Forano di fari la notte
Subiti, impietosi:
l’ombre de gli agresti riposi
sussultano, rotte.
Allibita, una casa sbianca:
un prato di fiori stupisce
di quell’alba che lo ferisce
violenta e subito manca.
Ma la foresta rifiuta
quei coni effimeri in fuga:
resta, nel chiaror che la fruga,
austera, impassibile, muta.
Francesco Pastonchi - Fonte: Wikipedia |
“Ahimè, l’uomo non mira che a’ sorrisi
dell’effimere cose e non s’avvede
quali maschere son, e quali sien visi.
“Fortunato, se gli persiste fede
per illudersi ancor dopo deluso
e non s’attende a più alta mercede!
“Ché un dono è la vita già per sé concluso,
dono di un Dio che a celebrarLo il canto
e a mirarLo ci diè faccia e non muso”.
Riva Ligure (IM) |
Le tre terzine, tratte da una poesia di Rime dell’amicizia (Mondadori 1943, ristampa del 1960) compendiano il rimettersi dell’artista a Dio ineffabile, irraggiungibile, al suo misterioso dono di vita. Con esso, la creatura tenterebbe invano di afferrare il segreto della creazione, di uguagliarla con le proprie composizioni. Con esse, egli deve contenersi celebrando il Creatore, contemplandolo, se non vuol seguire la caduta di Lucifero, nella vanità e nella disperazione.
Scolari e studenti cresciuti al tempo della ricostruzione sulle macerie di case, fabbriche, opere pubbliche, avevano modo, tra i conforti loro offerti dalle antologie, di attrezzarsi con i versi e le prose scelte di Francesco Pastonchi (1874 - 1953).
Il suo curriculum ci prende poco spazio. Nato in un paese [Riva Ligure] della Riviera vicino a Sanremo, da padre toscano e madre ligure, crebbe e si laureò a Torino. Nel 1902, aveva già pubblicato il volumetto di liriche Italiche, aveva collaborato a La Stampa e cominciava ad essere critico di poesia sul Corriere della Sera. Su questo giornale egli scriverà sino alla morte. Frattanto, vedono la luce altre raccolte di versi da lui perfezionati nel senso classico; reca in Italia e all’estero le sue dizioni, soprattutto letture dantesche; il suo unico romanzo Il violinista riscuote un buon successo; è nominato professore di lingua e letteratura italiana all’Università di Torino e membro dell’Accademia d’Italia; è autore di tre lavori teatrali.
[...] Pastonchi andò, da pensatore, sino all’estremo dell’orizzonte artistico. Non contentandosi dell’estetica, ne smontò le tecniche più raffinate non perdonando una certa perfezione di canto accorato o di cerebrale compiacimento, che annullavano il vero trascendente, negavano Dio. Raggiungimento da lui operato, nel tempo, essendo passato attraverso l’intellettualismo e l’ammirazione di maestri e colleghi alquanto agnostici o rivolti alla gnosi. Ci tornerò sopra tra breve, considerando il suo Ponti sul tempo del 1947.
Mi soffermo ancora sulla ricordata antologia della mia verde età, per rilevare, in articolo di terza pagina, un altro volto dell’uomo votato alla rettitudine. Egli allibisce quando, dal libraio, sente un tale che si lagna perché i volumi ordinati, sebbene li abbia urgentati, tardano ad arrivare. Il libraio crede di mettere in pace l’incredulo professore dicendogli che urgentare è entrato nell’“uso comune tra gente d’affari”. L’aneddoto serve a dare la stura a una requisitoria, dapprima, contro le spicce e brutte abbreviature, anche quelle che “non contraddicono alle regole della nostra lingua”, come è per i disastrati (i profughi dell’alluvione nel Polesine), e poi biasimando la moda di “scrivere come si parla”, eventualmente mettendosi al riparo della presunta lezione del verismo manzoniano.
