domenica 14 settembre 2025

Abbiamo trovato nel quartiere ecologico l’interpretazione che integra al meglio le esigenze del Comune

Fonte: Tesi cit. infra

L’obiettivo di questa tesi è quello di affrontare la progettazione di un nuovo quartiere residenziale a Vallecrosia, piccolo centro urbano in provincia di Imperia, cercando di soddisfare le direttive comunali e allo stesso tempo le istanze di efficientamento energetico ambientale, espresse nelle contemporanee progettazioni di eco-quartieri ed edifici N-Zeb <1.
Il punto di partenza del nostro lavoro corrisponde alla partecipazione alla competizione internazionale Solar Decathlon Europe 2019, avvenuta durante il Laboratorio di progetto Tecnologia e Ambiente, a cui la Scuola Politecnica di Genova ha partecipato insieme ad altre 8 Università italiane riunite nel Team SEEDItaly <2, di cui capofila è stato il Politecnico di Milano.
Fine della competizione è la progettazione di un Nucleo Abitativo N-Zeb, che sia concepito e progettato per essere innovativo dal punto di vista tecnologico, energetico, funzionale e formale. Il principio fondamentale della gara è che i progetti elaborati non rimangano prototipi fini a sé stessi, ma possano trasformarsi in edifici multipiano per la progettazione in scala urbana.
In sede di laboratorio quindi abbiamo sviluppato il prototipo base - modulo abitativo - elaborando il tema della competizione “densificazione urbana” come “densificazione verde” su base modulare, elementi che rimangono fondamentali nella fase di studio successiva per un edificio residenziale, che costituisce l’elemento base della pianificazione di un tessuto urbano.
Per l’applicazione di questo esercizio progettuale è stata scelta un’area all’interno del Comune di Vallecrosia per la quale l’Amministrazione prevede la trasformazione in Quartiere Residenziale, attualmente ad uso agricolo ma in stato di progressiva dismissione, caratteristiche che, facendone un “vuoto urbano” e una delle poche aree rimaste disponibili per interventi di nuova costruzione, la rendono adatta a questa sperimentazione.
Identificato come Distretto di Trasformazione n° 12 (D.T. 12), il sito si estende su circa 98.500 mq ed è suddiviso in 7 sub-distretti che ne differenziano a livello normativo i limiti quantitativi dell’intervento in termini di superficie agibile, numero di abitanti e standard urbanistici.
In sede di laboratorio il progetto è stato sviluppato ponendo maggiore attenzione sullo sviluppo del modulo abitativo in un quartiere residenziale, osservando solo parzialmente la normativa: l’organizzazione distributiva e funzionale dell’intervento è stata elaborata considerando il distretto nella sua totalità, tralasciandone la suddivisione interna in sub-distretti.
[...] L’idea della tesi nasce dalla volontà di coniugare il progetto originario sviluppato in laboratorio con una progettazione effettiva al fine di fare di questo intervento uno strumento per la risoluzione delle criticità esistenti e un’occasione di rilancio per il territorio.
In prima battuta è stato per noi fondamentale approfondire il significato di città giardino dalle sue origini ad oggi, cosa si intende per quartiere sostenibile e come questi due concetti si possano fondere e creare un unico pensiero pianificatorio che si possa rapportare con Vallecrosia nella sua realtà urbana e normativa.
