenti di mia cognata. La famiglia era composta solo da due coniugi. Il marito era occupato presso il mercato della frutta ed io per i primi giorni lo andavo ad aiutare ma la mia aspirazione era quella di trovare un vero lavoro. Una sera sentimmo bussare e rimase felicemente sorpreso quando vidi entrare il compagno Bosco. Anche lui cercava lavoro ma lo trovò quasi subito, grazie ad un conoscente impiegato nel Principato di Monaco. Finalmente capitai anch'io su un'anima buona e il 25 aprile del 1923 fui assunto presso una ditta di riparazioni ferroviarie e tranviarie.
I primi giorni di lavoro furono terribili per me, ero circondato da un'aria ostile e nemica che non mi sapevo spiegare. Arrivato al punto di non poterne più, mi rivolsi al capo officina il quale per tutta risposta mi disse di rivolgermi ad un operaio che aveva un occhio solo il quale me lo avrebbe spiegato. Parlai con quell'uomo e la spiegazione fu che noi italiani eravamo tutti fascisti e che per noi non c'era posto in Francia. Quando però gli spiegai che il motivo del mio esilio era proprio perché ero antifascista, allora tutto cambiò, mi fissò un appuntamento per quella sera stessa fuori dalla fabbrica per recarci insieme alla Camera del Lavoro.
Qui il mio accompagnatore mi fece fare la tessera, poi mi fissò un altro appuntamento in piazza Garibaldi per le ore 21, dove mi avrebbe fatto conoscere dei compagni del PCF.
Quel giorno segnò l'inizio di una salda amicizia fra me ed i miei compagni di lavoro.
... Frattanto non perdevamo tempo ed organizzavamo frequenti manifestazioni antifasciste a Nizza, Beausoleil e Cannes. A Beausoleil i fascisti tentarono l'inaugurazione del gagliardetto, ma non fu loro possibile, anzi furono costretti dal popolo e dagli antifascisti italiani a fuggire.
Finalmente dopo tanti sacrifici fu possibile farmi raggiungere da mia moglie e da mia figlia, e ci sistemammo alla meglio in una stanza d'affitto, ammobiliata con un letto, un tavolo e due sedie, presso un ferroviere. Ma nel mese di giugno del '24, dopo l'assassinio di Matteotti, subii il primo arresto con altri compagni. Fummo però liberati dopo quattro ore per merito di altri compagni francesi che rifiutarono di lasciare il carcere senza di noi. Alla fine di novembre fui di nuovo arrestato, poi condotto alla frontiera e consegnato ai fascisti di Ventimiglia.
Lorenzo Pagliasso
Arrestato a Nizza all'inizio del '36 per delazione dell'agente provocatore Michele Lombardi la polizia francese mi aveva dato tre giorni di tempo per andarmene dalla Francia. Del mio caso si interessò la Lega dei diritti dell'uomo, ma non riuscì di ottenere il permesso di soggiorno. Arrestato fui condannato ad un mese di carcere. Con la vittoria del fronte popolare nel '36 ottenni finalmente il riconoscimento di rifugiato politico. Nel '39 mi arrestarono nuovamente e mi condannarono a sei mesi di carcere. Uscito di prigione, come al solito avevo tre giorni per lasciare il territorio francese. Sempre grazie alla Lega dei diritti dell'uomo ebbi un foglio, da rinnovare ogni mese, che mi autorizzava a rimanere.
Ciò avvenne due o tre volte, poi non me lo rinnovarono più. Il 16 novembre del '39 un commissario di polizia venne a prelevarmi. Andai in carcere in taxi in luogo del "panier à salade" che avendo fatto il giro a prendere tutti gli altri (una trentina di antifascisti di nazionalità diverse) era pieno zeppo. Dopo alcuni giorni fui avviato al famoso campo di concentramento di Vernet d'Ariège. Inizialmente non stavamo male come vitto. Poi con l'invasione del nord della Francia ebbe inizio la riduzione della razione, poi miseria e fame.
