mercoledì 26 novembre 2025

Quando la corale «San Maurizio» di Imperia dovette fare posto alla banda della Marina americana

Sanremo (IM): il porto vecchio

Nella prima metà degli anni '60 la tradizionale sfilata, a San Remo, di carri fioriti nel pieno dell'inverno aveva assunto grande risonanza da quando era stata escogitata la formula dell'«Europa in fiore» con l'apporto di splendidi gruppi folcloristici rappresentanti i Paesi europei che davano maggior risalto alla meravigliosa esibizione, a fine di gennaio - primi di febbraio, dei grandiosi carri disegnati da Rino Ceduto, pieni di fiori preziosi quali strelizie, orchidee e simili. 
Erano quelli gli anni di una novella, democratica «belle époque» e mi parve che non avrebbe dovuto mancare alla manifestazione [quella del 1965] un impegno federalista, cosicché ero riuscito a convincere gli organizzatori ad ammettere, nella sfilata, il canto dell'inno «Europa Unita» musicato da Reddy Bobbio su mie parole e che l'editore sanremese Carlo Beltramo aveva fatto arrangiare a Berlino, sperando di rinnovare il successo che tanti anni prima aveva avuto, sempre a San Remo, con la canzone «Festopoli». 
Beltramo si era pure incaricato della stampa della stesura definitiva dell'inno che era stato inviato in omaggio a moltissime scolaresche e diffuso specialmente in Piemonte e Liguria grazie alla collaborazione della prof. Jolanda Audino Dentis, presidente dell'Associazione Europea degli Insegnanti di Torino, e della prof. Vittoria Cavaglià, direttrice didattica di San Remo. 
Dopo essere stato cantato in molte occasioni dalla corale «La Baita» di Cuneo, il momento di vero «pathos» fu raggiunto quando un'altra corale, la «San Maurizio» di Imperia si assunse l'incarico di presentare l'inno, dopo la sfilata dei carri, nello spettacolo che si sarebbe svolto, la sera al Teatro Ariston. 
I coristi di Porto Maurizio arrivarono regolarmente mescolandosi, modesti e quasi inosservati nei loro abiti da pescatori acquistati a mie spese, tra le scintillanti divise di pennacchiuti ussari, l'indifferente sufficienza degli orchestrali della banda della marina militare americana, le rotondità procaci e il profumo carnale delle miss europee che avevano troneggiato sui carri, al pomeriggio. 
A loro doveva toccare di iniziare il programma e si passarono la voce per schierarsi sulla scena a sipario ancora chiuso, in prima posizione, mentre gli altri gruppi (gli ussari, gli zampognari scozzesi, i ballerini spagnoli, gli sbandieratori tedeschi ...) ancora facevano capannello qua e là nei meandri del teatro. 
Giunti alla soglia del palcoscenico ci si accorse, però, che dietro al sipario chiuso l'enorme palco era già completamente ostruito da una muraglia di uomini in divisa azzurro-cupo, che tenevano tra le braccia enormi tromboni luccicanti dalle aperture assai più larghe delle nostre normali trombe e tromboni e sembravano quasi dei bazooka. 
La voce si diffuse in un baleno: chi erano costoro? Chi erano questi intrusi che soffiavano ai nativi l'onore di aprire lo spettacolo? Non ci volle molto a capirlo, si trattava della banda della marina militare AMERICANA! 
I cacelotti e i ciantafurche (questi gli scherzosi soprannomi indicanti i portorini e gli onegliesi) del coro San Maurizio non tardarono a farsi prendere dai «fümasci» o, per dirla in altri termini, dai «futùi», e con rapida manovra, sgusciando fra quegli uomini impalati, si portarono davanti a loro, diciamo subito dietro la buca del suggeritore, ossia quasi a contatto col sipario. Qualcuno poi cominciò a far gesti verso gli americani invitandoli a retrocedere ed anche a spingerli verso il retroscena. Fino a quel momento tutto poteva attribuirsi a qualche errore organizzativo, ma quale non fu, invece, lo stupore quando il regista della trasmissione televisiva, che aveva pieni poteri, il solito «romanaccio» gonfio di prosopopea, si precipitò avanti intimando di andarsene non agli americani, ma ai coristi di San Maurizio. 
Ne nacque un battibecco che venne percepito anche dalla platea e volò qualche cazzotto. Ma il regista Coccorese, che almeno il suo nome passi alla storia, fu inflessibile. Per lui «Europa» era solo uno pseudonimo di America, la grande «fiesta» dell'Europa in fiore doveva iniziare con questo grande oltraggio allo spirito dei federalisti europei, il dirompente e lacerante frastuono di una fanfara militare e, per di più, americana. 
Finalmente il sipario si alzò e la gente compatta applaudì fragorosamente gli ottoni d'oltre Atlantico, con lo stesso entusiasmo con cui, forse, avrebbe applaudito i coristi di San Maurizio. Questi ultimi, invece, ancora in preda ai «fümasci», continuarono nel retroscena a discutere accanitamente ed a gesticolare e nemmeno la vicinanza delle miss o di altri simpatici figuranti riusciva a calmare i più agitati. Cosicché quando, dopo concitati parlamentari con l'assessore al turismo e poi di quest'ultimo con il regista, si ottenne finalmente che l'inno fosse cantato all'inizio del secondo tempo, quando si passò la voce ai coristi di prepararsi, purtroppo ci si accorse che quasi la metà, non potendo digerire l'oltraggio, se n'erano già andati, a prendere la corriera per Porto Maurizio, alla vicina autostazione. 
Enrico Berio, ALPAZUR. Nizza, Cuneo, Imperia "Distretto Europeo". La cooperazione transfrontaliera nell'interregione delle Alpi Meridionali, IsrecIm, 1992, pp. 59,60,61