Questa ricerca ci ha portato all’approfondimento dei riferimenti tipologici dati dal comune, il quale, per città-giardino intenderebbe una realtà di sobborgo residenziale a medio bassa densità insediativa, caratterizzato dalla presenza del verde e che viene resa conforme alle attuali necessità di efficientamento energetico attraverso l’orientamento tipologico del quartiere sostenibile, intendendo con questa espressione il livello più prettamente tecnologico e prestazionale dell’intervento.
Alla luce di queste considerazioni abbiamo trovato nel quartiere ecologico l’interpretazione che integra al meglio le esigenze del Comune quindi gli aspetti imprescindibili della città-giardino e quelli del quartiere sostenibile armonizzando in un approccio unitario i due relativi livelli di pianificazione a fronte delle note esigenze ambientali, ma anche sociali.
Su questa base il progetto da singola proposta è diventato una sequenza di 4 possibili approcci progettuali, partendo dal più frammentario, derivato dalle regole dettate dal P.U.C., per arrivare a quello finale, unitario, in linea con l’approccio più ecologico, articolando la progettazione su criteri scelti e gerarchizzati a fronte dell’analisi dell’area, dei precetti della normativa urbanistica ed edilizia e della nostra elaborazione delle previsioni-richieste fatte dalla committenza.
[...] Una prima analisi della Normativa Edilizia del Comune di Vallecrosia per le nuove edificazioni suggerisce una tipologia edilizia assimilabile alla casa a schiera e a quella in linea, tipologie edilizie residenziali tradizionali fino all’avvento della densificazione urbana del Secondo Dopoguerra che, con la costruzione di palazzi fuori scala rispetto al contesto tanto nei volumi quanto nelle forme, ha stravolto il tessuto urbano di Vallecrosia, distaccandola anche sul piano estetico dalla vicina Bordighera.
Questa tipologia inoltre risulta in linea con il modello di città-giardino preso a riferimento per la Nuova Area Residenziale, evitando l’alta densità edificatoria.
[...] Passando ora all’analisi del progetto, il Distretto di Trasformazione n° 12 (D.T.12) si presenta come un lotto di circa 98.000 m 2 attualmente ad uso agricolo, si inserisce nella piana costiera dei Piani di Vallecrosia e si tratta di un vuoto urbano delimitato a nord dalla Via Romana, che perimetra l’area ad una quota relativa di + 7 metri, a ovest da Via Giovanni Bosco, ad est da Via Padre Pio e dal confine con Bordighera ed infine a sud da Via Angeli Custodi. Queste vie perimetrali al lotto sono tra quelle su cui si concentra maggiormente il traffico veicolare di Vallecrosia e attorno alle quali l’attività edificatoria è stata più intensa. Attualmente è occupato da impianti a serra in gran parte abbandonati e dal notevole impatto ambientale. Il P.U.C. prevede il completamento del processo insediativo attraverso la realizzazione di nuova edilizia residenziale che dovrà essere caratterizzata da un elevato standard qualitativo dal punto di vista architettonico e dal punto di vista della sostenibilità ambientale e bio-ecologia, tale da porlo come modello di sviluppo e di studio in grado di attrarre un “turismo professionale”.
[NOTE]
1 N-Zeb, nearly Zero Energy Building, si intende un edificio a rendimento energetico elevato, il cui fabbisogno energetico (seppur minimo) venga coperto in larga parte da fonti rinnovabili. Il concetto espresso da questo termine si può assimilare a quello di casa passiva.
2 SEEDItaly, Sustainable Energy Efficient Design Italy, coordinato dal Politecnico di Milano.
Beatrice Boido e Federica Cannici, Cambiare Vallecrosia: da un modulo abitativo ad un eco-quartiere, Tesi di laurea, Università degli Studi di Genova, 2019 