Il 10 maggio del 1941 la commissione italiana di armistizio ci venne a prelevare, fummo portati in Italia, rinchiusi in un primo tempo nel carcere di Ventimiglia e dopo un mese circa ognuno fu trasferito nel suo capoluogo di provincia. Io al carcere "Leutrum" di Cuneo.
Chiamato di fronte alla commissione per il confino di polizia dopo due mesi di carcere, mi condannarono ad un anno di confino a Ventotene.
Giuseppe Gilio
Nel luglio del 1931 un giornale svizzero in lingua tedesca pubblicava una foto con relativa didascalia di due fascisti bolognesi che avrebbero dovuto partecipare ad una gara di nuoto nella piscina dell'Eglisée sotto gli auspici del locale consolato fascista e del fascio di Basilea. In una riunione dell'Alleanza Antifascista si era discusso della cosa e si era deciso che gli appartenenti alla sezione dovevano ammassarsi all'ingresso e penetrarvi soltanto dopo che io per primo ne avessi varcato l'ingresso. Il gruppo avrebbe dovuto portarsi dietro le autorità.
Ad un mio segnale, che avrei dovuto fare stando dall'altro lato della piscina, le autorità, sospinte decisamente da dietro, avrebbero dovuto capitombolare nella vasca. Senonché più che il pregustato piacere per la beffa poté il prurito alle mani di tre antifascisti: un anarchico e due comunisti. Venendo meno agli accordi presi, prima che io arrivassi, caricarono con tutta decisione le "autorità" menando botte da orbi e facendo strage di "cimici".
Quando, all'ora stabilita giunsi all'Eglisée, me li vidi comparire in cima allo scalone con le manette ai polsi e attorniati dai gendarmi svizzeri. Impulsivo, quasi quanto loro, raggiunsi lo scalone e improvvisai un comizio. Il comizio durò poco: quattro gendarmi mi impacchettarono e ci portarono alla gendarmeria. Al posto di polizia, per prima formalità, esame delle identità da parte del commissario che mi contestò di "aver preso contatto" con la polizia di Basilea altre due volte: una prima volta il 28 settembre 1930 alla stazione di Basilea per aver arringato emigrati italiani causando la congestione del traffico e per aver preso per il bavero il vice-console italiano con il quale ero venuto a diverbio; una seconda volta per aver strappato la "cimice" ad uno studente universitario.
Nel 1934, proveniente dalla Svizzera dalla quale ero stato espulso per la mia attività antifascista, mi ero trasferito a Nizza Marittima per continuare la lotta. ... Con Tortora andavo a notte fatta sulla spianata del "Casinò de la fétée" dove erano sempre parcheggiate numerose e lussuose macchine italiane i cui proprietari giocavano, guadagnavano o perdevano e rientravano in Italia la notte stessa. Nelle connessure delle macchine incustodite, nei fusi delle ruote di scorta, in tutte le parti della carrozzeria suscettibili di ricettare manifestini, Tortora introduceva materiale di "Giustizia e Libertà", io materiale comunista. Ma un bel gioco dura poco.
Fu così che venne organizzato il lancio di manifestini antifascisti in Italia a mezzo di palloncini liberati in Francia. Venne presa in affitto una baita in prossimità della frontiera. Al proprietario venne fatto credere che doveva servire per la caccia. Parecchie grosse bombole di idrogeno, scatoloni pieni di palloncini di gomma sgonfi, fatti venire direttamente da Parigi, manifestini di propaganda della carta leggerissima e con stampa a caratteri piccoli ma chiari, furono trasportati con un furgoncino fin quasi al nostro quartier generale. Quando i palloncini sonda indicavano che il vento spirava abbastanza forte in direzione dell'Italia liberavamo numerosi palloncini gonfi di idrogeno e gravidi di volantini. Ignari della sorte che li attendeva auguravamo loro fervidamente buon viaggio e buon lavoro.