sabato 15 novembre 2025

Il primo incarico teatrale documentato di Gio Ponti ebbe luogo a Sanremo

La vispa Teresa, balletto, Compagnia del Balletto Italiano, regia: Walter Toscanini e Cia Fornaroli, scenografia: Gio Ponti, Teatro del Casinò di Sanremo, 1937. Foto di scena. Fonte: Silvia Cattiodoro, Op. cit. infra

Frequentare la riviera ligure negli anni Venti e Trenta del Novecento era un efficace modo per portare avanti gli affari nei mesi estivi, lontano dalla calura delle città di pianura, in un ambiente più rilassato ma altrettanto effervescente dal punto di vista culturale. In particolare, per coloro che erano legati all’ambiente artistico il luogo abituale di incontro era il Teatro dell’Opera del Casinò di Sanremo, dove negli anni che precedono il secondo conflitto mondiale si ammirarono spettacoli degni dei maggiori palcoscenici europei: Petrolini, Ertè, i fratelli De Filippo, Jacques Tati e Max Reinhardt, oltre che Pirandello - in quegli anni consulente artistico del Casinò - con la loro presenza e i loro lavori assicurarono alla cittadina visibilità e risalto internazionali.
Pur non essendo documentato palesemente, possiamo immaginare con facilità Gio Ponti, a suo agio nei salotti culturali milanesi e già abbonato della stagione lirica del Teatro alla Scala, come uno dei frequentatori assidui di questi incontri culturali estivi: alcuni progetti elaborati dalla seconda metà degli anni Trenta - le ville a Bordighera e le piccole case al mare pubblicate su Domus - testimoniano la sua conoscenza e frequentazione della riviera ligure. Non è difficile, quindi, ipotizzare che il balletto "La vispa Teresa" andato in scena a metà del 1939 al Teatro dell’Opera del Casinò di Sanremo con le musiche di Ettore Zapparoli <1, sia stato in parte progettato in un patio affacciato sul mare all’ombra della pineta.
Nel provare a ricostruire l’ambiente dove ha preso vita il primo incarico teatrale documentato di Ponti, purtroppo l’immaginazione sopravanza di gran lunga le fonti esistenti: una foto di scena e un breve accenno in una lettera dell’anno successivo scritta a Ponti dal regista Carletto Thieben <2 durante il comune impegno per "Pulcinella" sono tutto ciò che rimane oggi dello spettacolo. D’altra parte, anche la quasi totalità del lavoro musicale del compositore mantovano è avvolto nel mistero o, come sembra, è andato disperso con la sua morte e il suo stesso nome è poco legato al successo artistico in campo musicale.
Non è neppure chiaro se il testo a cui si sono ispirati Zapparoli, Ponti e il coreografo Walter Toscanini <3 con la moglie Cia Fornaroli <4, direttrice della compagnia di danza, sia stato la poesia di Luigi Sailer <5 "La farfalletta" o la più dissacrante "Vispa Teresa" di Trilussa <6: la posa della protagonista nella foto fa propendere per quest’ultima ipotesi, ma i costumi di repertorio del Balletto italiano di Sanremo, stilisticamente derivati dall’esperienza naturalista ancora molto forte in Italia, sono di difficile interpretazione perché in netto contrasto con la scena che, pur non essendo di totale rottura, punta decisamente all’innovazione teatrale.
In ogni caso, alla fine degli anni Trenta la storia della bambina che cattura una farfalla in un prato viene variamente interpretata, come testimonia anche il cortometraggio diretto da Roberto Rossellini per la Scalera Film <7.
La fotografia che immobilizza un attimo del balletto è, come diceva Ponti, «nella forma, astrazione, sintesi ed estasi di un movimento e della vita» <8 e il suo ripetuto uso nelle numerose mostre internazionali dell’architetto attesta che il concetto di «scena dinamica» annotato di suo pugno sul retro era per Ponti un ossimoro su cui argomentare: nonostante il trentennio che separava questo esperimento italiano - estraneo alle Avanguardie artistiche - dalle lezioni di Adolphe Appia e Gordon Craig, per scena si continuava ad intendere lo scenario dipinto che fungeva da fondale e non già lo spazio scenico attraverso cui si esprime la profondità dell’azione drammaturgica e che possiede un carattere simbolico intrinseco.