venerdì 5 settembre 2025

La Parasenegalia Visco è segnalata in Italia solo in Sicilia e a Ventimiglia


La Parasenegalia Visco di Via M. E. Basso a Nervia di Ventimiglia (IM). Foto: Silvana Maccario

Il mio mondo di appartenenza, quello vegetale, ieri e oggi.
I primi boschi che ho attraversato e percorso quelli delle favole raccontate dagli adulti.
Quello pieno di paura di Cappuccetto Rosso, quello allegro di Pollicino che sapeva come non perdersi, quello protettivo della Bella au bois dormant, quello pauroso attorno al palazzo di Barbablù.
Più avanti i boschi addomesticati sarebbero stati quelli delle nonne, avrei fatto conoscenza con i lillà in cui avrei tuffato il naso, la Justicia carnea chiamata Giustizia, con i suoi fiori tubolari che avrei scoperto ricchi di un dolce nettare, e gigantesche ortensie. Queste le mie prime amiche perchè avevano un nome come lo hanno i veri amici. Gli adulti quasi mai mi presentavano i veri nomi e cognomi, come avrei poi imparato in seguito, se non qualche volta in dialetto.
C’era nel giardino di una nonna una rosa che solo anni dopo avrei potuto chiamare e salutare.
Una rosa diffusa nelle coltivazioni del ponente che i floricoltori spedivano nel nord Europa.
Era la Gruss an Koburg, ibridata da Ducher in Germania.
A scuola [n.d.r.: a Ventimiglia, località Nervia] avrei amato il profumo del Pitosforo, sotto cui saremmo state fotografate nel cortile della scuola, noi piccole alunne dal grembiule con il fiocco, insieme alla maestra. 
All’ingresso tre imponenti alberi ignoti mi avrebbero inebriato con il loro profumo annunciandomi la fine dell’anno scolastico. Le chiamavano Gaggie, non è stato facile risalire alla sua vera identità. Forse erano state piantate dal dottore e benefattore Ludovico Isnardi nel 1918-9 quando vicino agli scavi romani eresse la sua clinica.
Clinica che nel tempo avrebbe avuto diversi utilizzi.. Collegio di suore francesi, e poi scuole statali elementari, per diventare Ospedale ed essere recentemente abbandonato.
I suoi pesanti rami contorti hanno sostegni in cemento per evitarne la rottura. Le chiome sono immense e raggiungono la sovrastante via Aurelia e le sue radici saranno finite sotto i mosaici romani raffiguranti i delfini.
Ancora oggi quando transito da quelle parti apro il finestrino dell’auto per far entrare quell’aroma avvolgente che sa di terre lontane.
Dopo infinite diatribe tra gli appassionati si è giunti alla sua esatta identificazione. Arriva dall’Argentina, Bolivia, Perù, ama le altitudini i terreni aridi e il caldo.
È segnalata in Italia solo in Sicilia e a Ventimiglia.
Si chiama Parasenegalia Visco o più comunemente Acacia Visco.
Del grande Gelso che si affaccia alla finestra dell’aula sapevo molte cose imparate sul libro scolastico.
Sempre da quelle parti, mi appassionava per la forza che esprimeva, una pianta dal fogliame grigio-argenteo e dai fiori giallo limone, arrampicata a strapiombo, cresciuta in una crepa del Cavalcavia ferroviario, con vista sulle terme romane, anche lei innominata.
Il suo nome era Nicotiana glauca.
Ama le macerie e i muri vive di niente.
Ho occupato crescendo e diventando adulta e ormai con i capelli bianchi, di cercare  di dare un nome alle piante anche le più umili che erroneamente si chiamano erbacce.
Sono diventate così care amiche che mi hanno raccontato le loro storie che sono racchiuse nei loro nomi botanici, che a saperle leggere ci forniscono la loro esatta identità.

Silvana Maccario

giovedì 4 settembre 2025

Un recente libro dedicato alle figure femminili più significative della Resistenza nel Ponente ligure


"Protagoniste. Storie di donne e Resistenza nel Ponente ligure” è un volume appena pubblicato da Fusta Editore, scritto da Daniela Cassini, Gabriella Badano e Sarah Clarke Loiacono allo scopo di recuperare attraverso fonti locali che vanno dall'Istituto Storico della Resistenza (ISRECIM) ad archivi privati, le figure femminili più significative della Resistenza nel Ponente ligure. Lo scopo della ricerca è dichiarato già nel titolo: colmare una lacuna pesante negli studi sulla Resistenza nella provincia di Imperia, dando voce alle storie spesso taciute delle donne che furono protagoniste della lotta di liberazione dal nazifascismo in questa area.
Vengono così raccontate storie personali, come quelle delle sorelle Evelina e Giuliana Cristel, della loro attività resistenziale a Sanremo e della loro deportazione, di Dora Kellner, ebrea tedesca e intellettuale titolare della pensione “Villa Verde” a Sanremo, rifugio per esiliati e intellettuali, delle partigiane Alba Galleano (moglie dello scrittore Guido Seborga, anche lui partigiano) e Lina Meiffret: Sbaglierebbe chi pensasse ad un collage di storie individuali. Il libro ha anche una dimensione collettiva esplorando tra l'altro le vicende dei Gruppi di Difesa della Donna nella Provincia di Imperia. A mettere in luce l'importanza della rete creata da molte donne, tra cui contadine, staffette e commercianti, che fornirono supporto fondamentale alla lotta partigiana.
Questo libro si inserisce in un filone storiografico più ampio che negli ultimi anni ha cercato di recuperare e valorizzare il ruolo cruciale delle donne nella Resistenza italiana. Per troppo tempo, infatti, il contributo femminile alla guerra partigiana è stato marginalizzato o ridotto a funzioni di mero supporto logistico. Tuttavia, studi recenti e testimonianze dirette hanno sempre più evidenziato come le donne abbiano partecipato attivamente, anche come combattenti, staffette, organizzatrici e propagandiste, contribuendo in modo significativo al successo della lotta di liberazione prima e alle battaglie per l'emancipazione femminile nel dopoguerra.
Un libro scritto con molto cura, sensibilità tutta femminile e, perché no, con amore. Che intreccia fotografie, documenti, testimonianze e memorie familiari per ricostruire un mosaico di voci femminili di grande spessore. Un libro che restituisce finalmente dignità e notorietà alle donne del Ponente ligure che hanno lottato per la libertà. 
Giorgio Amico, Partigiane, ma prima di tutto donne, Vento largo, 12 luglio 2025