Carlo Bava
Avevamo allestito (nel campo di prigionia in Francia) il "salon" da barbiere che ci serviva da recapito per tenere i contatti e al mattino i più giovani facevano un po' di ginnastica per evitare l'abbrutimento. La precauzione era stata presa dagli anziani che pensavano già a come istituire un corso di economia politica. Per dare meno nell'occhio fecero arrivare alcune copie di grammatica francese ed i quaderni necessari. Il francese fu effettivamente studiato ma l'obiettivo più importante rimase la preparazione teorico-politica dei compagni che vi parteciparono. Gli anziani Contin, Alberganti, Benetti che avevano ben assimilato i libri di testo tenevano le lezioni. I componenti dei vari gruppi dopo aver preso appunti si riunivano e tornavano alla lezione seguente relazionando su ciò che avevano imparato. Seguiva la discussione. Frequentava il corso anche un sardo di 52 anni, zolfataro, che non sapeva nè leggere nè scrivere. Egli con una tenacia formidabile e con l'aiuto del collettivo (...) dopo cinquanta giorni scrisse la sua prima lettera alla moglie precisandole che le scriveva "di sua mano". Un particolare che mi riguardava personalmente: dopo pochi mesi di frequenza del corso mi chiesi come avevo osato tenere nel Vars decine di comizi, ignorante com'ero delle cose che stavo imparando.
Il 28 maggio 1940 fummo trasferiti nel campo di concentramento di Vernet d'Ariège per far posto ai fascisti che venivano rinchiusi sette mesi ed otto giorni dopo di noi (...).
Il 20 giugno Mussolini aggredì la Francia e l'annuncio venne dato via radio dagli altoparlanti installati nel campo dove eravamo stati radunati negli spiazzi (...) noi ascoltammo i comunicati senza battere ciglio (...) ognuno di noi, più che essere preoccupato per sè lo era per i compagni dirigenti più conosciuti e presi di mira.
Anche in questa situazione il partito ebbe la sua grande funzione dirigente. Le riunioni si facevano passeggiando in due o tre, un anziano ed uno o due giovani. Si decise che i compagni mai condannati (in Italia) dovevano tornare in Italia per fare propaganda contro il fascismo e la guerra, perché al campo la prospettiva era di essere deportati in Germania.
Venendo in Italia vi era però la via crucis della galera, il confino oppure nella migliore delle ipotesi il servizio militare in tempo di guerra e la prima linea. Mario Montagnana, che mi preparava al lavoro clandestino, alle mie preoccupazioni rispose che in guerra non tutti muoiono e quale pacchia può essere per un comunista trovarsi in mezzo a dei giovani avidi di sapere che non avevano mai sentito altro che la propaganda fascista. A Mario Montagnana piaceva il mio modo di raccontare barzellette antifasciste, di dire le cose scherzando o a doppio senso.
Questo modo di esprimere certe verità - mi aveva detto - in Italia può costare anni di galera: tu dovrai usare la verità come i medici usano il veleno in certi rimedi, se è adoperato in giusta misura il paziente guarisce se si esagera muore. Con questa differenza - aveva proseguito - che nel tuo caso se sbagli dose anziché il paziente muore il medico, e cioè tu andrai in galera o ti fucileranno ed il Partito perderà un attivista. Ebbi modo di constatare quanto fossero giuste le sue previsioni (...). Il 19 luglio partimmo in ottocento (non tutti erano compagni) in vagoni bestiame (...) dopo ventuno ore di viaggio giungemmo a Nizza occupata dai fascisti.
Costoro (...) sembravano i padroni del mondo. Ci fecero distribuire, a nome del duce naturalmente, un panino ed un quartino di vino. Poi fummo trasportati in carcere a Mentone e qui un alto ufficiale, mani sui fianchi, manco a dirlo ci chiese se qualcuno avesse a lamentare maltrattamenti subiti in campo di concentramento (...). All'albergo Savoia di San Remo allestito da ospedale da campo ebbe inizio la selezione e le camionette dell'OVRA incominciarono ad avviare alle patrie galere i compagni che erano stati segnalati.
