lunedì 25 agosto 2025

Me mangereva una feta de pisciadela


Parlando della "belotta" non intendo parlare di una partita a carte ma di una trasmissione di Radio Ponente che negli anni 70 cambiò le abitudini dei ventimigliesi e li rese più partecipi alla vita pubblica obbligando quindi anche gli amministratori di allora ad essere attenti alle necessità dei cittadini.
In poche parole era l'antesignano di quello che poi sarebbero diventati i social network con i vari facebook, twitter e blog.
Nata - mi pare - da un'idea di Luigino Maccario, che era quella di riunire attorno al tavolo di un bar immaginario un gruppo di giocatori di carte (la scelta fu per la belotta poiché era e credo sia ancora molto popolare nella nostra zona), che giocando discutessero dei problemi della città bonariamente proprio come si fa all'osteria.
Fin dalla prima trasmissione - mi pare che andasse in onda il mercoledì - l'ascolto fu altissimo e le telefonate piovvero come in un temporale estivo: la voce si sparse e da allora l'ascolto crebbe di volta in volta anche perché Radio Ponente aveva portato a Ventimiglia un grande interesse essendo una delle prime radio private (allora si chiamavano radio libere) italiane e l'unica che avesse un palinsesto comprendente tanta musica ma anche cultura, informazione, tradizioni e contatti con gli ascoltatori in diretta.
Perché piaceva così "La belotta"? 
Reputo che si sarebbe potuto farne uno studio sociologico ma che le motivazioni avrebbero potuto essere queste: perchè diceva quello che i cittadini avrebbero voluto dire e quindi era portavoce dell'opinione pubblica (capitava spesso che i protagonisti della trasmissione venissero contattati per strada e informati sui problemi da trattare dai ventimigliesi); perché lo diceva in modo semplice, in dialetto, e trasformava gli ascoltatori in protagonisti che si immedesimavano nei vari personaggi; perché i giocatori di belotta rappresentavano le varie tipologie della popolazione intemelia di allora - infatti oltre ai popolani un po' bonari ma sagaci c'era il villeggiante industrialotto milanese un po' bauscia, un po' blasè e l'immigrato, che per farsi vedere integrato si esprimeva in un dialetto "ligurese" come diceva lui molto improbabile ma di grande impatto - qualche esempio: il tram era "a currera cu e bretelle", il motorino "a bricichetta a fogu", il posto di lavoro Juan les Pins diventava Giovanni Lu Pino e così via -).
Ma penso che il successo maggiore del programma fosse dovuto proprio al fatto che nasceva in diretta. Non esisteva un copione, ma solo l'indicazione di una serie di argomenti da trattare e poi via, come nella commedia dell'arte il dialogo partiva: non c'era regia, non c'erano sovrapposizioni di voci come nei talk show d'oggi e chi voleva parlare alzava la mano (questo naturalmente l'ascoltatore non lo sapeva) e lasciava finire il discorso del giocatore precedente.
Tale era la partecipazione che bastava che un partecipante dicesse "Me mangereva una feta de pisciadela" che dopo pochi minuti arrivava una vera pisciadella offerta dagli ascoltatori e così per il vino o altre cibarie.
Ritengo che quel tempo sia ormai irreplicabile, ma devo dire che Radio Ponente è stata una delle più belle esperienze della mia vita!
Gianfranco Raimondo, Ai tempi della belotta, Ventimiglia d'antan... il gruppo, 6 agosto 2025 

domenica 17 agosto 2025

La prigionia di guerra di un ventimigliese che non doveva neppure partire

Ventimiglia (IM): uno scorcio di Località Ville e, a sinistra, della Frazione Latte

