domenica 12 maggio 2024

Salivo un pomeriggio ad Apricale

Apricale (IM): una vista sui dintorni di Perinaldo

Isolabona (IM) vista da Apricale

Posso confidare, a chi ascolta, la via che sale ad Apricale. Il viandante che abbia raggiunto l’estrema Liguria di occidente, e sia alla stazione di Bordighera o sul lungomare di Ventimiglia, esplori la costa alla ricerca della foce del Nervia; da lì risalga a monte verso l’autostrada sospesa in cielo. Dopo aver superato i piloni, la via prosegue per Camporosso: sfiora un benzinaio e un centro polivalente, aggira il cuore antico di caruggi, accosta un cimitero fra le serre. Ecco le immagini si legano in forma di racconto. Prosegue la strada sino a Dolceacqua dei vigneti, ancora costeggia il torrente Nervia e nel serpeggiare dell’asfalto compaiono ruderi, un antico sistema di canali per l’acqua, uno scheletro in cemento armato. Al di là della curva emerge lontana Isolabona dal castello diroccato. Dopo il bar all’angolo c’è un ponte sul torrente: il viandante lo oltrepassa e prosegue verso Apricale. Intendo il racconto, dai canti epici alle guide turistiche, come una composizione pratica di riferimenti e informazioni, un prontuario per orientarsi e agire in un mondo.
Salivo un pomeriggio ad Apricale. Il paese era in rilievo contro il cielo, le case arroccate si stringevano accerchiate dal verde delle colline. Le persiane erano occhi, pareva che Apricale si voltasse stanco come una vecchia bestia accigliata. Una viaggiatrice è discesa da una Mini rossa, ha scattato una foto all’animale stanco, è rimontata in macchina arricchita di belle parvenze.  Accanto a me gli ulivi alzavano rami spogli come scheletri slavati, o braccia scarne d’argento coronate da edera soffocante. Erano ancora vivi, perché dal tronco emergevano ramoscelli e foglie. Lungo il ciglio si accumulavano tegole rotte, una lattina di Fanta bianca stinta dal sole, una tanica lacerata. Poco oltre, blocchi di cemento stringevano la strada: proteggevano un tratto franato, il guardrail piegava verso il fondovalle. Brani di asfalto erano divelti come zolle di terra, sospesi in equilibrio precario. Fra i frantumi cresceva un lentisco. Nel dirupo, giù verso il torrente Merdanzo, ginestre e cespugli di cisti coloravano le pietre di giallo e ciclamino. In alto brillavano al sole terrazze cadenti fra ulivi fulminati dalla dimenticanza: ho visto un rudere morto sorretto dalle membra dalla vegetazione. “In questo mondo frana tutto”, lamenta un personaggio di Le parole la notte, l’ultimo romanzo di Francesco Biamonti. Dentro il paesaggio di suggestioni pulsa un dissesto di frane. E in un altro dialogo leggo: “Mi domando a chi toccherà l’ultima parola: ai roveti? - Nell’arido trionfano le ginestre spinose. Formano un bel tappeto. Poi ancora qualche incendio, e buona notte!”
 
Perinaldo (IM): una vista sulla valletta del rio Merdanzo

Arranca esile il Merdanzo, affluente fangoso e denso del Nervia, e divide il mondo in due: dalla parte di Apricale; dalla parte della casa rosa. “Aprico”, nell’italiano dei poeti, è il versante in luce: Apricale, esposto a sud, riceve i raggi del sole dal mattino sino a sera. Dal suo lato crescono l’ulivo, il lentisco e arbusti ariosi che sanno di aria marina. La casa rosa sorge invece sul versante esposto a nord, l’opaco: terra scura di lecci, qualche castagno, ghiande e funghi. Per raggiungere la casa si prende un sentiero che scende fra ulivi coperti di licheni, s’appoggia al ponte a schiena d’asino e s’addentra nel bosco d’ombre. 
 
Apricale (IM): a nord del paese

Vista da Apricale, la casa rosa sembra un avamposto sottratto alla giungla impervia: attorno all’abitazione s’apre un cerchio rado di coltivi digradanti, assediati dal verde. Altre case - ormai dirute, sommerse dal bosco - lasciano intravedere un pezzo di tetto, un accenno di facciata sopra un tratto eroso di fascia. Quando scruto questa foresta immagino le terrazze e i muretti a secco sepolti come templi antichi, cattedrali di civiltà lontane.
 
Apricale (IM): un'inquadratura "sui generis" di Piazza Vittorio Emanuele II e dell'Oratorio di San Bartolomeo

Apricale (IM): Oratorio di San Bartolomeo

[...] Sant’Antonio Abate, santo di fuochi e animali selvaggi, è il patrono di Apricale. Nell’oratorio di San Bartolomeo, tempio scarno e raccolto, è conservato un dipinto di Antonio orante con bestie selvatiche accoccolate ai piedi. Di fronte al coro di legno addossato alle pareti pensavo ai riti del fuoco che ancora, in certi angoli di Italia, si adempiono nel nome di Sant’Antonio. Un pomeriggio Mario Cassini mi ha accennato ai falò di Apricale. Era da poco disceso dal bosco carico d’una sporta di galletti, fra i funghi arancioni aveva trovato anche un porcino. Ha raccontato Mario che ogni Natale in paese esiste l’usanza di accendere un fuoco notturno. “Alcuni fanno derivare il fuoco di Natale dai riti del solstizio d’inverno. La leggenda vuole che agli antichi, vedendo le giornate accorciarsi a dicembre, veniva la paura di cadere nel buio. Allora si accendevano i fuochi, il giorno era corto ma il fuoco intenso. Siccome si faceva il 21 dicembre, poi è stato collegato alla nascita di Gesù e allora è diventato u feu del bambin che si accendeva alla vigilia di Natale e rimaneva vivo tutta la notte”. Si celebra poi in paese una “festa del Signore”, quando ogni abitante riempie di olio gusci vuoti di lumache e vi ripone un filo di lana infiammato. Di notte le fiammelle sono portate in processione, o appese alle finestre.
In Le parole la notte Leonardo e il pittore suo amico s’aggirano in un piccolo paese dell’entroterra montuoso: “Camminarono tra disfatti portali, ardesie con segni antichi: il trigramma ihs e la rosa a sei punte, o rosa dei pastori, segno distintivo delle maestranze lapicide di Cenòva”. Anche io ho osservato antichi segni incisi nella pietra delle chiese o sopra gli ingressi di abitazioni secolari. 
 