lunedì 25 agosto 2025

Me mangereva una feta de pisciadela


Parlando della "belotta" non intendo parlare di una partita a carte ma di una trasmissione di Radio Ponente che negli anni 70 cambiò le abitudini dei ventimigliesi e li rese più partecipi alla vita pubblica obbligando quindi anche gli amministratori di allora ad essere attenti alle necessità dei cittadini.
In poche parole era l'antesignano di quello che poi sarebbero diventati i social network con i vari facebook, twitter e blog.
Nata - mi pare - da un'idea di Luigino Maccario, che era quella di riunire attorno al tavolo di un bar immaginario un gruppo di giocatori di carte (la scelta fu per la belotta poiché era e credo sia ancora molto popolare nella nostra zona), che giocando discutessero dei problemi della città bonariamente proprio come si fa all'osteria.
Fin dalla prima trasmissione - mi pare che andasse in onda il mercoledì - l'ascolto fu altissimo e le telefonate piovvero come in un temporale estivo: la voce si sparse e da allora l'ascolto crebbe di volta in volta anche perché Radio Ponente aveva portato a Ventimiglia un grande interesse essendo una delle prime radio private (allora si chiamavano radio libere) italiane e l'unica che avesse un palinsesto comprendente tanta musica ma anche cultura, informazione, tradizioni e contatti con gli ascoltatori in diretta.
Perché piaceva così "La belotta"? 
Reputo che si sarebbe potuto farne uno studio sociologico ma che le motivazioni avrebbero potuto essere queste: perchè diceva quello che i cittadini avrebbero voluto dire e quindi era portavoce dell'opinione pubblica (capitava spesso che i protagonisti della trasmissione venissero contattati per strada e informati sui problemi da trattare dai ventimigliesi); perché lo diceva in modo semplice, in dialetto, e trasformava gli ascoltatori in protagonisti che si immedesimavano nei vari personaggi; perché i giocatori di belotta rappresentavano le varie tipologie della popolazione intemelia di allora - infatti oltre ai popolani un po' bonari ma sagaci c'era il villeggiante industrialotto milanese un po' bauscia, un po' blasè e l'immigrato, che per farsi vedere integrato si esprimeva in un dialetto "ligurese" come diceva lui molto improbabile ma di grande impatto - qualche esempio: il tram era "a currera cu e bretelle", il motorino "a bricichetta a fogu", il posto di lavoro Juan les Pins diventava Giovanni Lu Pino e così via -).
Ma penso che il successo maggiore del programma fosse dovuto proprio al fatto che nasceva in diretta. Non esisteva un copione, ma solo l'indicazione di una serie di argomenti da trattare e poi via, come nella commedia dell'arte il dialogo partiva: non c'era regia, non c'erano sovrapposizioni di voci come nei talk show d'oggi e chi voleva parlare alzava la mano (questo naturalmente l'ascoltatore non lo sapeva) e lasciava finire il discorso del giocatore precedente.
Tale era la partecipazione che bastava che un partecipante dicesse "Me mangereva una feta de pisciadela" che dopo pochi minuti arrivava una vera pisciadella offerta dagli ascoltatori e così per il vino o altre cibarie.
Ritengo che quel tempo sia ormai irreplicabile, ma devo dire che Radio Ponente è stata una delle più belle esperienze della mia vita!
Gianfranco Raimondo, Ai tempi della belotta, Ventimiglia d'antan... il gruppo, 6 agosto 2025 

