Al nome di Lord Thomas Hanbury, di cui si è ricordato ieri nella villa a lui intitolata il centenario della morte, è legato a quello di un giardino botanico [in Frazione Mortola di Ventimiglia (IM)] fra i più ricchi e affascinanti del Mediterraneo.
Chi sa tutto della sua storia, oltre che dei fiori e delle piante in esso contenute è Nico Orengo, lo scrittore che a Villa Hanbury ha anche vissuto. Vale la pena di ascoltarlo raccontare.
"Villa Hanbury si chiamava in origine Villa Orengo. Era della mia famiglia, originaria di Latte, che la vendette agli Hanbury nel 1867. Ancora oggi, all'interno della villa, ci sono incisioni, poi acquarellate dagli Hanbury, con su scritto Villa Orengo".
Com'era, al momento della vendita, la villa?
"C'erano soprattutto limoni, e poi agrumi e viti. C'era, come c'è ora, la pineta, coi pini d'Aleppo, ed essenze mediterranee svariate".
I fiori sono arrivati dopo.
"Sì, il progetto dell'orto botanico è di Thomas e anche di suo fratello Daniel, che era di mestiere farmacista, ma appassionato appunto di botanica".
Alla realizzazione del giardino partecipa in modo attivo anche il giardiniere e paesaggista tedesco Lodovico Winter, attivissimo alla fine del XIX secolo in Riviera.
"Più avanti - prosegue Orengo - cioè negli anni Cinquanta, la mia famiglia comprò una casa che era appartenuta proprio a Lodovico Winter. Siccome c'era molto da ristrutturare, molto carinamente gli Hanbury ci concessero un'abitazione dentro all'interno della loro villa, dove io stetti per un anno e mezzo".
E com'era, vivere nella villa Hanbury?
"Beh, era che uscivo di casa, prendevo la corriera e scendevo al liceo, a Ventimiglia. In villa c'erano ancora una quindicina di giardinieri - negli anni d'oro erano stati fino a 60 - e con loro si chiacchierava e imparava. Accanto ai fiori, le targhette in ottone, con il nome e la denominazione scientifica in latino. Ma la villa era molto altro. Per esempio c'era un campo da tennis, uno di quei court all'inglese, un po' délabré; e i calchi di gesso di Monte Bego, portati lì, chi sa come e perché, da Nino Lamboglia, l'archeologo che li aveva rilevati. E poi c'era una casetta con una finestra affacciandosi alla quale si poteva pescare in mare".
Ma quest'episodio c'è in "Miramare", il suo libro del 1975 che è anche il libro di Villa Hanbury.
"L'ho raccontato anche lì, è vero. Ma villa Hanbury c'è anche in un racconto di Mario Soldati, che nell'"Attore" arriva fino alla Mortola; e di Giuseppe Conte è l'"Elegia" scritta nei giardini di villa Hanbury, che mi piace molto".
Chi sa tutto della sua storia, oltre che dei fiori e delle piante in esso contenute è Nico Orengo, lo scrittore che a Villa Hanbury ha anche vissuto. Vale la pena di ascoltarlo raccontare.
"Villa Hanbury si chiamava in origine Villa Orengo. Era della mia famiglia, originaria di Latte, che la vendette agli Hanbury nel 1867. Ancora oggi, all'interno della villa, ci sono incisioni, poi acquarellate dagli Hanbury, con su scritto Villa Orengo".
Com'era, al momento della vendita, la villa?
"C'erano soprattutto limoni, e poi agrumi e viti. C'era, come c'è ora, la pineta, coi pini d'Aleppo, ed essenze mediterranee svariate".
I fiori sono arrivati dopo.
"Sì, il progetto dell'orto botanico è di Thomas e anche di suo fratello Daniel, che era di mestiere farmacista, ma appassionato appunto di botanica".
Alla realizzazione del giardino partecipa in modo attivo anche il giardiniere e paesaggista tedesco Lodovico Winter, attivissimo alla fine del XIX secolo in Riviera.
"Più avanti - prosegue Orengo - cioè negli anni Cinquanta, la mia famiglia comprò una casa che era appartenuta proprio a Lodovico Winter. Siccome c'era molto da ristrutturare, molto carinamente gli Hanbury ci concessero un'abitazione dentro all'interno della loro villa, dove io stetti per un anno e mezzo".
E com'era, vivere nella villa Hanbury?
"Beh, era che uscivo di casa, prendevo la corriera e scendevo al liceo, a Ventimiglia. In villa c'erano ancora una quindicina di giardinieri - negli anni d'oro erano stati fino a 60 - e con loro si chiacchierava e imparava. Accanto ai fiori, le targhette in ottone, con il nome e la denominazione scientifica in latino. Ma la villa era molto altro. Per esempio c'era un campo da tennis, uno di quei court all'inglese, un po' délabré; e i calchi di gesso di Monte Bego, portati lì, chi sa come e perché, da Nino Lamboglia, l'archeologo che li aveva rilevati. E poi c'era una casetta con una finestra affacciandosi alla quale si poteva pescare in mare".
Ma quest'episodio c'è in "Miramare", il suo libro del 1975 che è anche il libro di Villa Hanbury.
"L'ho raccontato anche lì, è vero. Ma villa Hanbury c'è anche in un racconto di Mario Soldati, che nell'"Attore" arriva fino alla Mortola; e di Giuseppe Conte è l'"Elegia" scritta nei giardini di villa Hanbury, che mi piace molto".
Mortola, Frazione di Ventimiglia (IM): la Discesa dei Marinai costeggia la recinzione dei Giardini Hanbury |
Doveva essere un bel posto per andarci con le ragazze, anche.