Aldo [n.d.r.: Aldo Viale, padre dell'autore, residente in Località Ville di Ventimiglia] e Giosino come altre migliaia di soldati italiani erano prigionieri in tempo di pace, che la guerra mondiale era finita dappertutto. Era una situazione triste, anomala, non prevedibile nelle possibilità della vita.
Aldo sperava di tornare a casa presto, aspettava una nave che andasse a prenderlo. A raccontarla tutta, dalla lettera di Aldo del 29 aprile 1943 si può dedurre che l'ordine di rimpatrio per esonero in quanto titolare di impresa agricola, era arrivato in Tunisia, quando era troppo tardi e ormai era il momento della resa e dei campi di una lunga prigionia. Scrive infatti alla mamma ed alla sorella:
"Carissime, È l'ultima volta che vi scrivo dal suolo africano. Vi avevo già scritto stamane ma non ero ancora a conoscenza di nulla. Nel pomeriggio è arrivato l'ordine del mio rimpatrio. È venuto il tenente ad annunciarmi questa nuova. Forse questo è il più bel giorno della mia vita. La salute è ottima e il morale è veramente altissimo. Non so i giorni che dovrò stare ancora in giro perché domattina vado al comando Btg. e domani sera sono sicuramente a Tunisi. Appena sarò sul suolo siciliano vi scriverò nuovamente speriamo che il viaggio mi vada bene come mi è sempre andata finora. Forse dovrò rimanere un paio di settimane al campo sosta per vedere se ho malattie africane ma ciò si fa nei pressi di Palermo. Appena toccherò il suolo italiano lo bacerò sicuramente. State alte di morale non datevi pensiero per me che presto vi abbraccerò entrambe. Molte cose vi dirò e vi giuro che, se non ho oltrepassato Roma non assaggio brodo d'uva per avere la testa calma perché quella zona è un po' infetta da zanzare. Saluti infiniti a tutti e voi due un milione di caldi baci vostro per sempre, Aldo 20-04-43"
Un timbro informa: "Lettera verificata per censura." 
Aldo in quei frangenti ha quasi 32 anni. Il rimpatrio non avviene. Non c'erano più navi che da Tunisi portassero almeno a Pantelleria. Erano solo 35 miglia. Si vedevano scene di gruppi di militari, tanti tedeschi e pochi italiani, che costruivano zattere di fortuna con bidoni da benzina vuoti. Appena prendevano il mare venivano mitragliati e affondati. Era il contrasto tra il coraggio e la disperazione.
Il foglio matricola di Aldo attesta l'inizio della prigionia in data 11 maggio 1943 nel fatto d'arme di Kelibia. 
Il 30 dicembre 1943 mamma Lilla scrive sul suo diario: "oggi abbiamo ricevuto due tue lettere, però non abbiamo ancora il tuo indirizzo. Sono state scritte in data 27 giugno 1943 e sopra vi è il timbro di New York, abbiamo idea che tu sia laggiù."
Ma si tratta di un'idea errata perché la posta dei prigionieri di guerra faceva giri lunghi e strani grazie alla Croce Rossa e al Vaticano, e Aldo era in realtà a Marrakech.
[...] La nave per portare Aldo e quelli come lui da Casablanca (porto vicino a Marrakech) a Napoli arrivò a fine aprile 46, un anno dopo la fine della guerra.  Il cinegiornale della Settimana Incom del 27 luglio 1946 per uno dei tanti viaggi racconta: "Casablanca, lo storico molo che vide il primo sbarco alleato. Giungono dall'Africa settentrionale i reduci italiani. Sfilano sotto gli occhi delle sentinelle di colore che sono le ultime tristezze di una guerra non voluta a cui hanno dovuto dare lacrime e sangue, anni della loro giovinezza. Salgono lo scalandrone che li porta sulla nave italiana primo lembo del suolo patrio venuto incontro a loro sulle soglie del deserto. Ancora lì cuoce il suolo africano ma tra poco saranno le brezze marine a ventilarli con l'odore della salsedine che sarà come il profumo della libertà ritrovata. Sanno che la patria li aspetta, è povera, è stremata ma per loro è una madre ed essi tornano a dare una mano per ricostruirla. Ciò che hanno sofferto non li ha fiaccati. Sono pronti ad offrire nuovamente all'Italia il loro braccio di uomini liberi. Evviva l'Italia."
Ma i soldati che tornano dalla guerra corta e dalla prigionia successiva che è stata lunghissima, sono stati amanti del silenzio.
[...] Aldo, dimesso dal centro alloggio di Afragola, è fiaccato dalla malaria ma almeno non deve più rassicurare la famiglia nelle sue lettere. Sul treno per Ventimiglia viene avvicinato da una donna e i soldi che gli hanno appena dato non li trova più. 
Arturo Viale, I sette mari. Storie e scie di navi e di naviganti e qualche isola, Book Sprint Edizioni, 2024 