Ventimiglia (IM): Cattedrale di Santa Maria Assunta (Duomo)

A Rocchetta Nervina, in Val Nervia, ho ritrovato il trigramma - emblema del salvatore - avvolto in una spira circolare; nella cripta del duomo di Ventimiglia, invece, ho visto la rosa a sei punte, forse un arcano simbolo solare. Un sole con raggi arcuati e vibranti appare scolpito sulla lastra sotto il portale della chiesa di Lavina, vicino a Cenòva. Vi è una relazione fra il sole e le rose? “Una rosa bianca rifletteva la sera, si tingeva blandamente d’azzurro. Il rosaio cresceva sul bordo sotto la croce di legno dove la strada si divideva”. Si potrebbe credere che il romanzo sia l’occasione per architettare un sistema di simboli carichi di aura sacra; eppure il mondo è stato abbandonato dagli dei. Un drappello di disperati nella notte s’aggira alla ricerca del confine: “Se cercate il confine, è più in là nell’altra valle. - Non possiamo restare? Siamo stanchi. - Finché volete. Gli ulivi sono fatti per proteggere. - Gli ulivi non sono Dio, - l’altro disse. - Non sono Dio, d’accordo, ma è quanto qui c’è di meglio, - disse Leonardo”. Se nel mondo disastrato non si dà trascendenza, i simboli non sono cristalli assoluti, o archetipi essenziali. Piuttosto si muovono, scorrono via e cambiano posizione. La rosa s’associa alle parvenze femminili (“Vairara non gli piaceva; ma gli piacevano le sue donne: una era come una rosa bianca e l’altra come una rosa scura”); la rosa è fugace stimolo a ricordare (“Mi dispiace che impallidisca il ricordo delle rose. Ma impallidire è il destino dei ricordi. Ora le rimarrà quello del raggio d’oro nel lentisco”). La rosa, ancora, è sogno utopico di un passato mai realizzato, come nel dialogo fra Corbières e Leonardo: “Sono contento di conoscerla. Vorrei notizie del suo paese. Potrei dirle che l’ho amato e che lo ricordo ancora pieno di rose. - Quando c’è stato? - Nel ’45. - Nel dopoguerra? - Possiamo anche dire così. Sono venuto a conquistarlo, o a liberarlo, se preferisce. - Credo che non sia più come lo ricorda. - Certamente no. Nulla in Europa è più come allora. Era un’Europa carica di rovine. Ero sottotenente e al suo paese mi sono trovato bene. Argela. Noi l’avevamo già chiamato Argèle-Les-Rosiers”. Non il romanzo è al servizio dei simboli, ma i simboli sono dominati dal movimento narrativo. Si muovono come certe immagini pittoriche che appaiono all’occhio vibrando: “Un soffio impetuoso riempì la campagna, lei si strinse nella sua veste”.
Francesco Migliaccio, Ombre e passaggi fra Nervia e Roja, Testo prodotto nell’ambito del progetto "Sulle tracce di Francesco Biamonti: percorsi creativi tra San Biagio della Cima e le cinque valli del Ponente Ligure", realizzato a cura del Centro di Cooperazione Culturale, in collaborazione con l'Unione Culturale Franco Antonicelli, la Fondazione Dravelli, e gli Amici di Francesco Biamonti, con il sostegno della Compagnia di San Paolo - nell'ambito del "Bando Polo del '900" destinato ad azioni che promuovono il dialogo tra '900 e contemporaneità usando la partecipazione culturale come leva di innovazione civica - e della Fondazione Carige