Giuseppe Gastaldi
(a cura di) Giuseppe Biancani, Comunisti del Cuneese. Per una storia del movimento operaio della provincia di Cuneo, Cipec, quaderno n. 10
I primi giorni di lavoro furono terribili per me, ero circondato da un'aria ostile e nemica che non mi sapevo spiegare. Arrivato al punto di non poterne più, mi rivolsi al capo officina il quale per tutta risposta mi disse di rivolgermi ad un operaio che aveva un occhio solo il quale me lo avrebbe spiegato. Parlai con quell'uomo e la spiegazione fu che noi italiani eravamo tutti fascisti e che per noi non c'era posto in Francia. Quando però gli spiegai che il motivo del mio esilio era proprio perché ero antifascista, allora tutto cambiò, mi fissò un appuntamento per quella sera stessa fuori dalla fabbrica per recarci insieme alla Camera del Lavoro.
Qui il mio accompagnatore mi fece fare la tessera, poi mi fissò un altro appuntamento in piazza Garibaldi per le ore 21, dove mi avrebbe fatto conoscere dei compagni del PCF.
Quel giorno segnò l'inizio di una salda amicizia fra me ed i miei compagni di lavoro.
... Frattanto non perdevamo tempo ed organizzavamo frequenti manifestazioni antifasciste a Nizza, Beausoleil e Cannes. A Beausoleil i fascisti tentarono l'inaugurazione del gagliardetto, ma non fu loro possibile, anzi furono costretti dal popolo e dagli antifascisti italiani a fuggire.
Finalmente dopo tanti sacrifici fu possibile farmi raggiungere da mia moglie e da mia figlia, e ci sistemammo alla meglio in una stanza d'affitto, ammobiliata con un letto, un tavolo e due sedie, presso un ferroviere. Ma nel mese di giugno del '24, dopo l'assassinio di Matteotti, subii il primo arresto con altri compagni. Fummo però liberati dopo quattro ore per merito di altri compagni francesi che rifiutarono di lasciare il carcere senza di noi. Alla fine di novembre fui di nuovo arrestato, poi condotto alla frontiera e consegnato ai fascisti di Ventimiglia.
Lorenzo Pagliasso
Arrestato a Nizza all'inizio del '36 per delazione dell'agente provocatore Michele Lombardi la polizia francese mi aveva dato tre giorni di tempo per andarmene dalla Francia. Del mio caso si interessò la Lega dei diritti dell'uomo, ma non riuscì di ottenere il permesso di soggiorno. Arrestato fui condannato ad un mese di carcere. Con la vittoria del fronte popolare nel '36 ottenni finalmente il riconoscimento di rifugiato politico. Nel '39 mi arrestarono nuovamente e mi condannarono a sei mesi di carcere. Uscito di prigione, come al solito avevo tre giorni per lasciare il territorio francese. Sempre grazie alla Lega dei diritti dell'uomo ebbi un foglio, da rinnovare ogni mese, che mi autorizzava a rimanere.
Ciò avvenne due o tre volte, poi non me lo rinnovarono più. Il 16 novembre del '39 un commissario di polizia venne a prelevarmi. Andai in carcere in taxi in luogo del "panier à salade" che avendo fatto il giro a prendere tutti gli altri (una trentina di antifascisti di nazionalità diverse) era pieno zeppo. Dopo alcuni giorni fui avviato al famoso campo di concentramento di Vernet d'Ariège. Inizialmente non stavamo male come vitto. Poi con l'invasione del nord della Francia ebbe inizio la riduzione della razione, poi miseria e fame.
Il 10 maggio del 1941 la commissione italiana di armistizio ci venne a prelevare, fummo portati in Italia, rinchiusi in un primo tempo nel carcere di Ventimiglia e dopo un mese circa ognuno fu trasferito nel suo capoluogo di provincia. Io al carcere "Leutrum" di Cuneo.