L’apparente “naività” del fondale dipinto con alberi e prati, che richiama indubbiamente le pinete di cui si poteva godere sul litorale ligure, trae solo apparentemente in inganno, orientando lo spettatore verso una scenografia di tipo tradizionale che però abdica a quella che per Vitruvio era la sua funzione sostanziale, perché non descrive la profondità. Essa ci esplicita, piuttosto, l’attenzione di Ponti per la pittura dei Fauves in cui il colore, antinaturalistico e vibrante, diventa manifestazione delle emozioni individuali ed è perciò particolarmente adatta ad essere usato in scenografia. L’esponente principale del Fauvismo, Matisse, verrà citato da Gio Ponti qualche anno più tardi nelle note interne per il balletto "Mondo Tondo", divenendo esempio di cromatismo luminoso; tuttavia il fondale naturalistico usato nel 1937 sembra più ispirato dai lavori dei rappresentanti della Scuola di Chatou e in particolare da Andrè Derain, fauve che aveva lavorato subito dopo la prima guerra mondiale con Diaghilev e i Balletti Russi <9, verificando nel lavoro scenografico la sua ricerca pittorica.
[NOTE]
1 Ettore Zapparoli (Mantova, 1899 - Monte Rosa, 1951) fu compositore e alpinista. Morì senza eredi in circostanze tragiche in montagna e il suo corpo, ritrovato in un burrone nel 2007 è stato recentemente riconosciuto da una lontana parente. Genio misconosciuto della musica, frequentatore dei salotti culturali milanesi, per il Teatro alla Scala avrebbe dovuto mettere in scena presumibilmente nel 1943, Enrosadira, un’opera lirica sulle leggende delle Dolomiti. Il bombardamento della Scala impedì la prosecuzione del lavoro e distrusse la partitura che ancor oggi risulta dispersa, come la maggior parte delle sue opere. Fonti orali indirette (sia da parte della famiglia Ponti, sia da parte della famiglia Zapparoli) convergono sul fatto che ci fosse l’accordo con un architetto - in cui si potrebbe ravvisare la figura di Ponti - per realizzare le scene.
2 «Io ricordo la disgraziata “Vispa Teresa” e la meraviglia della vostra messa in scena, una delle più belle ch’abbia visto in vita mia». Thieben C., Epistolario Gio Ponti, D13p, 21 marzo 1940.
3 Walter Toscanini (Torino, 1898 - New York, 1971), figlio del maestro Arturo Toscanini, conseguì la laurea in giurisprudenza, ma non praticò mai. Dopo il matrimonio con l’etoile della danza Cia Fornaroli si dedicò principalmente a collezionare e a vendere libri rari sul balletto, attività che continuò anche dopo il 1940, anno in cui emigrò a New York a causa delle persecuzioni fasciste. Dopo la morte della moglie, Walter Toscanini creò con gran parte della loro collezione il fondo Cia Fornaroli Collection, conservato nella New York Public Library (Jerome Robbins Dance Division). Gli ultimi materiali vennero aggiunti in seguito alla sua morte.
4 Lucia Fornaroli (Milano, 1888 - Riverdale, New York, 1954), detta Cia, dopo gli studi di ballo presso la scuola di danza del Teatro alla Scala e il perfezionamento con Enrico Cecchetti, di cui fu una delle allieve predilette, debuttò come prima ballerina al Metropolitan di New York nella stagione 1910-1911. Restò negli Stati Uniti fino al 1914 e negli otto anni successivi compì numerose tournées nei teatri più importanti e con le compagnie più famose di tutto il mondo. A partire dal 1922 tornò alla Scala prima come etoile e coreografa, poi dal 1929 successe