venerdì 8 agosto 2025

La città è una delle tante della riviera dei fiori


Bordighera (IM): scogli di Sant'Ampelio con vista sino a Capo Verde di Sanremo


Oggi professorini e scrittoruncoli di Cloche Merie vogliono "fare l'avanguardia....." Ciò è ridicolo, e so cosa ne avrebbero pensato gli amici Tzara, Severini, Spazzapan.....
Paolo del Monte viveva scatenato e libero, nuovo ogni istante, gioia e disperazione erano il suo "double" crudele da cui non poteva uscire anche se gli riusciva di uscire da qualche rischiato suicidio, e la vita molteplice nei suoi fenomeni terrestri e infiniti lo riprendeva. Paolo detto Cocco non "voleva" scrivere, a volte in una vita disancorata e indifesa, doveva scrivere, non ne poteva fare a meno.
Le poesie sono bagliori, lampi incisi, densi e luminosi in ritmi scanditi e sicuri.
Potevamo pensare che avesse difficoltà a comporsi in prosa, in questo lungo racconto, si decompone e compone all'orlo di una catastrofe mai dichiarata ma sempre latente e resiste, si svincola e inventa un suo ritmo (che nasce dalla poesia) che gli offre ogni realtà mai integrata alla idiota società del consumo con la sua automazione tecnologica. L'equivoco più volgare, di basso colturismo nazionalautarchico è di confondere tra tecnica (necessaria alla sopravvivenza) e le scienze e la scienza dell'uomo. Già da anni scriviamo che la tecnica che si mangia la scienza dell'uomo e la causa d'ogni crisi e potrà segnare l'inizio d'ogni rovina, e il nuovo "double" infimo attuale dell'uomo "robot-scimmia". Paolo del Monte perfettamente consapevole di questa atroce dissociazione, nonostante tutto cerca vuole e a volte trova la vita, sia che immagini in fantasia terre lontane note ed ignote, sia che nelle blandizie della costa, trovi ogni stato d'animo possibile e impossibile, la sua pagina è ricca e intensa dove l'azione s'intreccia con gli stati d'animo vissuti sempre sino all'orlo di una catastrofe cosmica. Ora che tra noi e Paolo del Monte è tempo morto, Cocco ci raggiunge con le sue poesie con il suo Petite fleur, è vivo e sorridente, raffinato e incredulo verso ogni cretineria di vario colore, ma sempre oltre il bene e il male incerto, convinto che all'uomo occorra libertà integra e totale, ci raggiunge con la sublimazione e supremo-estremo riscatto in arte delle sue alienazioni, che sono poi quelle di un'epoca. Il gioco può sembrare "facile" ai pedanti lette rati italioti, ma Paolo del Monte conosce invece meglio di tanti pompieri della letteratura o delle pseudoavanguardie di paese e provinciali, non solo la vita aperta e misteriosa, ma anche la storiografia scientifica dell'epoca nostra di falliti girabulloni e ominidi.                                  Guido Seborga, In memoria di Paolo Del Monte, Bordighera - Settembre 1974, articolo ripubblicato in Paolo del Monte alias Cocco, Petite fleur, estate che brucia (Racconto Sperimentale), Unione Culturale Democratica, Bordighera, novembre 2020, pp. 7,8