venerdì 3 maggio 2024

Mio padre era a lavorare in una fabbrica di racchette da tennis

Bordighera (IM): l'area dove sorgeva la fabbrica di racchette da tennis

Intervista a Libereso Guglielmi - Luglio 2003, Sanremo
Libereso:… non è che mio padre facesse del male, perché non lo ha mai fatto. Soltanto che era pericoloso con le parole. Tutto è cominciato quando era a studiare dai gesuiti, che allora erano a Bordighera. Mia madre era a scuola a Bordighera e loro poi, quando lui doveva, che aveva l’età già da poter fare il suo lavoro da prete, sai perché a Perinaldo, quelli lì, sai dov’è Perinaldo?
Q [Valeria de Marcos]: Su in alto…
L: E allora lassù, quando uno ha un figlio prete, che cosa meravigliosa era! Se tu guardi, più erano poveri, più erano scemi, più volevano il figlio prete. E allora, quando lui ha avuto l’età, è scappato con mia madre e ha lasciato i gesuiti. Mio nonno era dalla parte di mio padre, però avrebbe voluto che io continuassi quella grande carriera di mio padre. E lui, dato che era un ragazzo molto in gamba, perché delle cinque classi è stato uno dei primi in francese - sai che parlava il francese, no? - ha visto un po’ i casini. E allora poi, c’erano quelli furbi che dicevano: “Ma se tu, invece di pregare, bestemmi, Dio tu lo trovi lo stesso”. E lui si è fatto una bella cultura… Poi era andato a Bordighera, è andato a lavorare in una fabbrica di racchette da tennis, a Bordighera…
Q: Senti, la fabbrica di racchette?
L: Fabbrica di racchette… Io da ragazzo, quando avevo pochi anni, proprio cinque anni, siamo rimasti cinque anni lì, vicino alla fabbrica di racchette, di corsa andiamo a giocare a tennis. E allora è successo che poi siamo andati a scuola. Però c’era mio fratello, un anno più vecchio, e mio padre ci insegnava. Io quando sono andato a sei anni a scuola sapevo leggere. Perché io ho letto. Lì mi hanno preso e mi hanno sbattuto in seconda. E lì è cominciata la mia vita libera da uomo libero, perché… Ho cominciato veramente a farmi libero quando i preti cattolici dicevano: “Questi sono i due fratelli Guglielmi: due piccoli animaletti senz’anima, senz’anima, ma innocui”. “Possiamo lasciarli andare?”. “Sì, sì, sono innocui, sono innocui”. E questo è quello che noi ricevemmo per credere nella religione e in tutto. E allora di qua ho cominciato, anche da bambino, a liberarmi. E poi con mio padre che parlava sempre, tutti i giorni, e io vedevo che era realtà. E così ho cominciato a vedere appunto che il valore non era quello che loro ti dicevano, ma quello che tu sentivi. E allora mio padre ci diceva - e io ci credevo, perché sai, era andato sù da quei preti - che mentre i preti mangiavano bene, lui doveva andare a cercare le bucce di arancia. Quando mio nonno poi li pagava già con soldi veri. "E' per fargli capire la vita!" sosteneva il gesuita. Non si poteva non perdere la fede con questi che mangiavano arrosti. Beh, non può essere religione, tu mi dici una cosa e poi ne fai un’altra? Allora, eh, tutti quelli che sono usciti di lì, come mio padre, se ne sono andati da contestatori. E mio padre fu sempre un contestatore. Poi, a Bordighera in quel periodo, c’era Bicknell, conosci Bicknell? Bicknell era uno dei più grandi a Bordighera, ha creato…
Q: Esperantista, no?
L: Esperantista, mio padre era un esperantista. Per quello io dico che mio padre era stato un buon allievo, o di seconda mano, non lo so. Era stato a Bordighera, Bicknell era esperantista, mio padre, poi, studiava l’idosperanto. Io mi chiamo Libereso, non è esperanto, è idosperanto. È una lingua nuova che avevano lanciato. E allora…
Q: Questo Bicknell?
L: No, no. Sono due, tra i lanciatori della lingua c’era anche mio padre. E questo era un po’ più sofisticato. E allora quando ero diventato più grande ero andato a Milano, certo, dirigevo "Italiano del Parco", e una signora, avendo visto scritto sul giornale Libereso, mi disse “Guarda che è sbagliato, io sono la Presidentessa degli Esperantisti, e si scrive Libereco, con la “c”, perché l’u diventa l’a, se no si scrive Libereso perché viene dall’idoesperanto, non dall’esperanto”. E allora lei mi ha dato un libretto del 1925, da dove mio padre aveva preso il nome, da quel libretto. La libertà, ecco perché mi chiamo Libereso. E Libereso vuol dire la libertà assoluta di pensiero, di azione e di parola. Mi ha dato il nome e io me lo sono preso. E il nome mi ha seguito. Un po’ come appoggio… Ho detto: “Va be', se mi chiamo così perché devo fare il contrario?”
G: Ma com’è che tuo padre ha incontrato gli ideali anarchici, l’anarchia? Com’è andata?
L: Appunto, io penso, lo sai che è? Che sono da Bordighera, Bicknell era anarchico. Bicknell era un prete protestante, una personalità molto fine, allora, laggiù ha creato il museo Bicknell sai, e poi ha fatto delle ricerche sui monti della Liguria…
Q: Le incisioni rupestri…
L: Le incisioni rupestri… Aveva i camerieri che partivano da Bordighera, andavano fino a lassù …
Q: A Casterino, no?
L: Sì, Bicknell si è creato poi lassù la sua casa, per andare a studiare…
Q: Gli antichi liguri…
L: Sì, proprio gli antichi liguri. È bello perché ogni tanto su quelle rupi trovi frasi come 'Qui c’è passato il celebre…' Bicknell era una grande personalità. Cominciò come prete, e poi è rimasto prete, però è sempre stato una persona molto in gamba, perché ha creato musei, ha creato…
Q: Bicknell?
L: Bicknell, sì sì. Quello a Bordighera l’ha creato Bicknell.
G: Sì, è bellissimo…
L: Una bella personalità. E poi è stato, indubbiamente, perché dicevo, poi era esperantista, mio padre era idoesperantista. E poi era anarchico, mio padre era anarchico. Bicknell a Imperia era stato tacciato di anarchia, anche lui, perché sai, era un contestatore, no? E poi, quando portava la gente su, a Casterino, non c’erano gabinetti in casa. “Andare al gabinetto? Andate nel giardino!” Questo capitava anche per persone in vista. In casa proprio lui non ce l’aveva. E poi tutti dovevano farsi il letto, farsi da mangiare… I camerieri, no. “Sono un uomo che ha gli stessi diritti di voi”. Era una personalità veramente ricca. E allora era vero tutto, era tacciato di anarchico. E poi lui piano piano è rimasto solo scienziato. Una volta il prete di Bordighera [padre Giacomo Viale] aveva detto che gli mancavano 5 mila lire per un'opera di bene. A quel tempo, sai, nel 1900, erano soldi. E allora Bicknell ha detto “Se non ce li hai, te li do io”. Detto da lui che era un prete protestante. Ha detto “No, questo serve per un atto di valore”. Era un uomo con princìpi giusti, un pensatore.
Q: Ma oltre Bicknell, poi tuo padre ha conosciuto altri…
L: Sì, ha conosciuto altri, ha conosciuto altra gente. Adesso io penso alla guerra di Spagna, passavan di qua. Passavano e li facevano andare in Spagna, questi…
Q: Anarchici che andavano…
L: Anarchici, sì sì. Poi ho conosciuto, io ero un bambino, ho conosciuto un certo Cristo che veniva dall’Ungheria, era uno di quelli che portavano messaggi, sai? Ne ho conosciuto parecchi. Mio padre è sempre stato una persona che sapeva creare con la parola. Siamo andati a Napoli un giorno, si è messo a discutere con dei ragazzi, sai, nel Cinquanta era ancora dura, no? Però tutti ad ascoltare e poi lui dice “Ma no! C’è lo spazzino che passa?” “Sì, sì” “Che ore sono? Le cinque di mattino?” Alle sette di sera si era messo a parlare, alle cinque di mattina era ancora lì che discuteva. Ancora adesso qualche persona di Napoli mi scrive, sai? Però come dico, lui era uno che ha conosciuto, ha conosciuto mi pare Malatesta, sai, personalità così. Sai che uno di questi era sù da noi quando li cercavano a Bordighera, in mezzo ai bambini… C’è stata una… mio padre era molto appassionato… però era un’antiviolento, forse il primo antiviolento che… non gli piaceva la violenza, lui faceva tutto solo con le parole. Lui non ha mai pestato nessuno, però, lo hanno pestato, quando quella volta i fascisti, lui diceva “Se mi ha pestato è malato, se no non poteva fare un lavoro simile”. Capisci? Era proprio di quegli uomini puri di cuore, no? Perché lui non avrebbe fatto niente di male. C’è adesso mio figlio che è peggio di lui. Io in mio figlio vedo mio padre. Sì. E allora poi è cominciata la mia vita bella, da rompiscatole. Mi hanno chiamato per fare il militare: ero già arrivato a San Remo. Sai, a scuola per prima cosa hanno detto: “Questi sono i Guglielmi, sono povera gente, bisogna comprare loro la divisa”. E gli altri bambini arrivarono con divise già logore per i Guglielmi. Abbiamo visto delle cose!… Ma poi io… tanto che io lo vedevo quel fascismo, lo vedevo come qualcosa di veramente stupido. Allora, quando io vedevo arrivare il maestro, che veniva in classe, e ti diceva “Eia eia”, e tu dovevi dire “Alala!”, e finché lui diceva “Eia eia” tu dovevi dire “Alala”. E non era il solo. Arrivava il Direttore “Eia eia” “Alala”, “Eia eia”. Arrivava un professore “Eia …”. 'Ma che cavolo, accidenti! E ora quale? A perdere metà della giornata a fare “eia eia” e “alala”'? Ed era anche un principio stupido moralmente. Mi mandavano a Bordighera, lì noi dovevamo anche cantare! E allora io tiravo dei grossi acuti, ma sbagliati. “Che sei scemo?” mi dicevano e così non andavo più a cantare. Facevo ginnastica, sbagliavo sempre, e così via, non c’ero mai nelle loro imprese. “Tu sei uno scemo”. Intanto non cantavo, intanto non mi mettevo la divisa. E poi dopo sono andato via.
Q: Non facevi le adunate?
L: Non facevo le adunate, perché sai, tutti mettevano le divise. Ecco, ad esempio, per il militare, ho visto i miei amici farsi più furbi ancora. Raccontavano, da militari in Sicilia, che sparavano in modo sbagliato e dopo un po' venivano mandati via. Però ci voleva coraggio, sai, con questi qui che ti dicono “Sei scemo”? Io ero abituato, quando me lo dicevano, già appena nato si può dire che ero un piccolo animaletto! Io mi sono fatto una pelle… [...]
Valeria de Marcos, Alternative per la produzione agricola contadina nell'ottica dello sviluppo locale autosostenibile, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, 2004