a Cecchetti nella direzione della scuola di ballo, pur senza abbandonare la sua attività artistica nel settore interpretativo. Nel 1933-1934, lasciata la Scala, fondò la Compagnia del Balletto Italiano di San Remo con la quale tentò di contrapporre un equivalente italiano alle più importanti formazioni di danza straniere, come i Balletti Russi (allora artisti residenti del vicino teatro di Montecarlo) e i Balletti Svedesi. Per la Compagnia del Balletto Italiano coreografò prevalentemente balletti di compositori italiani di musica contemporanea. A partire dal 1940 si stabilì a New York con il marito Walter Toscanini dedicandosi all’insegnamento della danza. Si spense a seguito di una lunga malattia, che la rese immobile per due anni.
5 Luigi Sailer (Milano, 1825 - Modena, 1885) fu insegnante di scuola secondaria a Milano, a Siena e a Modena. Nel 1870 pubblicò alcuni componimenti poetici per bambini col titolo L’arpa della fanciullezza. Nel volume si trova La farfalletta, composta tra il 1850 ed il 1858, e dedicata ad una principessina di Savoia-Carignano ritenuta «una bambina incorreggibile, perché male avvezza». II successo del componimento fu tale che a tre anni dalla sua prima pubblicazione si era già alla terza edizione. Alla fine del decennio tutti conoscevano la Vispa Teresa, ma quasi nessuno sapeva più chi ne fosse l’autore.
6 Il poeta Carlo Alberto Salustri (Roma, 1871 - 1950) scelse lo pseudonimo Trilussa, anagramma del proprio cognome col quale firmò un gran numero di poesie dialettali. Lungi dall’essere un intellettuale, fonte della sua ispirazione erano le strade di Roma, assai più che i libri o i circoli letterari che rifiutò sempre di frequentare preferendo le osterie. Quando un giornale locale gli pubblicò i primi versi, questi conobbero rapidamente il consenso dei lettori e furono il primo passo verso la realizzazione di molte raccolte di poesie. La fama di Trilussa crebbe, e tra il 1920 e il 1930 la sua notorietà raggiunse il culmine. A soli pochi giorni dalla sua morte gli venne riconosciuto il titolo di senatore a vita per alti meriti in campo letterario e artistico.
7 Nel 2006 presso l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza è stata ritrovata una copia del film facente parte di una serie di cortometraggi prodotti dalla Scalera Film, che si credeva perduto. Partendo da materiali documentari con protagonisti gli animali, il regista raccontava una breve storia moralizzante. Secondo i critici cinematografici, questi cortometraggi rappresentarono il punto di partenza del Neorealismo italiano. Titolo originale: La vispa Teresa; Paese: Italia; Anno: 1939; Durata: 7 min; Colore: B/N; Genere: Documentario; Regia: Roberto Rossellini; Fotografia: Mario Bava; Musiche: Simone Cuccio.
8 Ponti G. cit., 1957, p. 82. Ponti, prendendo le distanze dal Futurismo di seconda generazione che stava vivendo in quegli anni un periodo di fortunato revival, afferma anche: «non è l’arte ad esprimere il movimento muovendosi, ma è il movimento che esprime - nella danza ed anche nella danza meccanica, nella musica, nel canto, nel ritmo - l’arte. Questo è l’incanto del movimento: che non ha forma perchè ha mille forme». (Ponti G., cit., 1957, p. 45).
9 Nel 1919 Andrè Derain (Chatou, 1880 - Garches, 1954) aveva realizzato le scene per il balletto La boutique fantastique con musiche di Ottorino Respighi, causando la rottura definitiva tra Sergej Diaghilev e Lev Baskt, storico scenografo dei Balletti Russi. La medesima la velocità del tratto nei bozzetti di Derain è presente negli alberi del fondale di Ponti per La vispa Teresa.
Silvia Cattiodoro, Gio Ponti dalla scena al grattacielo. Un unico modo, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Palermo, 2012

