venerdì 29 marzo 2024

Mio papà gli dava 50 lire e lui metteva sul banco il giornale

Sanremo (IM): un angolo della città vecchia

La poesia di mio fratello, quella su quei due poveri e drammatici personaggi morti per droga [a Sanremo], è stata fatta tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Uno dei due mio papà lo conosceva: era stato un croupier eccezionale (non è per niente facile fare quel mestiere, perché occorre una prontezza e una lucidità straordinaria nell’immediato), si era ammalato non so di che cosa e la morfina che gli somministravano in clinica lo aveva assuefatto.
Aveva ripreso a lavorare, ma ormai era “drogato”. I suoi colleghi di lavoro, che lo stimavano molto, avevano fatto una colletta per una cura disintossicante. Non so quali fossero allora i mezzi di cura, ma sicuramente se ne parlava in modo impressionante: il malato veniva rinchiuso in una stanza dove, prevedendo le sue crisi di astinenza, le pareti erano imbottite per attenuare il male che si poteva procurare sbattendo contro di esse. Uscito da questa terribile esperienza, ma abbandonato dalla famiglia (aveva moglie e figli), purtroppo non si riprese più. Viveva vendendo tutto quello che poteva racimolare. Al mattino presto veniva nella bottega di mio papà con un rotocalco un po’ stropicciato che prendeva chissà dove, mio papà gli dava 50 lire e lui metteva sul banco il giornale. Il rotocalco e lui erano spiegazzati allo stesso modo. Mio papà dovette sopportare per tutto il tempo che durò questo scambio le ironie dei negozianti vicini e, se ricordo bene, anche quelle di mia mamma.
La tragedia si concluse in tono minore: l’ex-croupier e un altro drogato (due barboni che, si fa per dire, avevano fatto sodalizio in quel deserto umano di sofferenza) furono trovati morti non so da chi nella stamberga che occupavano nella città vecchia (avevano venduto anche le grondaie della casa per racimolare qualcosa), riversi su un pagliericcio, già freddi e immersi in una morte che forse era stata l’unica loro amica. Quella fine orribile per solitudine, miseria, sofferenza, degrado e ipocrisia del mondo, fece molto effetto, anche se era stata annunciata da mesi, se non da anni. La droga era apparsa a tutta la città nel suo aspetto orribile di alienazione e di morte. In seguito sarebbe diventata piano piano uno spettacolo quasi normale nei vicoli degradati della città vecchia, dove si sopravviveva in qualche modo alla miseria, all’abbandono, al freddo dell’inverno, al male della vita per gli esclusi.
Nel sonetto mio fratello tratta e sintetizza delicatamente il dolore di quei poveri esseri umani, indifesi dal gelo, dall’indifferenza, dalla disumanità mettendolo a confronto con la sfrontatezza e la bestialità dello spacciatore, che può rientrare a testa alta nella società “perbene”, simboleggiata dalla città nuova.
Donatella d’Imporzano

Droga

I l’han truvai destéixi: atacà
int’u brassu a sanghéta che carpìu
a g’ha l’ ùrtimu sciau. In prève a Diu
u i racumanda de premùra…e u va.

Ina vejéta i òji gh’è andà a serà
e éli daa barèla i han dau l’adìu
au brùtu stàgiu ch’u g’ha fau da nìu
int’e stu cantu persu da sità.

Ciù sutùrnu u carùgiu u l’è staséira;
aa lùùxe incerta e sporca du fanà
in tissiu bèn vestìu u sta a gardà

cun in fa strafutente, daa ringhéira.
Pòi u scrola e spale, u assende a sigaréta
e u cara in giù, scivurandu in’ariéta…


Droga

Li hanno trovati distesi: attaccata
nel braccio la sanguisuga che preso
gli ha l’ultimo soffio di vita. Un prete a Dio
li raccomanda di premura…. e va.

Una vecchietta gli è andata a chiudere gli occhi
e loro dalla barella hanno dato l’addio
al brutto “staggio” che gli ha fatto da nido
in questo angolo dimenticato della città.

Più tetro è il carugio questa sera;
alla luce sporca e incerta del fanale
un tizio ben vestito sta a guardare

con un fare strafottente, dalla ringhiera.
Poi scrolla le spalle, accende la sigaretta
e se ne va in giù, fischiettando un motivetto.

Franco d’Imporzano

Chiara Salvini, Un sonetto del famoso poeta ligure..., Nel delirio non ero mai sola, 12 dicembre 2015