domenica 17 agosto 2025

La prigionia di guerra di un ventimigliese che non doveva neppure partire

Ventimiglia (IM): uno scorcio di Località Ville e, a sinistra, della Frazione Latte

Aldo [n.d.r.: Aldo Viale, padre dell'autore, residente in Località Ville di Ventimiglia] e Giosino come altre migliaia di soldati italiani erano prigionieri in tempo di pace, che la guerra mondiale era finita dappertutto. Era una situazione triste, anomala, non prevedibile nelle possibilità della vita.
Aldo sperava di tornare a casa presto, aspettava una nave che andasse a prenderlo. A raccontarla tutta, dalla lettera di Aldo del 29 aprile 1943 si può dedurre che l'ordine di rimpatrio per esonero in quanto titolare di impresa agricola, era arrivato in Tunisia, quando era troppo tardi e ormai era il momento della resa e dei campi di una lunga prigionia. Scrive infatti alla mamma ed alla sorella:
"Carissime, È l'ultima volta che vi scrivo dal suolo africano. Vi avevo già scritto stamane ma non ero ancora a conoscenza di nulla. Nel pomeriggio è arrivato l'ordine del mio rimpatrio. È venuto il tenente ad annunciarmi questa nuova. Forse questo è il più bel giorno della mia vita. La salute è ottima e il morale è veramente altissimo. Non so i giorni che dovrò stare ancora in giro perché domattina vado al comando Btg. e domani sera sono sicuramente a Tunisi. Appena sarò sul suolo siciliano vi scriverò nuovamente speriamo che il viaggio mi vada bene come mi è sempre andata finora. Forse dovrò rimanere un paio di settimane al campo sosta per vedere se ho malattie africane ma ciò si fa nei pressi di Palermo. Appena toccherò il suolo italiano lo bacerò sicuramente. State alte di morale non datevi pensiero per me che presto vi abbraccerò entrambe. Molte cose vi dirò e vi giuro che, se non ho oltrepassato Roma non assaggio brodo d'uva per avere la testa calma perché quella zona è un po' infetta da zanzare. Saluti infiniti a tutti e voi due un milione di caldi baci vostro per sempre, Aldo 20-04-43"
Un timbro informa: "Lettera verificata per censura." 
Aldo in quei frangenti ha quasi 32 anni. Il rimpatrio non avviene. Non c'erano più navi che da Tunisi portassero almeno a Pantelleria. Erano solo 35 miglia. Si vedevano scene di gruppi di militari, tanti tedeschi e pochi italiani, che costruivano zattere di fortuna con bidoni da benzina vuoti. Appena prendevano il mare venivano mitragliati e affondati. Era il contrasto tra il coraggio e la disperazione.
Il foglio matricola di Aldo attesta l'inizio della prigionia in data 11 maggio 1943 nel fatto d'arme di Kelibia. 
Il 30 dicembre 1943 mamma Lilla scrive sul suo diario: "oggi abbiamo ricevuto due tue lettere, però non abbiamo ancora il tuo indirizzo. Sono state scritte in data 27 giugno 1943 e sopra vi è il timbro di New York, abbiamo idea che tu sia laggiù."
Ma si tratta di un'idea errata perché la posta dei prigionieri di guerra faceva giri lunghi e strani grazie alla Croce Rossa e al Vaticano, e Aldo era in realtà a Marrakech.
[...] La nave per portare Aldo e quelli come lui da Casablanca (porto vicino a Marrakech) a Napoli arrivò a fine aprile 46, un anno dopo la fine della guerra.  Il cinegiornale della Settimana Incom del 27 luglio 1946 per uno dei tanti viaggi racconta: "Casablanca, lo storico molo che vide il primo sbarco alleato. Giungono dall'Africa settentrionale i reduci italiani. Sfilano sotto gli occhi delle sentinelle di colore che sono le ultime tristezze di una guerra non voluta a cui hanno dovuto dare lacrime e sangue, anni della loro giovinezza. Salgono lo scalandrone che li porta sulla nave italiana primo lembo del suolo patrio venuto incontro a loro sulle soglie del deserto. Ancora lì cuoce il suolo africano ma tra poco saranno le brezze marine a ventilarli con l'odore della salsedine che sarà come il profumo della libertà ritrovata. Sanno che la patria li aspetta, è povera, è stremata ma per loro è una madre ed essi tornano a dare una mano per ricostruirla. Ciò che hanno sofferto non li ha fiaccati. Sono pronti ad offrire nuovamente all'Italia il loro braccio di uomini liberi. Evviva l'Italia."
Ma i soldati che tornano dalla guerra corta e dalla prigionia successiva che è stata lunghissima, sono stati amanti del silenzio.
[...] Aldo, dimesso dal centro alloggio di Afragola, è fiaccato dalla malaria ma almeno non deve più rassicurare la famiglia nelle sue lettere. Sul treno per Ventimiglia viene avvicinato da una donna e i soldi che gli hanno appena dato non li trova più. 
Arturo Viale, I sette mari. Storie e scie di navi e di naviganti e qualche isola, Book Sprint Edizioni, 2024 