martedì 11 novembre 2025

Mi avvio costeggiando Capo Berta

Imperia: la discesa di Capo Berta

Giorgio Lavagna, l'autore dello scritto che qui segue, con altri partigiani imperiesi, quasi tutti autorizzati dal comandante Libero Briganti, aveva raggiunto le linee alleate a ridosso di Mentone ai primi di settembre 1944. Questi patrioti italiani - ed altri, giunti per altre vie - erano stati allora arruolati nella FSSF, First Special Service Force (chiamata anche The Devil's Brigade, The Black Devils, The Black Devils' Brigade, Freddie's Freighters), reparto d'elite statunitense-canadese di commando, già impiegato anche nella Operazione Dragoon nel sud della Francia. Il reparto, però, fu sciolto nel dicembre 1944. Dopo di che, per non farsi internare, questi antifascisti furono costretti ad immatricolarsi nel 21/XV Bataillon Volontaires Etrangérs francese, presso il quale furono impiegati solo per lavori di fatica. 
Adriano Maini
 
12 maggio 1945
[...] raggiungo Albenga e, sempre in cerca di un mezzo di fortuna, trovo sulla strada «Ricù» Raineri che, con una corriera adibita a trasporto merci, carica di farina, sta per partire. Attendo impaziente per un quarto d'ora, poi si parte; ma quando già credevo di aver trovato il mezzo giusto per avvicinarmi a casa, intoppo in una spiacevole sorpresa: a Capo Santa Croce la strada è interrotta, e per non seguire «Ricù» che deve fare un percorso più lungo, rimango un'altra volta a piedi. Mi guardo attorno, sento che niente potrebbe fermarmi. Vedo in basso la galleria della ferrovia e mi informo che anche quella non sia saltata, poi mi avvio giù per la scarpata a strapiombo, scivolando ne raggiungo l'entrata buia che imbocco, quindi cammino seguendo i binari; durante il percorso incontro due persone che non riesco nemmeno a vedere in faccia; giunto all'altra estremità, mi trovo ad Alassio. 
Percorro a piedi la via Aurelia fino al termine di Laigueglia. Ancora una volta devo agire di prepotenza, mostrando la mia bomba a mano a un camionista che si rifiuta di farmi salire sul proprio mezzo. Oltrepassati Cervo e San Bartolomeo, proseguo a piedi verso Diano Marina. La giornata volgeva al tramonto ma ormai mi sentivo a casa. Mi avvio costeggiando Capo Berta, percorrendo un sentiero tracciato sulle frane della vecchia strada e prima delle venti giungo a Borgo Peri. Guardavo emozionato Porto Maurizio, mi sembrava di vederlo per la prima volta, non mi era mai apparso così bello, mi sembrava un sogno, avrei voluto gridare pensando ai miei che, inconsapevoli della mia vicinanza, attendevano ancora con angoscia il mio ritorno. 
Addentrato nelle strade di Oneglia, ignorato da tutti, cammino senza rendermi conto dello stato in cui mi trovo, guardo qua e là cercando persone di mia conoscenza; sul ponte Impero, quasi distrutto, incontro «Pinù» Acquarone che, non vedendomi da molto tempo, mi chiede da dove arrivo; gli accenno brevemente la mia storia ma la fretta non mi permette di dilungarmi; quell'amico, della cui cortesia non avrei mai dubitato, intuisce la mia premura e, senza che io gli chieda cosa alcuna, mi offre in prestito la sua bicicletta; non chiedo di meglio, parto veloce sull'ultimo tratto del mio percorso, pensando che non mi sarei più fermato. 
Ma prima di giungere a Porto Maurizio, incontro Andrea Corradi, non più rivisto da quando avevo lasciato l'accampamento di Monte Faudo; ci fermiamo uno di fronte all'altro, nella sua voce c'è un'esclamazione di stupore, e, come se tornassi dall'altro mondo, mi chiede anch'egli da dove io venga; anche a lui accenno poche cose, dopo di che ognuno prosegue per la propria strada. 