Bordighera (IM): Porta Sottana

La città [Bordighera] è una delle tante della riviera dei fiori, dall'aspetto un po' coloniale. Tolto il piccolo vecchio paese medioevale, il resto ha un aspetto di provvisorio ed artificiale: hotel, pensioni, affittacamere sono le attività principali della gente del posto. Eppure era nata bene questa città, fondata dagli inglesi: piccole ville in stile provenzale sommerse dal verde lussureggiante; "la città delle palme", era. Poi, gli inglesi vinsero la guerra e la sterlina perse valore. I lord e gli ammiragli in pensione divennero rari. Gli italiani, nella ricostruzione, in un delirio di cemento armato hanno smembrato i giardini, demolito le ville erigendo palazzi, alveari inumani. Ora per vedere il mare bisogna andare sulla battigia, le palme, se continua così, andremo al museo per vederle, e saranno di plastica. Per fortuna c'è la crisi edilizia, altrimenti si arrivava ai grattacieli sul lungomare. In compenso c'è il turismo di massa, una folla vociante, dialettale, provinciale e villana, rompe l'incanto dei lunghi silenzi notturni. Gli eroi del sabato sera e della domenica si sentono tutti corridori automobilistici. Il sangue ogni tanto sporca l'asfalto. Turisti, il salumiere di Pavia, la ragazza squillo di Biella, il tranviere di Milano e l'impiegato alla Fiat di Torino. Folla, folla anonima, uguale nei gesti, nel dire o tacere, visi smunti aggemellati dal lavoro a catena, robot rincretiniti dalla civiltà dei consumi, la propaganda dei prodotti di ogni genereli assorderà, accompagnandoli per tutta la vita. Vado sul lungomare in un tranquillo bar all'aperto, mi sdraio sulle apposite sedie, il mare mosso manda pulviscolo salmastro che la brezza diffonde nell'aria, le cactee hanno un brivido di carni verdi, l'ansimare profondo del mare mi culla come morbida nenia. Mi crogiolo al sole. Oh il sole! Lo porto nell'anima, mi entra nelle vene, sono un figlio del Sole. I miei pazzi antenati vennero dall'oriente solatio, dai deserti roventi. Poi un lungo vagare, cittadini del mondo per disperazione, dalla Spagna cacciati dalla cattolicissima Isabella siamo approdati qui, in questa povera Italia tollerante.
Passa il letterato Guido che saluta con un cenno della mano, incede con lunghi passi, è sulla pista di una femmina; come segugio segue la preda. Anche lui, è un sefardita dal profilo sumerico, ci vuole poco, per immaginarlo vestito in un certo modo, con una scimitarra al fianco: anche lui è un figlio del Sole. Sul mare di cobalto, lontano passa una nave bianca, bianchissima, miraggio pare, di moschea smagliante. Petite fleur, suona il sax del vecchio Sidney Bechet, è il disco nuovo dell'estate. Non ho niente da fare e sono contento di non fare niente, malgrado tutto sono innamorato della vita che mi sono costruito. Bevo un Bacardi, bianco rum di Martinica, che ricordo con tenerezza quasi dolorosa, laggiù, lontana come un sogno; Martinica, amore bruciante di Margot dalla pelle di vellutato ebano, laggiù, nel caraibico ombelico dell'America. Passa l'uomo delle ostriche, lo fermo. Questo vecchio pescatore dal viso scolpito dalle intemperie, il suo secchio di legno con le ostriche, il modo di staccare il mollusco con un coltello e porgerlo innaffiato di limone esercita nel mio intimo un fascino strano, tant'è, che rapito da questa visione mangio trenta delle sue ostriche piuttosto care. Tutto è avvenuto in silenzio come in un rito arcaico e civilissimo. Pago, e ci salutiamo con un cenno del capo. Guardo le azzurre alpi marittime, Nizza, Cannes, S. Tropez, vi tornerò, quando l'estate sarà bruciata. Petite fleur, ripete il disco nel sole abbacinante, chiudo gli occhi, quasi dormo, pervaso da un caldo e benefico torpore. Avverto ciò che mi circonda come cose lontane: sono un'isola beata; se Dio creò il sole è un Dio grande. Il bar è raggiunto da una comitiva di turisti tedeschi, braghe di cuoio, cappelli tirolesi. Questi tarchiati bavaresi vocianti sono sguaiati, e ridono, non per un motivo preciso, ridono per ridere, sì, ridono per niente o per colmo di imbecillità. Qualcuno mi ha detto che è il clima di qui che li fa uscire di senno i teutoni; mah, io so che o come truppa o come turisti, siamo sempre invasi. Sputo un'imprecazione tipicamente ligure, mi alzo, accendo la pipa e passeggio fendendo la folla. Mi siedo su di una panchina, arrivano due giovinastri con una radiolina a tutto volume; è inutile, la pace è avvilita; forse, sulla terrazza del Kursaal... No, è troppo presto; cammino, raggiungo il bar della Posta, entro; uffa, c'è la televisione! un tipo dal video sbraita non so cosa, l'unica è andare nel cesso a leggere il giornale.