Chiamato di fronte alla commissione per il confino di polizia dopo due mesi di carcere, mi condannarono ad un anno di confino a Ventotene.
Giuseppe Gilio
Nel luglio del 1931 un giornale svizzero in lingua tedesca pubblicava una foto con relativa didascalia di due fascisti bolognesi che avrebbero dovuto partecipare ad una gara di nuoto nella piscina dell'Eglisée sotto gli auspici del locale consolato fascista e del fascio di Basilea. In una riunione dell'Alleanza Antifascista si era discusso della cosa e si era deciso che gli appartenenti alla sezione dovevano ammassarsi all'ingresso e penetrarvi soltanto dopo che io per primo ne avessi varcato l'ingresso. Il gruppo avrebbe dovuto portarsi dietro le autorità.
Ad un mio segnale, che avrei dovuto fare stando dall'altro lato della piscina, le autorità, sospinte decisamente da dietro, avrebbero dovuto capitombolare nella vasca. Senonché più che il pregustato piacere per la beffa poté il prurito alle mani di tre antifascisti: un anarchico e due comunisti. Venendo meno agli accordi presi, prima che io arrivassi, caricarono con tutta decisione le "autorità" menando botte da orbi e facendo strage di "cimici".
Quando, all'ora stabilita giunsi all'Eglisée, me li vidi comparire in cima allo scalone con le manette ai polsi e attorniati dai gendarmi svizzeri. Impulsivo, quasi quanto loro, raggiunsi lo scalone e improvvisai un comizio. Il comizio durò poco: quattro gendarmi mi impacchettarono e ci portarono alla gendarmeria. Al posto di polizia, per prima formalità, esame delle identità da parte del commissario che mi contestò di "aver preso contatto" con la polizia di Basilea altre due volte: una prima volta il 28 settembre 1930 alla stazione di Basilea per aver arringato emigrati italiani causando la congestione del traffico e per aver preso per il bavero il vice-console italiano con il quale ero venuto a diverbio; una seconda volta per aver strappato la "cimice" ad uno studente universitario.
Nel 1934, proveniente dalla Svizzera dalla quale ero stato espulso per la mia attività antifascista, mi ero trasferito a Nizza Marittima per continuare la lotta. ... Con Tortora andavo a notte fatta sulla spianata del "Casinò de la fétée" dove erano sempre parcheggiate numerose e lussuose macchine italiane i cui proprietari giocavano, guadagnavano o perdevano e rientravano in Italia la notte stessa. Nelle connessure delle macchine incustodite, nei fusi delle ruote di scorta, in tutte le parti della carrozzeria suscettibili di ricettare manifestini, Tortora introduceva materiale di "Giustizia e Libertà", io materiale comunista. Ma un bel gioco dura poco.
Fu così che venne organizzato il lancio di manifestini antifascisti in Italia a mezzo di palloncini liberati in Francia. Venne presa in affitto una baita in prossimità della frontiera. Al proprietario venne fatto credere che doveva servire per la caccia. Parecchie grosse bombole di idrogeno, scatoloni pieni di palloncini di gomma sgonfi, fatti venire direttamente da Parigi, manifestini di propaganda della carta leggerissima e con stampa a caratteri piccoli ma chiari, furono trasportati con un furgoncino fin quasi al nostro quartier generale. Quando i palloncini sonda indicavano che il vento spirava abbastanza forte in direzione dell'Italia liberavamo numerosi palloncini gonfi di idrogeno e gravidi di volantini. Ignari della sorte che li attendeva auguravamo loro fervidamente buon viaggio e buon lavoro.