Giunto a Porto, sotto il vecchio orologio, all'angolo di Via Mazzini, incontro Giovanni Ascheri, amico di famiglia, che, sorpreso nel vedermi, chiama sua zia Maria. Quella donna, gentile e affettuosa, che durante la mia assenza aveva sempre esortato mia madre a sperare, nonostante fosse al corrente delle poche possibilità che ormai si potevano nutrire su un mio ritorno, mi corre incontro stringendomi in un abbraccio emozionato. Mentre a Maria sto spiegando brevemente la causa del mio arrivo in ritardo, una ventina di giorni dopo la liberazione, giunge a salutarmi anche l'amico Andrea. Egli mi attende e insieme ci avviamo verso casa. Durante quel tratto di strada, non sapendo che io già conoscevo quello che si diceva al mio riguardo, egli mi consiglia che sarebbe opportuno avvertire i miei genitori del mio arrivo, per evitare che un'emozione troppo violenta potesse loro nuocere, e si offre di essere lui a fare ciò. 
Pochi minuti mi separavano da un incontro che per me sarebbe stato meraviglioso. Senza provarlo, nessuno può capire cosa significhi poter riabbracciare i propri genitori dopo aver tanto sofferto. Il compagno che mi aveva preceduto con la bicicletta era scomparso davanti a me, ormai lo immaginavo già a contatto con i miei, mentre comunicava loro la notizia. Pedalo contemplando il panorama circostante, osservo emozionato i miei vecchi luoghi, ad un tratto vedo, in alto, davanti a me, il paese di Torrazza che, molte volte, avevo immaginato distrutto. Mi sentivo orgoglioso della causa per la quale avevo combattuto; ero felice di essere tornato, e di poter ancora raccontare gli episodi di quel passato burrascoso, che non avrei più dimenticato. 
Dal monte del Ciapà imbocco la strada che, attraverso una vecchia cava, porta a casa mia. Scendo dalla bicicletta all'inizio di quella cava per salutare un contadino di Torrazza. Dalla strada giungono altre persone che, forse, mi avevano scorto. Nel frattempo, da casa mia arriva mio padre ancora incredulo, con Andrea. Mia madre, colta all'improvviso da quella notizia, per alcuni minuti rimane seduta sopra un muretto in mezzo al vigneto. Stringo finalmente mio padre mentre i nostri visi si bagnano di lacrime. Mia madre, riavutasi, giunge quasi correndo, mi stringe pronunciando varie volte il mio nome, vorrei dirle tante cose ma posso solo piangere e non riesco a dire nulla. Nella mia giovane età, nemmeno quel giorno avevo capito, come capirò più tardi, quanto quella donna avesse potuto soffrire in quell'anno di guerra, nel sapermi in pericolo, confortata solo da una tenue speranza di potermi riabbracciare. 
In mezz'ora la notizia del mio arrivo si diffonde, da Torrazza scendono altri amici, fra loro ricordo solo Don Mela, parroco del paese; da Porto Maurizio giunge in bicicletta il colonnello Laureri. Per più di mezz'ora rimango bloccato nella cava da quella gente desiderosa di conoscere la mia storia, le ragioni della mia lunga assenza dall'Imperiese. Solo a tramonto inoltrato raggiungo la soglia di casa mia, da dove una sera di giugno, al chiaro di un lume a petrolio, i miei genitori mi avevano visto partire. 
Giorgio Lavagna (Tigre), Dall'Arroscia alla Provenza - Fazzoletti Garibaldini nella Resistenza, IsrecIm - ed. Cav. A. Dominici - Oneglia - Imperia, 1982, pp. 148-150 

lunedì 3 novembre 2025

Di Villa San Gaetano mi accompagnerà sempre il melodioso canto del mare infrangersi contro gli scogli