"Beh, non tra i fiori, ma nella pineta sì, ci si andava. Così come, quando nei primi anni Sessanta la villa ebbe un momento di trascuratezza, si entrava in pineta dalla via Romana e ci si trovava fra ragazzi".
"Beh, non tra i fiori, ma nella pineta sì, ci si andava. Così come, quando nei primi anni Sessanta la villa ebbe un momento di trascuratezza, si entrava in pineta dalla via Romana e ci si trovava fra ragazzi".
Nico Orengo, qual è il fascino di villa Hanbury oggi?
"Il fascino è, per esempio, nella tomba di Daniel Hanbury, nella campana cinese che ancora si vede, nei camini, nei pavimenti. E poi, ma non c'è nemmeno bisogno di aggiungerlo, nell'infinita varietà dei fiori".
Giovanni Choukhadarian, La Villa Hanbury, quell'Eden di Riviera venduto a un lord, La Repubblica, 10 marzo 2007
"Il fascino è, per esempio, nella tomba di Daniel Hanbury, nella campana cinese che ancora si vede, nei camini, nei pavimenti. E poi, ma non c'è nemmeno bisogno di aggiungerlo, nell'infinita varietà dei fiori".
Giovanni Choukhadarian, La Villa Hanbury, quell'Eden di Riviera venduto a un lord, La Repubblica, 10 marzo 2007
[...] il tema del paesaggio percorre in filigrana tutta l’opera letteraria ed è al centro delle preoccupazioni dello scrittore [Nico Orengo]. Anche molti articoli giornalistici testimoniano il suo impegno civile in difesa del paesaggio. Senza dimenticare diverse altre iniziative, come la creazione nel 1993 del premio “Giardini Botanici Hanbury - La Mortola”, dedicato allo studio e alla salvaguardia del paesaggio, <10 che ha ideato in collaborazione con l’Università di Genova. Nelle intenzioni dello scrittore, il premio doveva «promuovere la cultura dei giardini, dei fiori e del paesaggio, segnalando testi di architettura, di botanica, di fotografia e testi di creatività dedicati allo spirito della natura, alla letteratura dei giardini, intesa anche in senso ideale, come metafora della vita». <11
In questo modo Orengo voleva dare un «segnale culturale» agli scrittori italiani che riteneva poco sensibili al paesaggio e agli «ambientalisti dimentichi dei valori estetici del paesaggio naturale». <12
[...] Come precisa nell’album di fotografie e ricordi "Terre blu", che ricostruisce quel periodo fondamentale per la sua formazione, la sua padronanza del lessico botanico risalirebbe all’assidua pratica dei Giardini Botanici Hanbury a Mortola, considerati quasi come un giardino di casa da Orengo che per un certo tempo abitò al loro interno:
"Il giardino degli inglesi è diventato, negli anni, un luogo di conoscenza: alberi portati dai quattro angoli del mondo, stagioni fiorite sempre. Un vocabolario botanico scritto, voce per voce, su targhette di piombo, da dove parlano voci dell’America del Sud, di quella del Nord, dell’Africa, dell’Australia, della Cina, del Giappone. Nomi “altri” che era una curiosità scoprire, di giorno in giorno, per confrontare la differenza con il basilico, il rosmarino, la borragine, il timo, la mortella (Tb, 10)".
In questo modo Orengo voleva dare un «segnale culturale» agli scrittori italiani che riteneva poco sensibili al paesaggio e agli «ambientalisti dimentichi dei valori estetici del paesaggio naturale». <12
[...] Come precisa nell’album di fotografie e ricordi "Terre blu", che ricostruisce quel periodo fondamentale per la sua formazione, la sua padronanza del lessico botanico risalirebbe all’assidua pratica dei Giardini Botanici Hanbury a Mortola, considerati quasi come un giardino di casa da Orengo che per un certo tempo abitò al loro interno:
"Il giardino degli inglesi è diventato, negli anni, un luogo di conoscenza: alberi portati dai quattro angoli del mondo, stagioni fiorite sempre. Un vocabolario botanico scritto, voce per voce, su targhette di piombo, da dove parlano voci dell’America del Sud, di quella del Nord, dell’Africa, dell’Australia, della Cina, del Giappone. Nomi “altri” che era una curiosità scoprire, di giorno in giorno, per confrontare la differenza con il basilico, il rosmarino, la borragine, il timo, la mortella (Tb, 10)".
[NOTE]
10 Il premio, che si svolge nel complesso da cui prende il nome, conosce diciotto edizioni e si interrompe nel 2008. Dal 2002 cambia nome in “Grinzane Giardini Botanici Hanbury”, diventando di fatto una diramazione del premio Grinzane Cavour, organizzato da Giuliano Soria. Il premio Hanbury inizialmente (nei primi due anni) prevede due sezioni e in seguito tre: «la prima premia il libro italiano o straniero di narrativa o di creatività nel quale prevalga in modo determinante il sentimento dell’ambiente e della natura; la seconda premia un libro italiano o straniero di botanica o architettura, dedicato alla “cultura” dei giardini e dei fiori, intesa anche in senso fotografico; la terza sezione intende premiare una personalità che si sia distinta nello studio dei giardini e dei fiori, o un volume o una tesi di laurea, dedicati alla storia del giardino e del paesaggio mediterraneo in Liguria e fuori», citiamo dal Regolamento del premio “Giardini Botanici Hanbury - La Mortola”.
11 Ibidem.
12 MARIO FAZIO, Villa Hanbury premia la cultura delle piante, in “La Stampa”, 22 settembre 1992, p. 43.
11 Ibidem.
12 MARIO FAZIO, Villa Hanbury premia la cultura delle piante, in “La Stampa”, 22 settembre 1992, p. 43.