Carlo Bava
Avevamo allestito (nel campo di prigionia in Francia) il "salon" da barbiere che ci serviva da recapito per tenere i contatti e al mattino i più giovani facevano un po' di ginnastica per evitare l'abbrutimento. La precauzione era stata presa dagli anziani che pensavano già a come istituire un corso di economia politica. Per dare meno nell'occhio fecero arrivare alcune copie di grammatica francese ed i quaderni necessari. Il francese fu effettivamente studiato ma l'obiettivo più importante rimase la preparazione teorico-politica dei compagni che vi parteciparono. Gli anziani Contin, Alberganti, Benetti che avevano ben assimilato i libri di testo tenevano le lezioni. I componenti dei vari gruppi dopo aver preso appunti si riunivano e tornavano alla lezione seguente relazionando su ciò che avevano imparato. Seguiva la discussione. Frequentava il corso anche un sardo di 52 anni, zolfataro, che non sapeva nè leggere nè scrivere. Egli con una tenacia formidabile e con l'aiuto del collettivo (...) dopo cinquanta giorni scrisse la sua prima lettera alla moglie precisandole che le scriveva "di sua mano". Un particolare che mi riguardava personalmente: dopo pochi mesi di frequenza del corso mi chiesi come avevo osato tenere nel Vars decine di comizi, ignorante com'ero delle cose che stavo imparando.
Il 28 maggio 1940 fummo trasferiti nel campo di concentramento di Vernet d'Ariège per far posto ai fascisti che venivano rinchiusi sette mesi ed otto giorni dopo di noi (...).
Il 20 giugno Mussolini aggredì la Francia e l'annuncio venne dato via radio dagli altoparlanti installati nel campo dove eravamo stati radunati negli spiazzi (...) noi ascoltammo i comunicati senza battere ciglio (...) ognuno di noi, più che essere preoccupato per sè lo era per i compagni dirigenti più conosciuti e presi di mira.
Anche in questa situazione il partito ebbe la sua grande funzione dirigente. Le riunioni si facevano passeggiando in due o tre, un anziano ed uno o due giovani. Si decise che i compagni mai condannati (in Italia) dovevano tornare in Italia per fare propaganda contro il fascismo e la guerra, perché al campo la prospettiva era di essere deportati in Germania.
Venendo in Italia vi era però la via crucis della galera, il confino oppure nella migliore delle ipotesi il servizio militare in tempo di guerra e la prima linea. Mario Montagnana, che mi preparava al lavoro clandestino, alle mie preoccupazioni rispose che in guerra non tutti muoiono e quale pacchia può essere per un comunista trovarsi in mezzo a dei giovani avidi di sapere che non avevano mai sentito altro che la propaganda fascista. A Mario Montagnana piaceva il mio modo di raccontare barzellette antifasciste, di dire le cose scherzando o a doppio senso.
Questo modo di esprimere certe verità - mi aveva detto - in Italia può costare anni di galera: tu dovrai usare la verità come i medici usano il veleno in certi rimedi, se è adoperato in giusta misura il paziente guarisce se si esagera muore. Con questa differenza - aveva proseguito - che nel tuo caso se sbagli dose anziché il paziente muore il medico, e cioè tu andrai in galera o ti fucileranno ed il Partito perderà un attivista. Ebbi modo di constatare quanto fossero giuste le sue previsioni (...). Il 19 luglio partimmo in ottocento (non tutti erano compagni) in vagoni bestiame (...) dopo ventuno ore di viaggio giungemmo a Nizza occupata dai fascisti.
Costoro (...) sembravano i padroni del mondo. Ci fecero distribuire, a nome del duce naturalmente, un panino ed un quartino di vino. Poi fummo trasportati in carcere a Mentone e qui un alto ufficiale, mani sui fianchi, manco a dirlo ci chiese se qualcuno avesse a lamentare maltrattamenti subiti in campo di concentramento (...). All'albergo Savoia di San Remo allestito da ospedale da campo ebbe inizio la selezione e le camionette dell'OVRA incominciarono ad avviare alle patrie galere i compagni che erano stati segnalati.
Giuseppe Gastaldi
(a cura di) Giuseppe Biancani, Comunisti del Cuneese. Per una storia del movimento operaio della provincia di Cuneo, Cipec, quaderno n. 10