domenica 28 marzo 2021

Il mio capitano è all'orto reggimentale a vigilare amorosamente i suoi conigli


Superando perplessità e titubanze di vario genere, mi dedico a pubblicare le prime pagine del mio diario di prigionia, che narrano le ingloriose vicende della mia cattura e si chiudono colla partenza di uno dei tanti convogli di deportati, che nel settembre 1943 portarono in terra tedesca centinaia e centinaia di migliaia di soldati italiani.
Pubblico queste pagine nella loro originaria stesura, così come le scrissi a brevissima distanza dai fatti, in una gelida baracca dello Stalag 327 N di Przemysl (Polonia). Nessuna aggiunta, nessuna variazione retrospettiva, nessun orpello retorico e, soprattutto, nessuno sforzo di fantasia; nuda cronaca di fatti, sincera esposizione di stati d'animo. Le pubblico, perchè l'esperienza di questi pochi mesi seguiti al mio ritorno dalla terra d'esilio, mi ha persuaso che sulle origini di quelle vicende ancor non si è fatta la luce e che molte, troppe cose, si ignorano o si finge di ignorare, mentre assai opportuno sarebbe conoscerle e non dimenticarle.
Di qui - credo - un certo valore documentario di questa cronaca, che, se pur si riferisce alle particolari vicende dei diecimila del S. Bernardo, ha però sostanzialmente una più larga portata, in quanto identici ovunque erano gli stati d'animo delle truppe e non molto dissimile fu in molte altre parti d'Italia lo svolgersi degli avvenimenti in quei tragici giorni: avvenimenti in merito ai quali non sarebbe eccessiva pretesa voler conoscere la verità.
Per questa sola ragione mi induco alla pubblicazione di queste pagine, cui non seguirà per alcun motivo la narrazione del successivo periodo dei venti mesi trascorsi ta i reticolati dei campi di concentramento. La vita dei campi é già stata descritta da molti compagni di sventura e chissà quanti ancora ne scriveranno, con penne ben più colorite ed efficaci della mia: inutile quindi una mia cronaca in proposito, che, essendo necessariamente imperniata intorno alle mie attività di prigionia, si risolverebbe, pubblicata, in un esibizionismo, che non è di mio gusto.
p. 15, 16

L'OTTO SETTEMBRE
Sono le sette di sera. Intento a scrivere, mi sono trattenuto nell'ufficio di batteria, nella vecchia caserma Garibaldi di Albenga, ove presto servizio come sottocomandante di batteria. Il mio capitano è all'orto reggimentale a vigilare amorosamente i suoi conigli; i colleghi subalterni se ne sono andati da un pò, approfittando della libera uscita che da pochissimi giorni il Comando di presidio ha consentito agli ufficiali e alla truppa dopo oltre un mese di snervante segregazione in caserma per le esigenze di un servizio d'ordine pubblico tanto gonfiato quanto inutile in un centro tranquillo come questa operosa cittadina: è cessato il via-vai degli addetti di fureria e delle scartoffie da firmare, è terminata parimenti la processione dei soldati aspiranti al rilascio di un permesso o alla sostituzione di un capo di vestiario fuori uso: è così finalmente possibile isolarsi dall'ambiente, raccogliersi in se stessi, pensare e lavorare. Ed io penso e lavoro.
p. 21

La mattina seguente giungo assai presto in caserma. Il mio maggiore è già nel cortile e forma circolo con varii ufficiali: non è difficile indovinare l'argomento delle loro conversazioni. Li trovo ottimisti, però, e, conoscendo il loro  temperamento, non me ne meraviglio, anche se neppure a mente calma mi riesce di persuadermi della bontà degli argomenti che espongono a sostegno della loro convinzione: la Germania è finita, da un'ora all'altra vedremo sbarcare gli inglesi...
Soltanto il maggiore, tra tutti, si mostra guardingo nelle sue previsioni e non si nasconde il pericolo di possibili complicazioni. Ma un collega malignamente insinua dietro alle sue spalle: «Già, lui è scontento perchè la pacchia è finita, per lui: voglio vedere che cosa andrà a fare, ora che sarà congedato!» Malignità stupida, e senza fondamento nella realtà, chè il maggiore, grande mutilato della guerra 1915-18 («a gamba elettrica», lo hanno battezzato i soldati), è perfettamente idoneo a proficuo lavoro anche nella vita civile; malignità sforzata, anche, perchè, pur conoscendo certe sue debolezze, in fondo tutti gli vogliamo bene; ma essa è una sorta di necessità per il collega che la formula, che non sa rendersi conto che gli altri possano prospettarsi panorami meno rosei di quelli che si profilano ai suoi occhi.
La tromba suona intanto la consueta adunata mattutina della truppa. Mentre i soldati convengono nel cortile con il solito pittoresco disordine, il maggiore mi informa che la sera prima, quando la notizia è stata definitivamente confermata, i soldati si sono abbandonati, in caserma, ad esuberanti manifestazioni di entusiasmo: grida, canti scomposti, abbondanti libagioni, sbornie, che hanno costretto il maggiore ad intervenire personalmente, mandando i più scalmanati ad assaporare il tavolaccio della camera di punizione. Mi invita pertanto a rivolgere alcune parole alla truppa adunata, per ammonirla della gravità e della tristezza della situazione e dell'inopportunità di rumorose esibizioni di un giubilo tanto ingiustfiicato.
Questo dei discorsi alla truppa è un incarico speciale che il maggiore sempre mi ha dato, in omaggio alla mia professione civile
p. 31, 32

Nuove voci, nuovi particolari, raccogliamo invece a mezzogiorno in città; ma sono voci confuse e le notizie contraddittorie abbondano, sicchè non è possibile formarsi un'idea precisa. Una telefonata con Genova mi dà conferma degli avvenimenti di là, ma mi fa sapere anche che l'ordine è ormai ristabilito; ne è riprova il regolare funzionamento del servizio interurbano, che però si arresta a Genova. Continuano, a mensa, le discussioni e le congetture, quando una telefonata ci richiama di grande urgenza in caserma.
Sono giunti, dunque, gli attesi ordini del superiore Comando. Tutte le truppe del presidio debbono lasciare Albenga e trasferirsi con marce forzate, a piedi, nella zona di Mondovì; deve rinnovarsi l'equipaggiamento dei soldati effettuando «prelevamenti massicci» nei magazzini. La partenza è fissata per le 18; non c'è tempo da perdere.
Non c'è tempo da perdere, chè vestire «ex novo» circa 300 uomini in condizioni di equipaggiamenti disastrose, rifornirli di armi e munizioni (dove le prenderemo?), organizzare il loro vettovagliamento per una marcia di una settimana, effettuare lo sgombero degli uffici, chiudendo in casse i registri e i documenti più importanti ed imbarcandoli sugli automezzi e sulle carrette, smontare e caricare le cucine, preparare i bagagli, predisporre insomma tutto quanto necessario per il trasferimento in blocco del deposito, non sono cose tanto facilmente fattibili nel breve giro di quattro ore
p. 36

Roberto Lucifredi, Rottami, Istituto Storico della Resistenza - Imperia, Edizioni Cav. A. Dominici - Oneglia - Imperia 1982