Latte, Frazione di Ventimiglia (IM): Villa San Gaetano



Prefazione

"Villa San Gaetano" è situata su un lembo di mare dell'estremo Ponente Ligure, prima della curva di Latte, in una posizione, a dir poco, incantevole. Ma "Villa San Gaetano" non è solo un luogo fisico. Una villa come ce ne possono essere tante. E' la culla dei ricordi legati ad un periodo particolare della vita dell'autrice. Seguendo il filo della memoria e sull'onda di sensazioni visive, olfattive, uditive, poeticamente riemerse dal profondo, l'autrice rende vivi e palpabili i luoghi che l'hanno vista bambina felice, spensierata, amata. L'autrice, da adulta, ripensando alla sua infanzia, nel libro ripercorre anche un periodo storico terribile. Un evento bellico le sottraeva il padre quando lei era ancora piccolissima e glielo restituiva come "sconosciuto" dopo qualche anno, a guerra finita. Non mancano considerazioni sul sistema di vita, sul mondo del lavoro, sui valori affettivi. Tutto è rivisitato alla luce di tersi ricordi che rendono quegli anni e quei luoghi pieni di incanto. Accanto alle descrizioni di luoghi, vie, angoli, spiagge, ruvidi scogli che l'hanno vista giocare allegramente e che sono resi palpitanti agli occhi del lettore, si stagliano figure umane statuarie come nonna Pia, la saggia, o nonno Cesare, uomo possente, apparentemente rude, ma tenero come un bambino: figure che, nella loro semplicità, hanno saputo trasmettere sentimenti sani e profondi e sono state per lei modelli esemplari. E' uno scorcio di autobiografia che ha il pregio di far conoscere non solo un periodo magico della vita dell'autrice, ma anche di presentare un luogo incantevole, ancora in parte incontaminato, il tutto rivisto attraverso la meraviglia dei suoi occhi di bambina e la maturità di una donna che ha vissuto ed amato intensamente. 
Filomena Loreto 
Al mormorio delle onde sulle rive di Latte mi tornano voci vicine e lontane. 
Di Villa San Gaetano mi accompagnerà sempre il melodioso canto del mare infrangersi contro gli scogli e rappresenterà per me il rifugio alle controversie senza via d'uscita. Lo sbocco catartico di una ripresa. 
Ho sempre considerato quella di Villa San Gaetano la mia unica spiaggia. 
Piccolo lembo di terra che racchiudeva l'universo. Il mondo circoscritto attorno alla Villa è stato la palestra in cui ho appreso l'abc della vita in simbiosi con la natura. Mi porterò sempre dentro questo legame con la natura, la mia grande madre, la mia consolatrice, il mio anello di congiunzione fra presente, passato e futuro. Il mio raccordo fra vita e morte, senza soluzione di continuità. In mezzo a quella natura, in stato di semi-verginità, ho vissuto i primi cinque anni della mia vita, di cui ho vari nitidi ricordi e, in seguito, le estati più serene della mia fanciullezza. Ero circondata da un'atmosfera ricca di stimoli affettivi, ma un po' ferma nel tempo dietro i visi seri deí nonni, a volte un po' ovattata nei silenzi delle stanze in cui rimbalzavano solo gli echi delle onde. 
Atmosfera che obbediva a ritualità quasi cristallizzate, anche se attraversate dalla guerra, dai lutti e dalla tecnologia. Ho ancora nella mente i rimbombi delle cannonate della seconda guerra mondiale, il pianto e la disperazione della mamma per la morte in guerra di suo fratello Aronne, il passaggio del treno che faceva tremare le pareti della casa. Eppure nulla mi ha lasciato segni negativi. Tutto era vissuto in armonia con la sicurezza affettiva dei cari e dei luoghi. Così, ora lo capisco, sono cresciuta senza particolari paure, se non quelle dettate da un minimo di prudenza esistenziale [...]
Maria Pia Urso, Villa San Gaetano, youcanprint, 2015