“Ah! Don Alessandro, di quanto mal fu matre quella vostra preoccupazione linguistica! Non il vostro grande romanzo: il quale portava già in sé, prima di sciacquare i panni in Arno, una soluzione […] e apriva una nuova era al nostro linguaggio. Né certo I Promessi Sposi vennero scritti come si parla; anzi misurati, ritmati interiormente […] Ma non della vostra mirabile scioltezza […] voglio intrattenermi […] Altro mi preme, cioè rivolgermi a taluni scriventi d’oggi. Vedano essi quanto avviene in quella Francia che è stata sempre un poco loro maestra, ed è tuttora con un misto di americano; in quella Francia che, gelosa della sua letteratura […] e più quando sembra ribelle e arruffata al massimo, sotto sotto invece cura l’espressione, per decenza di scrittura […] Conoscere e usare correttamente la propria lingua è un dovere cittadino, un serbarsi fedele alla propria gente. Una lingua è una bandiera. Chi la rinuncia si sbanda, imbarbarisce. Non v’è scusa, politica o sociale, che l’assolva: tutte le ragioni capziose vadano alle forche. La lingua che mi fu data […] che nasce dal mio sentimento e dal mio intelletto armoniosamente accordati, non si può tradirla senza snaturare se stessi, rinnegare la propria origine, la propria stirpe, la propria famiglia […] Colui che, uomo d’affari, ostenta il suo praticismo con lo sbrigarsi velocemente anche nel parlare, si avvia a diventare non un europeo o un uomo di specie universale, ma semplicemente un paria della civiltà […] Finora tutti i tentativi di unicità sono rimasti senza seguito, perché una legge di vita, e non si abolisce, è la varietà. Anche una lingua rappresenta il tenace prodotto di un clima, di un Paese, e non si trapianta”.
Pastonchi ammette che sempre fu dato “il predominio della diffusione a una delle lingue formate, secondo la maggiore attività della sua gente. Così avvenne per l’italiano…” Ma ciò “non disturba il campo di ciascuna altra lingua, se anche le sciacqua ai bordi e infiltra qualche vocabolo. Apporti di che una lingua, riconiatili seguendo la propria indole, si arricchisce. L’arte (un linguaggio è un fatto artistico) le fa buona guardia”.
[...] Il poeta-professore frequenta i vertici della mondanità. A Ginevra si festeggia la chiusura stagionale delle sedute alla Società delle Nazioni. Dopo il ricevimento ufficiale, egli pranza con un coriaceo mercante di cannoni, con Lucienne, disincantata canzonettista parigina, e con l’oratore francese Briand. Annoiata dell’aria di Ginevra, ella dice: “Questa vostra Società delle Nazioni… quelle tromperie!… Un panache gris sur des affaires”. Naturalmente l’amabile Briand le dà torto. Rimasto solo con il mercante d’armi, che confessa di non avere patria (“Sono nato su un piroscafo. La mia patria è nel mare. La terra mi spaventa. O viverci pastore, sulla montagna, lontano da tutte le vostre capitali infette”) e ha giudicato “già una riuna il nuovo Palazzo della Società delle Nazioni”, Pastonchi gliene chiede il perché e se pensi “che tutto ciò non sia che una rappresentazione vana, un gioco, un’utopia”. È peggio: “Voi, poeta, credete alla favola della pace. Io non posso. Conosco troppe cose, il fosco retroscena di questa farsa. Qui si traffica per la preponderanza di due nazioni. Voi comprendete. Lucienne ha dato una definizione esatta: un panache gris sur des affaires. Presto non sarà più grigio ma insanguinato […] altro che la rovina di un palazzo. Una catastrofe…”
In strada, il conoscitore dei retroscena si è appoggiato alla casa di Calvino, e il suo compagno glielo fa notare. La risposta: “Io sono cattolico, per caso. Con queste belve d’uomini, come potrei avere una religione? Eppure il mondo ha bisogno di fede”.
Da allora Pastonchi lo perse di vista. Finché: “Ieri uno che tornava dalla Costa Azzurra, e fabbrica macchine da guerra, mi diede, tra le altre notizie, questa, che il famoso mercante di cannoni… era morto improvvisamente in un albergo di Montecarlo”.
Pastonchi ebbe una calda simpatia per Gozzano, recensì i suoi libri, rifiutò la classificazione del poeta nel crepuscolarismo, lo vide più volte lungo il tormentato cammino e all’inaridirsi della sua vena. I passi dedicati a quelle interviste, ai commoventi incontri, sono tra i migliori di Ponti sul tempo. Egli gli attribuisce “persistite malinconie con febbrili impeti di desideri (particolari alla specie della malattia) ma su tutto una vigilanza dell’intelletto, una visione delle cose così nitida da parere talvolta atroce […] per cui è verità il suo verso ‘sorrido e guardo vivere me stesso’. E che altro avrebbe potuto fare, poiché vivere come gli sarebbe piaciuto non poteva? La sua rassegnazione è di forza, con una conquistata saggezza che annulla le ribellioni. Il suo tempo non gli offriva idealità per cui, anche malato, combattere spiritualmente cercando di seguitarle. Nato nel 1883, era cresciuto in un’aura di praticismi rivolti alla creazione della ricchezza più quale possesso che quale strumento: nume il denaro, e, suoi templi pesanti, sovraccarichi di fastose architetture, le banche. Carducci respira ancora nella sua grandezza, ma ansando e invano crucciato delle deluse invocazioni a una nuova Italia […] Impera D’annunzio, il D’Annunzio edonista, della vita goduta […] Tutta la gioventù ne segue il barbaglio”.