domenica 28 aprile 2024

A volte, quando si dice Oneglia...

Imperia: la Calata G.B. Cuneo del porto di Oneglia e, sullo sfondo, a destra, l'ormai demolita palazzina della Capitaneria

Il Presidente del Comitato organizzatore della Festa Patronale di San Giovanni Battista ad Oneglia si è rivolto per il tramite di un comune amico al nostro Giornale per chiedere suggerimenti in merito alle iniziative collaterali che fanno da sfondo alla celebrazione religiosa.
La prima notizia di Oneglia risale ad un trattato tra Genova e Pisa del 1146, che riconosceva alla “Superba” il dominio sulla nostra Città. Essa ha dunque una origine medioevale, benché più recente di quella che può vantare Porto Maurizio, costituita nel decimo secolo intorno al monastero benedettino - ora convento delle Suore Clarisse - in seguito allo smembramento del dominio arduinico.
In considerazione del periodo storico in cui è iniziata la vicenda della Città, consigliamo di organizzare una festa in costume: non però quello rinascimentale in cui si esibiscono - imitando le “Comparse” delle Contrade al Palio di Siena - i figuranti di tutte le celebrazioni e feste civili che si svolgono in ogni Città e borgo d’Italia.
Raccomandiamo - per essere originali - l’uso dei costumi medioevali, che risulta invece molto meno diffuso.
Le manifestazioni in abito d’epoca hanno luogo in occasione di gare di sport archeologici: la Giostra del Saracino ad Arezzo, i Balestrieri a Gubbio, la Quintana a Foligno, il Calcio Storico a Firenze, il Gioco del Ponte a Pisa, la Regata delle Repubbliche Marinare, ospitata quest’anno da Genova, la Regata di Venezia e via enumerando.
In quasi tutte le occasioni, la competizione avviene tra i quartieri.
Noi proponiamo - anche qui per essere originali - che ad Oneglia si svolga tra le antiche Corporazioni: Pescatori (“ça va sans dire), Osti (l’amico Braccioforte” prepari i soldi), Fabbri, Carpentieri, Muratori, Mercanti, Sarti, Giardinieri e Ortolani, i quali un tempo portavano nella Processione di San Giovanni la zappa del loro Patrono Sant’Isidoro.
Le diverse categorie sarebbero dunque stimolate a trovare le risorse finanziarie, dando lavoro a chi confezionerà gli abiti d’epoca e competendo per originalità, eleganza e fedeltà ai modelli originali.
Quanto al tipo di gara, consigliamo una regata a remi tra i tipi “gozzi” liguri.
Dovunque si competa tra barche, i nostri compaesani accorrono numerosi a sostenere i loro campioni: esiste nell’ambito del CONI una “Disciplina Associata”, quella del Canottaggio a Sedile Fisso, distinta dalla Federazione del Canottaggio a sedile mobile.
Oneglia vanta in questo campo una grande tradizione, che avrebbe così modo di esprimersi al meglio.
Mario Castellano, La festa patronale di San Giovanni Battista a Oneglia. Per coinvolgere tutti, Faro di Roma, 26 maggio 2018

domenica 21 aprile 2024

La volontà da parte di Novaro di recidere definitivamente con il passato ‘commerciale’ della rivista potrebbe quindi averlo indotto a rinunciare a quell’apparato illustrativo d’impronta Liberty oramai troppo corsivo