venerdì 8 agosto 2025

La città è una delle tante della riviera dei fiori


Bordighera (IM): scogli di Sant'Ampelio con vista sino a Capo Verde di Sanremo


Oggi professorini e scrittoruncoli di Cloche Merie vogliono "fare l'avanguardia....." Ciò è ridicolo, e so cosa ne avrebbero pensato gli amici Tzara, Severini, Spazzapan.....
Paolo del Monte viveva scatenato e libero, nuovo ogni istante, gioia e disperazione erano il suo "double" crudele da cui non poteva uscire anche se gli riusciva di uscire da qualche rischiato suicidio, e la vita molteplice nei suoi fenomeni terrestri e infiniti lo riprendeva. Paolo detto Cocco non "voleva" scrivere, a volte in una vita disancorata e indifesa, doveva scrivere, non ne poteva fare a meno.
Le poesie sono bagliori, lampi incisi, densi e luminosi in ritmi scanditi e sicuri.
Potevamo pensare che avesse difficoltà a comporsi in prosa, in questo lungo racconto, si decompone e compone all'orlo di una catastrofe mai dichiarata ma sempre latente e resiste, si svincola e inventa un suo ritmo (che nasce dalla poesia) che gli offre ogni realtà mai integrata alla idiota società del consumo con la sua automazione tecnologica. L'equivoco più volgare, di basso colturismo nazionalautarchico è di confondere tra tecnica (necessaria alla sopravvivenza) e le scienze e la scienza dell'uomo. Già da anni scriviamo che la tecnica che si mangia la scienza dell'uomo e la causa d'ogni crisi e potrà segnare l'inizio d'ogni rovina, e il nuovo "double" infimo attuale dell'uomo "robot-scimmia". Paolo del Monte perfettamente consapevole di questa atroce dissociazione, nonostante tutto cerca vuole e a volte trova la vita, sia che immagini in fantasia terre lontane note ed ignote, sia che nelle blandizie della costa, trovi ogni stato d'animo possibile e impossibile, la sua pagina è ricca e intensa dove l'azione s'intreccia con gli stati d'animo vissuti sempre sino all'orlo di una catastrofe cosmica. Ora che tra noi e Paolo del Monte è tempo morto, Cocco ci raggiunge con le sue poesie con il suo Petite fleur, è vivo e sorridente, raffinato e incredulo verso ogni cretineria di vario colore, ma sempre oltre il bene e il male incerto, convinto che all'uomo occorra libertà integra e totale, ci raggiunge con la sublimazione e supremo-estremo riscatto in arte delle sue alienazioni, che sono poi quelle di un'epoca. Il gioco può sembrare "facile" ai pedanti lette rati italioti, ma Paolo del Monte conosce invece meglio di tanti pompieri della letteratura o delle pseudoavanguardie di paese e provinciali, non solo la vita aperta e misteriosa, ma anche la storiografia scientifica dell'epoca nostra di falliti girabulloni e ominidi.                                  Guido Seborga, In memoria di Paolo Del Monte, Bordighera - Settembre 1974, articolo ripubblicato in Paolo del Monte alias Cocco, Petite fleur, estate che brucia (Racconto Sperimentale), Unione Culturale Democratica, Bordighera, novembre 2020, pp. 7,8