Paolo del Monte alias Cocco, Petite fleur, estate che brucia (Racconto Sperimentale), Unione Culturale Democratica, Bordighera, novembre 2020, pp. 14-17

Bordighera (IM): una bella costruzione che chiude lato mare Piazza Mazzini; sulla sinistra, seminascosto, il citato Caffé della Posta

Il Ferragosto è esploso in un fragore di fuochi artificiali. Belli quest'anno, i fuochi artificiali, un milione andato in fumo, è la specialità dei paesi poveri, in Egitto ne fanno dei magnifici.
Scende languida la sera, in noi è la smania di vivere, di bruciare le tappe; domani può essere tardi. Domani mattina ci si sveglia con un regime di colonnelli, ciò non è improbabile; io lo sten lo tengo oliato, non si sa mai...
Incontriamo il pittore Pit con la sua donna di turno e...
- Ciao bastardo.
- Uh, la mia vecchia troia!
- Andiamo in Francia a prendere l'aperitivo? - Propongo io.
- Sì sì.
- In Francia in Francia! - Gridano le ragazze. Si parte per Menton al canto della marsigliese; è la presa della pastiglia! Di simpamina.
Menton è festaiola, è la Francia eternamente giovane, ed è bella la nuova generazione con i capelli lunghi e le facce da "me ne frego". È l'ora dell'aperitivo che tutti bevono. E' il pastis alla menta, alla granatina, o puro con una goccia d'acqua gelida. Colori morbidi di pastello, è la Francia dei francesi e di tutti gli altri, che non sono "stranieri" perché nessuno glielo ricorda, è un non so che, che mi entra nell'animo, una sensazione esilarante, un qualche cosa di invisibile e di palpabile nello stesso tempo, è una civiltà di cui mi sento partecipe. Qui, nessuno è escluso.
Entriamo per finire al Bar Golfo di Napoli. Ci uniamo al gruppo di gente che beve aperitivi col gomito sul banco e intavoliamo una discussione che pare serissima [...]

Paolo del Monte alias Cocco, Petite fleur, estate che brucia (Racconto Sperimentale), Unione Culturale Democratica, Bordighera, novembre 2020, pp. 47,48