Nel 1895 nasce a Oneglia, in provincia d’Imperia, la testata «La Riviera Ligure» fondata da Paola Sasso (1845-1893) e dai figli Angiolo Silvio Novaro (1866-1938) e Mario Novaro (1868-1944).
Al principio questa impresa editoriale si presenta sostanzialmente come un foglio, e di promozione turistica dei territori della riviera ligure, e di propaganda della famosa ditta produttrice di olio, tutt’oggi esistente: “P. Sasso e Figli”. Di qui l’eccezionale tiratura della rassegna che nel 1899 raggiunse per allora lo straordinario numero di ottocento-centomila copie (con una punta di centoventimila nel mese di maggio dello stesso anno). Questo almeno sino al 1901, quando Mario Novaro assunse di fatto la direzione della testata imprimendole una svolta radicale <14. Da “un’amena e simpatica trovata fin de siècle” <15 la «La Riviera Ligure» si trasformò rapidamente in una rivista letteraria di primaria importanza nel panorama dell’editoria italiana. Il “direttore-dittatore” <16, infatti, oltre a svolgere l’attività d’imprenditore nell’azienda di famiglia, era ancora prima un letterato, un critico, un saggista e anche un poeta e scrittore allora abbastanza apprezzato <17.
Laureatosi in filosofia a Berlino nel 1893 e, l’anno seguente, all’Università di Torino nella medesima materia, Mario Novaro era uno studioso particolarmente impegnato in materia di occultismo e di teosofia. Questo forte interesse per il ‘trascendente’, per altro molto comune negli intellettuali della generazione operante alla fine dell’Ottocento, lo portò a rimodellare la sua rivista secondo modelli di chiara impronta simbolista. Fra i primi e più importanti collaboratori invitati a partecipare alla nuova impresa figura, infatti, non a caso Giovanni Pascoli (1855-1912) il quale intrattenne con Novaro un lungo e duraturo rapporto, di lavoro prima e di amicizia poi, basato sulla stima reciproca <18. Del poeta sammaurese «La Riviera Ligure» pubblicò negli anni numerose poesie, queste ultime spesso accompagnate da illustrazioni appositamente realizzate per l’occasione. Tra i componimenti pascoliani editati dalla testata ligure, si prenda a titolo esemplificativo "Inno all’Olivo" (poi ristampata nei “Canti di Castelvecchio” col titolo 'La canzone dell’ulivo') illustrata da un disegno a inchiostro di Plinio Nomellini (1866-1943). A parte le facili speculazioni circa una sospetta coincidenza fra i versi di Pascoli, il disegno dell’artista livornese (dominato dalla figura della pianta oleacea) e l’attività economica principale dell’editore, ossia di una “calcolata e sagace sponsorizzazione” letteraria <19, questa felice “unione di studi liberali e felici commerci” <20 rientra esattamente in quel clima di ‘integrazione tra le arti’ e il mondo dell’economia in cui prende forma l’Art Nouveau. Da un punto di vista squisitamente grafico la poesia simbolista pascoliana, “decorativa […] stilizzata, fatta di contorni, di sapienti sagomature” <21, trova sul versante del componimento visivo una perfetta corrispondenza omologica nell’immagine fortemente evocativa e sintetica, realizzata per mezzo di linee fluenti e ben delineate, composta da Nomellini. Lo stesso Pascoli, del resto, riconosce questa ‘convergenza’ stilistica quando esprime in più occasioni tutto il suo apprezzamento per l’opera dell’artista livornese <22. Tuttavia, in questo caso si tratta più di una giustapposizione fra due arti ‘sorelle’ che non di una vera e propria unione in un tutt’uno organico. In altre parole, testo e immagine si corrispondono, ma non si fondono realmente insieme.
L’esempio più emblematico di una vera unione fra parola e disegno presente sulle pagine de «La Riviera Ligure» è fornito dall’opera di un altro grande protagonista della stagione liberty in Italia, Giorgio Kienerk (1869-1948). A quest’ultimo, infatti, si deve sia il rinnovamento generale del layout della rivista, sia l’intera impostazione grafica la quale, a partire dal n. 27 del 1901, caratterizzerà l’immagine della rassegna per oltre un lustro. La formula adottata da Kienerk per la testata è esemplare: all’interno di un riquadro ondulato fortemente asimmetrico, evocante i flutti del mare, campeggiano le lettere che compongono il nome della rivista; queste ultime a loro volta fanno eco all’andamento sinuoso ed eccentrico della cornice adottando un lettering morbido, d’ispirazione appunto ‘undamorfa’, che unisce i singoli segni fonetici fra di loro secondo uno schema libero che elude, di fatto, l’impostazione tradizionale della rigida griglia gutemberghiana di stampo moderno. Questo stile, utilizzato per molti altri lavori pubblicati sia su «La Riviera Ligure» che in altre testate (loghi editoriali, capilettera, fregi, finalini ecc.), Kienerk lo chiama giustamente “geroglifico” <23, ossia un componimento sintetico/astratto in cui il segno grafico (significante) e la parola o concetto (significato) coincidono. Lo stesso carattere conciso, simbolico e fortemente decorativo lo si può riscontrare anche in disegni più impegnativi (tavole autonome, vignette e illustrazioni a tutta pagina), in cui emergono chiaramente due linee stilistiche differenti: l’una divisionista, sulla scia di Nomellini, ma interpretata con forti accenti nordici vicini ai modelli provenienti soprattutto dai maestri del simbolismo belga (in primis di Fernand Khnopff) <24; l’altra incentrata sull’utilizzo di un rigoroso à plat derivato, come lui stesso scrive, dai disegni che “si vedono per le riviste inglesi e tedesche” <25.
Diverso, sia da Nomellini che da Kienerk, è il caso del terzo e più importante collaboratore de «La Riviera Ligure», il genovese Edoardo De Albertis (1874-1950) <26. Più giovane rispetto ai due artisti toscani, De Albertis adotta un divisionismo grafico per così dire ‘severo’ che denuncia chiaramente un orientamento stilistico differente. Il suo tratto infatti, seppure sempre filamentoso, s’irrigidisce alquanto, mette in evidenza la plasticità dei corpi e gioca per quanto possibile su potenti effetti di chiaroscuro; tutti ingredienti, questi, che denunciano apertamente la volontà da parte dell’artista di aderire a un linguaggio riconducibile stilisticamente all’interno in quella variante del Liberty nostrano, di stampo eminentemente neomichelangiolesca, promosso e diffuso dal coetaneo e ben più famoso Adolfo De Carolis <27.
Questa situazione rimase pressoché immutata sino al 1904 quando Novaro, dopo avere faticosamente ordito una fitta rete di relazioni in grado di dare vita a una rivista solidamente impostata sullo stretto binomio testi/arti figurative, decise improvvisamente di sciogliere questo legame per concentrarsi esclusivamente sul versante letterario. Già l’anno successivo, infatti, in molti numeri non compaiono più tavole illustrate, ma solo alcuni fregi ornamentali concepiti da Kienerk qualche tempo prima. A partire dal 1906 la svolta è completa e più nessun tipo di fregio adorna le pagine della testata. Le ragioni di questo cambiamento repentino sono varie, non ultime quelle di origine economica, ma, come spesso accade, le giustificazioni finanziarie costituiscono molto spesso un alibi per nascondere “motivi di ordine ideologico e psicologico” <28. La volontà da parte di Novaro di recidere definitivamente con il passato ‘commerciale’ della rivista potrebbe quindi averlo indotto a rinunciare a quell’apparato illustrativo d’impronta Liberty oramai troppo corsivo, ‘popolare’ e, cosa più importante, indissolubilmente legato all’ambito della réclame.
[NOTE]
14 A partire dal n. 25 compare sulla prima pagina della rivista la dicitura “nuova serie” a rimarcare il nuovo cammino intrapreso. Inoltre, la stampa del giornale fu affidata alla famosa casa editrice F.lli Treves di Milano la quale, come noto, era da tempo impegnata a rinnovare la propria offerta editoriale sull’esempio delle coeve esperienze straniere.
15 R. BOSSAGLIA, La Riviera Ligure. Un modello di grafica liberty, Costa & Nolan, Genova, 1985, p. 8.
16 Cfr. E. SANGUINETI, Valorosi e noti, in R. BOSSAGLIA, cit., pp. 23-28.
17 Fra gli scritti più importanti di Mario Novaro si possono qui ricordare i saggi La teoria della casualità in Malebranche (1893), Il concetto di infinito e il problema cosmologico (1895), la curatela critica dei Pensieri metafisici di
Niccolò Malebranche (1910) e le poesie pubblicate nella raccolta Murmuri ed echi (1912).
18 Per una ricostruzione sui rapporti fra Mario Novaro e Giovanni Pascoli si veda M. NOVARO, Alcune lettere inedite di Giovanni Pascoli, Nante, Imperia, 1934; inoltre P. BOERO (a cura di), Lettere a “La Riviera Ligure” 1900-1905,
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma , 1980.
19 E. SANGUINETI, cit., p. 27.
20 Lettera riportata in P. BOERO, cit., p. 13 (lettera 20)
21 R. BARILLI, Pascoli simbolista. Il poeta dell’avanguardia debole, BUP, Bologna, 2012, p. 27.
22 Cfr. P. BOERO, cit., pp. 6 (lettera 10); pp. 7-8 (lettera 12).
23 Ivi, p. 14 (lettera 22).
24 Significativo in proposito segnalare che Kienerk fu l’unico artista italiano, dopo Segantini, ad essere invitato da Octave Maus al Salon de la Libre Esthétique del 1901 a Bruxelles.
25 Cfr. P. BOERO, cit., p. 15 (lettera 23). Nella lettera del 15 dicembre del 1901 inoltre Kienerk cita espressamente come modello di riferimento le riviste monacensi «Jugend» e «Simplicissimus» (cfr., ivi, p. 26, lettera 39).
26 De Albertis è stato oltre che illustratore anche un pittore, decoratore e incisore, ma soprattutto un importante scultore attivo soprattutto a Genova, che ha segnato il passaggio dal Liberty al Déco e al Novecentismo. Per una ricostruzione completa della figura dell’artista si rimanda al fondamentale contributo di D. COLOMBO, Eros e Thanatos. La scultura di Edoardo De Albertis a Staglieno, Erga, Genova 1996; inoltre si veda C. OLCESE SPINGARDI, La scultura, in F. SBORGI (a cura di), Il mito del moderno. La cultura liberty in Liguria, Fondazione Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, Genova, 2003, pp.139-163 (con bibliografia precedente).
27 Cfr. qui cap. 3.1.
28 R. BOSSAGLIA, cit., p. 21.
Giuseppe Virelli, «L’Eroica» e la xilografia italiana dal tardo Liberty all’Espressionismo (1911-1917), Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2012