martedì 28 ottobre 2025

Mario Calvino: un grande divulgatore della floricoltura


Mario Calvino nasce a Sanremo il 26 Marzo 1875, si laurea a Pisa in Scienze Agrarie nel 1899 diventando più tardi libero docente della stessa disciplina. Nel 1901 è nominato Direttore della Cattedra ambulante di Porto Maurizio, Imperia, Olivicola e Orticola.
Nel 1909 si reca in Messico e in altre zone del Centro America per svolgere attività di ricerca e sviluppo delle agricolture locali insieme a Eva Mameli, una studiosa di botanica, valida e insostituibile collaboratrice, che diventerà sua moglie.
Nel 1917 sono entrambi a Cuba, a Santiago de las Vegas dove svolgono la loro attività di ricerca agronomica presso la locale Stazione Sperimentale.
In seguito si trasferiscono nel sud-est dell’isola, quando Calvino riceve l’incarico di fondare una stazione sperimentale per lo studio della canna da zucchero da parte di una ditta locale.
Molteplici sono i loro studi nel campo fisico e biologico ma mai disgiunti dall’applicazione pratica: Mario Calvino era convinto, infatti, che il miglioramento delle attività agricole avrebbe contribuito notevolmente al progredire delle condizioni sociali ed umane dei popoli.
I suoi numerosi viaggi all’estero gli permettono intanto di perseguire un’attenta opera di ricerca di piante adatte ad essere impiantate nel particolare clima di Sanremo, i cui semi vengono selezionati e spediti con regolarità alla Stazione “Orazio Raimondo”.
I primi semi di Persea drimifolia e di Casamiroa edulis, vengono inviati dal Messico nel 1909. Nel 1910 vengono piantati a Sanremo i primi esemplari di “Grapefruit” sempre inviati da Calvino dalla Florida. Nel 1938 esce una pubblicazione sulle varie specie e sulla coltivazione dell’Avocado e al Congresso Internazionale di Berlino presenta una relazione sulla diffusione a Sanremo di frutti tropicali e subtropicali.
Dopo il suo rientro in Italia nel 1925 come Direttore della Stazione Sperimentale di Floricoltura “Orazio Raimondo” sviluppa la coltivazione della Sterlitzia reginae.
Quanto detto mostra come Calvino sia stato un grande divulgatore della floricoltura: egli aveva intravisto lo sviluppo che avrebbe assunto la coltivazione dei fiori, ma soprattutto, grazie ai suoi contatti, Calvino compie una grande opera di introduzione di germoplasma subtropicale, anche australiano. Emerge così la sua grande opera di promotore dell’evoluzione genetica floricola: fu infatti il primo ad inculcare ufficialmente ai coltivatori la convenienza di occuparsi di ibridazione e selezione.
Fra le principali specie introdotte meritano di essere ricordate: Hedychium coronarium (India 1926), Dahlia Maxoni (Guatemala 1926), Photinia arbutifolia (California 1927), Anigozanthos Manglesi (Australia 1939).
Nel 1934 vi è notizia dell’introduzione del Chaemelaucium uncinatum e varie piante ornamentali come Oreopanax capitata, Trevesia palmata, Ficus sp, Sanseviera, piante da foraggio, da alcool e così via.
Tra i fondatori della Stazione Sperimentale per la Floricoltura “Orazio Raimondo”, Calvino ne rimane Direttore fino al 1950 quando è costretto a lasciare per raggiunti limiti di età; muore poco dopo, il 25 Ottobre 1951.
Il Prof. Alberto Pirovano ricordava così Mario Calvino: “C’era tra noi una comunanza di sentimenti: il fascino dell’ignoto, della via vergine, delle realizzazioni peregrine o difficili da conseguire. Vi è analogia fra lo spirito dell’esploratore che incede tra mille difficoltà alla scoperta di una terra, di una flora o di una fauna e lo sperimentatore che s’accinge a nuovi cimenti con metodologia necessariamente improvvisata, imperfetta, ma sua. Ed è da questa affinità di sentimenti che nasceva fra me ed il caro scomparso una reciproca stima e una salda fiducia attestata da fatti”.
Alfredo Moreschi, Calvino prof. Mario, Nuovo "Fiori di Liguria" (in ricordo del Professor Giacomo Nicolini), 2020