Bordighera (IM): Ville che si affacciano sulla Via Romana

Bordighera (IM): Villa e Torre sulla collina Mostaccini

Bordighera (IM): uno scorcio del Lungomare Argentina

Il numero 1 dei Quaderni dell'Unione Culturale Democratica, pubblicato nel Febbraio del 1974, è dedicato alle intense "Poesie" di Paolo Del Monte a meno di un anno dalla sua morte, avvenuta nell'Ospedale ancora ubicato sulla via Romana di Bordighera. Il secondo quaderno, avrebbe dovuto contenere il suo racconto "Petite fleur, estate che brucia" con la prefazione che Guido Seborga aveva appositamente scritto. Cosa che purtroppo non fu possibile realizzare. Trascorsi quattro decenni e più, ora finalmente col Quaderno numero quattro viene dato alle stampe quel racconto la cui pubblicazione vuole essere un riconoscimento postumo delle qualità di Paolo Del Monte che, nella sua breve vita 'bruciata', nessuno aveva sospettato. Ma anche un 'reperto' di una Bordighera d'un tempo che sorprenderà i lettori per 'freschezza' e per attualità. A Bordighera, Paolo era un personaggio che non passava inosservato. Di corporatura esile, mobilissimo, 'naturalmente' elegante, lo si poteva incontrare in giro per la città o al banco di uno dei bar che era solito frequentare. Abitava stanze in affitto che ogni tanto cambiava ben pochi mezzi, non era molto considerato dai benpensanti che lo ritenevano un perdigiorno. Frequentava alcuni pittori, in particolare Enzo Maiolino cui si rivolgeva per ogni necessità e Gian Antonio Porcheddu col quale condivideva la passione per il jazz; era amico di scrittori e poeti, di Guido Seborga che più di tutti lo aveva capito e apprezzava la sua autenticità estemporanea; partecipava alle iniziative culturali cittadine, abitualmente a quelle della 'Buca', amico dei giovani dell'UCD di cui era socio. Con i suoi comportamenti, le sue ironiche osservazioni, le sue fantasiose 'invenzioni' divertiva chi anche occasionalmente lo frequentava e lui stesso era spesso l'argomento di conversazioni bonarie e allegre. Forse nessuno aveva capito la sua intelligenza, la complessità della sua esistenza, la sua visione tragica della vita che cercava di controllare con le 'sregolatezze' che conduceva e con la scrittura, come poi si è saputo. La sua improvvisa, prematura scomparsa a soli 41 anni, 'impoverì' dolorosamente il "paesaggio umano" di cui Paolo era parte. E coincise, anche se non la determinò, con la fine della fase più formativa di quei giovani che avevano dato vita all'Unione Culturale Democratica. Giorgio Loreti in Paolo del Monte alias Cocco, Petite fleur, estate che brucia (Racconto Sperimentale), Unione Culturale Democratica, Bordighera, novembre 2020, pp. 65,66

Borghetto San Nicolò e Sasso, Frazioni di Bordighera (IM)
 
Uno scorcio di Sasso, Frazione di Bordighera (IM)

Bordighera (IM): un esercizio turistico sul lungomare

Sulla costa la vita eterogenea con l'incrociarsi di non poche civiltà, a Bordighera il segno lasciato dagli inglesi, quando occupavano dopo l'altra guerra, quasi tutte le più eleganti ville di qui, e sentore di Francia vicina, e cadenze liguri dappertutto, di un popolo duro e rugoso, di poche parole che trasforma la sua proverbiale avarizia in economia pubblica e privata.
 
Ventimiglia (IM): le Rocche di Roverino, affacciate sulla Val Roia

Strati di turisti che si sono come innestati nella zona per desiderio di viverci, da una certa agiatezza tipo zucchero filato di San Remo, mecca di giocatori e mantenute, all'asprezza di Ventimiglia con la sua ampia valle della Roja, aperta d'aria e di sole.
Bordighera al centro, più dolce e silenziosa, le giornate attive nei lavori e nei bagni, le serate più lunghe e monotone, e il pubblico estivo di bordigotti e turisti che si riversa sullo splendido lungomare.
E sempre le valli e gli incantevoli paeselli del retroterra, Sasso, Vallebona, Dolceacqua, con le loro alte antiche torri di dove i liguri studiavano le mosse d'arrivo dei pirati saraceni, e i liguri partivano per scambiare le crudeli visite di vino e donne violate e rubate...
Guido Seborga, Riviera di Ponente, Il Lavoro Nuovo, 19 agosto 1951