Il contributo di Calò, che suggellava la sua passione poetica nata per amore e favorita dall’amicizia con Marino Moretti, trovò collocazione all’interno del cosiddetto «numero dei filosofi», poiché il fascicolo di ottobre 1911 ospitò anche opere di Giovanni Papini e di Mario Novaro <49. La rivista di Oneglia era nata come un foglio pubblicitario bimestrale, allegato ai prodotti della casa produttrice dell’Olio Sasso; per questo motivo, almeno inizialmente, gli scopi pubblicitari erano strettamente legati alla volontà di dare spazio ad una produzione letteraria estemporanea. Nel tempo, «La Riviera Ligure» assunse una propria fisionomia, grazie all’impegno del direttore Mario Novaro, che ne fece una tribuna di rinnovamento artistico e letterario né mai esclusivamente elitario e circoscritto, né tantomeno riformistico-rivoluzionario. Pur non essendo legata ad alcuna avanguardia, la rivista di Oneglia era interessata a svecchiare, a sprovincializzare, ad accogliere i filoni più interessanti della cultura europea contemporanea e, nel contempo, gli esordi di giovani artisti, come i fratelli Adelchi e Pierangelo Baratono, Giovanni Boine, Dino Campana, Luigi Capuana, Francesco Chiesa, Grazia Deledda, Corrado Govoni, Guido Gozzano, Marino Moretti, Umberto Saba, Camillo Sbarbaro, Scipio Slataper, Ardengo Soffici e tanti altri <50.
[NOTE]
49 Cfr. Marino Moretti a Mario Novaro, lettera n. 134 del 9/09/1911, in P. Boero, F. Merlanti, Lettere a «La Riviera Ligure», vol. 3, 1910-1912, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003, p. 142
50 Non va, inoltre, dimenticato che sulla rivista di Oneglia scrissero anche Luigi Pirandello e Giovanni Pascoli; cfr. E. Villa, P. Boero (a cura di), La Riviera Ligure, Canova, Treviso 1975, pp. 9-25