Bordighera (IM): Porta Sottana

La città [Bordighera] è una delle tante della riviera dei fiori, dall'aspetto un po' coloniale. Tolto il piccolo vecchio paese medioevale, il resto ha un aspetto di provvisorio ed artificiale: hotel, pensioni, affittacamere sono le attività principali della gente del posto. Eppure era nata bene questa città, fondata dagli inglesi: piccole ville in stile provenzale sommerse dal verde lussureggiante; "la città delle palme", era. Poi, gli inglesi vinsero la guerra e la sterlina perse valore. I lord e gli ammiragli in pensione divennero rari. Gli italiani, nella ricostruzione, in un delirio di cemento armato hanno smembrato i giardini, demolito le ville erigendo palazzi, alveari inumani. Ora per vedere il mare bisogna andare sulla battigia, le palme, se continua così, andremo al museo per vederle, e saranno di plastica. Per fortuna c'è la crisi edilizia, altrimenti si arrivava ai grattacieli sul lungomare. In compenso c'è il turismo di massa, una folla vociante, dialettale, provinciale e villana, rompe l'incanto dei lunghi silenzi notturni. Gli eroi del sabato sera e della domenica si sentono tutti corridori automobilistici. Il sangue ogni tanto sporca l'asfalto. Turisti, il salumiere di Pavia, la ragazza squillo di Biella, il tranviere di Milano e l'impiegato alla Fiat di Torino. Folla, folla anonima, uguale nei gesti, nel dire o tacere, visi smunti aggemellati dal lavoro a catena, robot rincretiniti dalla civiltà dei consumi, la propaganda dei prodotti di ogni genereli assorderà, accompagnandoli per tutta la vita. Vado sul lungomare in un tranquillo bar all'aperto, mi sdraio sulle apposite sedie, il mare mosso manda pulviscolo salmastro che la brezza diffonde nell'aria, le cactee hanno un brivido di carni verdi, l'ansimare profondo del mare mi culla come morbida nenia. Mi crogiolo al sole. Oh il sole! Lo porto nell'anima, mi entra nelle vene, sono un figlio del Sole. I miei pazzi antenati vennero dall'oriente solatio, dai deserti roventi. Poi un lungo vagare, cittadini del mondo per disperazione, dalla Spagna cacciati dalla cattolicissima Isabella siamo approdati qui, in questa povera Italia tollerante.
Passa il letterato Guido che saluta con un cenno della mano, incede con lunghi passi, è sulla pista di una femmina; come segugio segue la preda. Anche lui, è un sefardita dal profilo sumerico, ci vuole poco, per immaginarlo vestito in un certo modo, con una scimitarra al fianco: anche lui è un figlio del Sole. Sul mare di cobalto, lontano passa una nave bianca, bianchissima, miraggio pare, di moschea smagliante. Petite fleur, suona il sax del vecchio Sidney Bechet, è il disco nuovo dell'estate. Non ho niente da fare e sono contento di non fare niente, malgrado tutto sono innamorato della vita che mi sono costruito. Bevo un Bacardi, bianco rum di Martinica, che ricordo con tenerezza quasi dolorosa, laggiù, lontana come un sogno; Martinica, amore bruciante di Margot dalla pelle di vellutato ebano, laggiù, nel caraibico ombelico dell'America. Passa l'uomo delle ostriche, lo fermo. Questo vecchio pescatore dal viso scolpito dalle intemperie, il suo secchio di legno con le ostriche, il modo di staccare il mollusco con un coltello e porgerlo innaffiato di limone esercita nel mio intimo un fascino strano, tant'è, che rapito da questa visione mangio trenta delle sue ostriche piuttosto care. Tutto è avvenuto in silenzio come in un rito arcaico e civilissimo. Pago, e ci salutiamo con un cenno del capo. Guardo le azzurre alpi marittime, Nizza, Cannes, S. Tropez, vi tornerò, quando l'estate sarà bruciata. Petite fleur, ripete il disco nel sole abbacinante, chiudo gli occhi, quasi dormo, pervaso da un caldo e benefico torpore. Avverto ciò che mi circonda come cose lontane: sono un'isola beata; se Dio creò il sole è un Dio grande. Il bar è raggiunto da una comitiva di turisti tedeschi, braghe di cuoio, cappelli tirolesi. Questi tarchiati bavaresi vocianti sono sguaiati, e ridono, non per un motivo preciso, ridono per ridere, sì, ridono per niente o per colmo di imbecillità. Qualcuno mi ha detto che è il clima di qui che li fa uscire di senno i teutoni; mah, io so che o come truppa o come turisti, siamo sempre invasi. Sputo un'imprecazione tipicamente ligure, mi alzo, accendo la pipa e passeggio fendendo la folla. Mi siedo su di una panchina, arrivano due giovinastri con una radiolina a tutto volume; è inutile, la pace è avvilita; forse, sulla terrazza del Kursaal... No, è troppo presto; cammino, raggiungo il bar della Posta, entro; uffa, c'è la televisione! un tipo dal video sbraita non so cosa, l'unica è andare nel cesso a leggere il giornale.