[...] Tra le immagini poste al termine del ponte scavalcante il passato, innanzi all’imminente sconquasso della guerra è ritratto nientemeno che Churchill sulla terrazza d’un ristorante di Antibo (Antibes), prospiciente il lido balneare, “affacciata lì sopra come una tolda”. Pastonchi vi reca l’impressione della stele commemorativa d’una danzatrice quindicenne che saltavit et placuit (danzò e piacque). Egli viene dal museo in compagnia del “più amabile degli arciduchi russi”, che partecipò all’uccisione di Rasputin. Nella variopinta e discinta mondanità, i divi di Hollywood, i personaggi del gran mondo fanno una figura artificiosa e, in fondo, misera al cospetto dell’antica sponda mediterranea, segnata dalla classicità greco-latina. Solo Orazio, l’amico napoletano, che “si gode in quella schiuma esotica, e insieme scanzonato la morde”, mette una nota genuina in quel self-service cui partecipa il primo ministro inglese, e nella “banda” che, salita dalla spiaggia, “cerca vuole divertirsi, agganciata dalla noia”.
La tempesta bellica è trascorsa, “finito un mondo, e senza gloria, per sempre”; egli incontra per caso Orazio “spaesato peregrino”.
“Francesco mio, ti ricordi di Antibo? E la tua danzatrice, non l’hai più rivista?”
“Ma sì, la rivedo” egli dice e pensa. “Non s’è più partita da me. E finalmente ha ripreso a danzare […] Veramente avvertivo, senza definirlo, oltre le dure parole guerriere, un che d’aereo sorvolare le ruine e la strage. Veramente una speranza gentile resisteva, nell’ora truce, ricingendo di circoli ritmici la giovinezza lanciata a combattere. Ella era quest’aura: latino spirito solare, divina misura che superandoli accorda odio e amore. Ella è che ora io vedo sfiorare nei riposi col volubile piede la fronte del vinto”.
Piero Nicola, Francesco Pastonchi, Ricognizioni, 22 novembre 2012
Gariazzo Pier Antonio, Ritratto di Francesco Pastonchi, 1939 - Fonte: ANCA |
Francesco Pastonchi è stato l’animatore dei Lunedì Letterari del Casinò di Sanremo (IM), chiamato da Luigi de Santis, gestore illuminato, un'iniziativa che ha creato ed organizzato per oltre un decennio sino allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Nel marzo 1933 Pastonchi invitò ad esempio Paul Valéry a tenere una conferenza nel Giardino d’Inverno del Casinò di Sanremo.
Pastonchi è stato più volte anche il protagonista di alcune di queste iniziative culturali, come documenta una fotografia pubblicata sulla rivista del Casinò con questa didascalia: “ha appena terminato di commentare da par suo il XXXI° canto del Paradiso di Dante Alighieri e rivolge un ringraziamento al magnifico pubblico che ha seguito con ammirabile intelligenza il ciclo di conferenze che hanno avuto vastissima risonanza in Italia ed all’estero”.
Francesco Pastonchi, nativo di Riva Ligure (31 dicembre 1874), apparteneva ad una delle più antiche famiglie di Sanremo, dove frequentò il Liceo Cassini. Proseguì gli studi a Torino, iscritto alla Facoltà di Lettere, ma non si laureò mai.
Partecipò attivamente alla vita culturale torinese, frequentando la Società di Cultura e stringendo amicizia con famosi intellettuali del tempo, fra i quali spicca il più giovane Guido Gozzano.
Alfredo Moreschi
Taggia (IM): sulla facciata dell'edificio che ospitava la Locanda del Pino una targa ricorda le frequentazioni di Pastonchi |
[...] Al pescator, dopo la magra cena,
se troppo torva nube in ciel non cresca,
è dolce con sue nasse e con sua esca
andar vagando alla notte serena.