Evelina Scaglia, Giovanni Calò nel panorama filosofico e pedagogico italiano dal 1900 al 1940, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Bergamo, Anno accademico 2010-2011

martedì 16 aprile 2024

Un imperiese membro dell'Opificio potenziale

Imperia: Viale Matteotti

Giuseppe Varaldo sa ridurre bene i testi narrativi. Per dirne una: ha redatto diverse sintesi dei Promessi sposi manzoniani, usando solo termini marcati (come italiano regionale, dialettale, gergale, esotico, ecc.) dal vocabolario De Mauro della lingua italiana. Il tutto, per complicarsi la vita, scritto in ottave rimate.
Così, ad esempio, suona l'ottava intessuta con i barbarismi:"Non certo un instant-book o un feuilleton,/ ma un long-seller charmant ed evergreen. / Eccone l'abstract: in un tourbillon / di escamotage, di blitz e di combine, / in stand-by nonostante la liaison, / al "Niet" di un capataz, kaputt infin / (yes-man e bandoleros l"entourage), / fra un boy-friend e la partner il ménage".
In Canto tenero, un poemetto in quattordici quartine di endecasillabi a rime alterne, costruisce il testo con una sequenza ininterrotta dì nomi di personaggi mitologici. La prima strofa ("Alma, perenna - ligia al poter mio-/ e mesci a caso o reca come dote, / tipico tono fausto a te natio, / né farti debellar in odi o mote...") cuce i nomi di Anna Perenna, Ligia, Alpo, Termio, Eme, Scia, Caso, Ore, Caco, Medo, Teti, Pico, Tono, Fausto, Atena, Tione, Fartide, Bel, Larino, Diomo, Teride...
E si vedano i sonetti monovocalici raccolti in All'alba Shahrazad andrà ammazzata (Douglas Hofstadter ne parla nel suo Le Ton beau de Marot. In praise of the Music of Language, l997, dove traduce il titolo, mantenendo il gioco, in Shahrazad shall hang at dawn). Così viene riferito l'inizio della Metamorfosi: "la trama tratta/ (la narra Kafka, par ch'accada a Praga): / abracadabra, cabala da maga / all'alba fa passar da Samsa a blatta". E così Genesi, 6-9: "La gran bagnata allaga la vallata, / ma fra la malta, a galla, avanza l'arca,/ la vasta cassa fatta dal navarca; / la salamandra, l'anatra palmata, / la magra calpa, la farfalla alata/ s'accalcan a carcar la sacra barca: / da tal marasma, dall'amara Parca,/ dal patatrac la razza va salvata! / Al caval la cavalla, al can la cagna: / da casa-stalla la tartana fa ... / La masnada, passata la magagna,/ all'Ararat attracca, starà là;/ alzata l'ara, arata la campagna,/ mal farà Cam a maltrattar papà!".
Ma chi è Giuseppe Varaldo? Risiede a Imperia, di professione fa il dermatologo, collabora, con lo pseudonimo di Beppe, a "La Settimana Enigmistica" e ad altre riviste ("Pergioco", "La Sibilla"). Ma definirlo soltanto un enigmista è davvero troppo poco. È autore di stupefacenti palindromi sesquipedali: sull'omerica regina (Penelope, 1041 lettere), sulla scoperta dell'America (3 agosto 1492, 630 lettere), sulla vittoria della squadra italiana ai Mondiali di calcio (11 luglio 1982, 4587 lettere). Altri palindromi varaldiani sono brevissimi, fulminanti. Così, sull'abate Faria, scrive: finirà per crepar in If. E sulla memoria involontaria di Proust: era riverbero d'ore brevi, rare.
È un membro dell'Oplepo (Opificio di letteratura potenziale), associazione gemella della francese Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle). Fra i membri dell'Ouvroir, fondato nel 1960 (giovedì 24 novembre, per la precisione, nelle cantine di "Le vrai Gascon" a Parigi) da François Le Lionnais e Raymond Queneau, figurano Italo Calvino, Marcel Duchamp, Georges Perec, Jacques Roubaud; fra quelli dell'Opificio, fondato nel 1990 a Capri da Raffaele Aragona, Ruggero Campagnoli e Domenico D'Oria, figurano Paolo Albani, Ermanno Cavazzoni, Edoardo Sanguineti. Sono, questi gruppi, i laboratori della letteratura ludico-matematica più alta, culmine - e, detto così, può parere un ossimoro - di sfrenato gioco e di rigorosissime procedure. Per fare letteratura si fa, qui, uso di contraintes, cioè di regole di scrittura vincolata, sottoposta a restrizione. I vincoli sono strumenti di stimolo, metodi creativi, ed ecco allora lipogrammi, tautogrammi, mitografemi, palindromi, acrostici, olorime, e nuove tecniche come le permutazioni o il giro del cavallo, il metodo di sostituzione "S+n" (si sostituisce ogni parola con quella che cade n posizioni più avanti in un dizionario) e la palla di neve (ogni verso è costituito da una sola parola ed ogni parola successiva è più lunga della precedente). Raymond Queneau disse che anche severe teorie scientifiche e raffinate tecniche letterarie nascono almeno in parte dal gioco: "Si può pure ritenere che i Carolingi, il giorno in cui hanno cominciato a contare sulle dita 6, 8, 12 per fare versi, hanno compiuto un lavoro oulipiano". E d'altronde qualsiasi testo è costruito mediante delle regole (ortografiche, sintattiche, lessicali), che possono sì essere rotte o ampliate o modificate, ma che in effetti costituiscono pur sempre delle contraintes.
Insomma, gli oulipiani e gli oplepiani scoprono nuovi procedimenti per comporre libri, ricercano nuove strutture, e le costrizioni escogitate si rivelano propizie alla creazione letteraria. Varaldo è uno dei protagonisti di queste avventure. E ha capacità virtuosistiche, stupefacenti, tanto che, non a caso, è stato uno dei collaboratori di Piero Falchetta per la traduzione di quel gran testo che è La Disparition di Georges Perec (è un romanzo giallo in cui misteriosamente scompare qualcosa. Non vi diciamo cosa, non si può rivelare le sorprese di un libro così ricco di suspense e humour noir. In Italia è puhblicato dall'editore Guida con il titolo La scomparsa. Andate subito a leggervelo).
Varaldo, in un'intervista concessa ad Armando Adolgiso (in http://www.adolgiso.it), dice di non ritenersi uno scrittore, "se mai un abile artigiano lessicale o un manipolatore della parola. Essendo comunque anche un enigmista, cioè un creatore di indovinelli e crittografie, il passaggio dall'enigmistica alla ludolinguistica è stato per me abbastanza naturale. Dell'una e dell'altra mi attira soprattutto - così amo chiamarla - la "sublime inutilità". E della ludolinguistica anche quel senso di sfida còlta che è implicito nella contrainte". E, più oltre, afferma che la letteratura "diventa arte, e non più soltanto comunicazione, se e quando riesce a esprimere qualcosa che vada al di là delle parole: credo nel non detto, nel sottinteso, nella complicità allusiva fra scrittore e lettore. Ritengo inoltre che le parole stesse e la loro associazione abbiano, per lo meno nel linguaggio poetico, un valore intrinseco e una potenza evocativa che ne trascendono il mero significato. Ricordo in proposito quel famoso racconto di Landolfi in cui un poeta, un certo Ernesto, ri-scrive l'Infinito semplicemente lasciandosi condurre e sedurre dalla forza attrattiva delle singole parole, estratte a caso da un'urna".
Se qualcuno teme che la letteratura così si inaridisca e si riduca ad una vuota esercitazione che può indifferentemente essere prodotta anche dall'elaboratore elettronico, lo possiamo rassicurare subito, con queste parole che Varaldo pronuncia verso la conclusione dell'intervista:

Credo infatti che arte e scienza siano e debbano continuare a essere due mondi separati e autonomi. Ciò non toglie che la scienza possa fornire all'arte nuove tecnologie e nuovi strumenti per svilupparsi: basti pensare alla musica elettronica e ad alcuni effetti, non necessariamente speciali, del cinema. O anche, in campo letterario (vedli Oulipo-Oplepo e dintorni), alla già citata importanza della matematica. E tuttavia il livello artistico di un romanzo come La vita istruzioni per l'uso non deriva dall'esattezza delle sue contraintes, ma da qualcos'altro - stile, espressività, purezza di linguaggio, coinvolgimento emotivo - che in un certo senso le supera.

Personaggio complesso, affabile conversatore che sa passare da Buñuel a Rabelais, da Kubrick a Joyce, Varaldo è un esploratore di nuovi territori, animato da spirito giocoso e dissacratore. Il senso delle sue operazioni è al tempo stesso frivolo e profondo, e presenta - al di là del suo rifiuto di sentirsi scrittore - innegabili segnali di stile. Le sue esperienze di poeta à contrainte sono esposte in Introduzione alla ludolinguistica, pubblicato nella serie dei "Quaderni della Sibilla" (supplementi a "La Sibilla", Napoli 2003). Il resto potrete trovarlo nelle sconfinate lande (nei libri, nei siti, nei convegni) dell'Oplepo.

Marco Innocenti, Flugblätter. Vol. 2: 39 pezzi più o meno d'occasione, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018, pp. 49-54

Altri lavori di Marco Innocenti: articoli in Il Regesto, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM); articoli in Mellophonium; Lorem ipsum, lepómene editore, 2022; Silvana Maccario, Margini (Introduzione di Marco Innocenti), Quaderno del circolo lepómene stampato a Sanremo, gennaio 2023; (a cura di) Marco Innocenti, Il magistero di Cesare Trucco - per il centenario della nascita 1922-2022, Lo Studiolo, Sanremo, 2022; Scritti danteschi. Due o tre parole su Dante Alighieri, Lo Studiolo, 2021; I signori professori, lepómene editore, 2021; Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; Sandro Bajini, Fumata bianca dopo penosi conciliaboli (con prefazione di Marco Innocenti), Lo Studiolo, 2018; articoli in Sanremo e l'Europa. L'immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Sandro Bajini, Andare alla ventura (con prefazione di Marco Innocenti e con una nota di Maurizio Meschia), Lo Studiolo, Sanremo, 2017; La lotta di classe nei comic books, i quaderni del pesce luna, 2017; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Pubblicità, lepómene editore, 2015; Sandro Bajini, Libera Uscita epigrammi e altro (postfazione di Fabio Barricalla, con supervisione editoriale di Marco Innocenti e progetto grafico di Freddy Colt), Lo Studiolo, Sanremo, marzo 2015; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, philobiblon, Ventimiglia, 2014; articolo in I raccomandati/Los recomendados/Les récommendés/Highly recommended N. 10 - 11/2013; Sandro Bajini, Del modo di trascorrere le ore. Intervista a cura di Marco Innocenti, Ventimiglia, philobiblon, 2012; Sull'arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; Pensierini, Lepomene, Sanremo, 2010; Sgié me suvièn, Lepomene, Sanremo, 2010; Prosopografie, lepómene editore, 2009; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2008; C’è un libro su Marcel Duchamp, lepómene editore, Sanremo 2008; (a cura di) Alfredo Moreschi in collaborazione con Marco Innocenti e Loretta Marchi, Catalogo della mostra fotografica. 1905-2005: Centenario del Casinò Municipale di Sanremo. Una storia per immagini, De Ferrari, Genova, 2007; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006
Adriano Maini