Ma più dolce tornar con rete piena
sul giorno; e, barattata la sua pesca,
dormire ai fiati della brezza fresca
nell' ombra di una barca in sull' arena.
Destato, erra pel lido; ad altri parla
della sua notte; spia l'onde inquiete,
il cielo ampio, la nuvola e la spuma.
Poi, finita la sua gioconda ciarla,
stende nel sole a rasciugar la rete;
e il mar canta per lui che guarda e fuma.
Da Liriche
Il Poeta coglie alcuni aspetti della vita del pescatore sia di sera, quando esce con le nasse o con le reti, sia di giorno quando, tornato dalla pesca, dorme, cullato dal vento, all'ombra di una barca e, desto, racconta ai vicini le vicende della notte o quando, poste ad asciugare le reti, se ne sta a guardare il mare il quale sembra intoni per lui la sua eterna canzone.
Poesia di Francesco Pastonchi - Il pescatore, Poesie, 12 maggio 2017
La tomba di Francesco Pastonchi presso il Santuario di Nostra Signora del Buon Consiglio a Riva Ligure (IM) |
[...] I versi di Pastonchi attraversano molte tendenze letterarie: parnassianesimo, estetismo, decadentismo. Ebbe larga fama ai suoi tempi, ma ebbe anche molti detrattori; forse le sue migliori poesie si trovano nelle ultime raccolte (I versetti e Endecasillabi), dove lo scrittore, ormai in età matura, non di rado si lascia andare ad una sincera malinconia e mette in risalto, oltre alla consapevolezza della propria solitudine, gli aspetti più semplici e nello stesso tempo più esaltanti della natura.
Opere poetiche
"Saffiche (1891-92)", Minetti, Chiabra & C., Savona 1892.
"Aurei distici", Vachieri, Sanremo 1895.
"La Giostra d'Amore e le Canzoni (1893-95)", Treves, Milano 1898.
"A mia madre. Tre canzoni", Zanichelli, Bologna 1900.
"Italiche", Streglio, Torino 1903.
"Belfonte. Sonetti", Streglio, Torino 1903.
"Sul limite dell'ombra", Streglio, Torino-Genova 1905.
"Il pilota dorme", Formiggini, Genova 1913.
"Il randagio. Poema", Mondadori, Roma 1921.
"Italiche. Nuove poesie", Mondadori, Roma-Milano 1923.
"I versetti", Mondadori, Milano 1931.
"Rime dell'amicizia", Mondadori, Milano 1943.
"Endecasillabi", Mondadori, Milano 1949.
Presenze in antologie
"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 320-322).
"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (p. 1289).
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 431-432).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 248-252).
"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 99-107).
"La lirica moderna", a cura di Francesco Pedrina, Trevisini, Milano 1951 (pp. 464-472).
"Un secolo di poesia", a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957 (pp. 152-159).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 255-266).
"Poeti italiani del XX secolo", a cura di Alberto Frattini e Pasquale Tuscano, La Scuola, Brescia 1974 (pp. 90-98).
"Poesia italiana 1224-1961. Un'Antologia", a cura di Antonio Carlo Ponti, Guerra, Perugia 1996 (p. 186).
"Torino Art Nouveau e Crepuscolare", a cura di Roberto Rossi Precerutti, Crocetti, Milano 2006 (pp. 60-61).
"Poeti per Torino", a cura di Roberto Rossi Precerutti, Viennepierre, Milano 2008 (p. 57).
[...]
IL PINO
Solo al ciglio dell'abisso,
tra le folgori e lo sfacelo,
arretri il livido cielo:
stai come crocefisso.
Apri le rigide rame
come palchi di candelabri,
coi ciuffi degli aghi scabri
aderti da l'arse squame:
di una realtà così espressa,
di una forma così descritta,
che l'anima ne è trafitta
nel suo profondo, e ossessa.
O spirito del solo, avverso
al mondo, e contra te crudo,
resta desolato e ignudo,
escluso dall'universo!
(Da "I versetti", 1931)
LA MIA STELLA
Gli altri bimbi solo essi eran bimbi:
Io no. Io ero un bimbo che guardava
vivere gli altri, capitato a caso
tra gli altri sulla terra: certo un bimbo
caduto da una stella, ecco. E la notte
scivolavo dal letto per cercarla
di là dai vetri, al buio, la mia stella.
(Da "Endecasillabi", 1949)
Leonardo Bizzarri, Poeti dimenticati: Francesco Pastonchi, I libri de la stanza ascosa, 18 maggio 2016