Paolo del Monte alias Cocco, Petite fleur, estate che brucia (Racconto Sperimentale), Unione Culturale Democratica, Bordighera, novembre 2020, pp. 14-17

Bordighera (IM): una bella costruzione che chiude lato mare Piazza Mazzini; sulla sinistra, seminascosto, il citato Caffé della Posta

Il Ferragosto è esploso in un fragore di fuochi artificiali. Belli quest'anno, i fuochi artificiali, un milione andato in fumo, è la specialità dei paesi poveri, in Egitto ne fanno dei magnifici.
Scende languida la sera, in noi è la smania di vivere, di bruciare le tappe; domani può essere tardi. Domani mattina ci si sveglia con un regime di colonnelli, ciò non è improbabile; io lo sten lo tengo oliato, non si sa mai...
Incontriamo il pittore Pit con la sua donna di turno e...
- Ciao bastardo.
- Uh, la mia vecchia troia!
- Andiamo in Francia a prendere l'aperitivo? - Propongo io.
- Sì sì.
- In Francia in Francia! - Gridano le ragazze. Si parte per Menton al canto della marsigliese; è la presa della pastiglia! Di simpamina.
Menton è festaiola, è la Francia eternamente giovane, ed è bella la nuova generazione con i capelli lunghi e le facce da "me ne frego". È l'ora dell'aperitivo che tutti bevono. E' il pastis alla menta, alla granatina, o puro con una goccia d'acqua gelida. Colori morbidi di pastello, è la Francia dei francesi e di tutti gli altri, che non sono "stranieri" perché nessuno glielo ricorda, è un non so che, che mi entra nell'animo, una sensazione esilarante, un qualche cosa di invisibile e di palpabile nello stesso tempo, è una civiltà di cui mi sento partecipe. Qui, nessuno è escluso.
Entriamo per finire al Bar Golfo di Napoli. Ci uniamo al gruppo di gente che beve aperitivi col gomito sul banco e intavoliamo una discussione che pare serissima [...]

Paolo del Monte alias Cocco, Petite fleur, estate che brucia (Racconto Sperimentale), Unione Culturale Democratica, Bordighera, novembre 2020, pp. 47,48

Bordighera (IM): Ville che si affacciano sulla Via Romana

Bordighera (IM): Villa e Torre sulla collina Mostaccini

Bordighera (IM): uno scorcio del Lungomare Argentina

Il numero 1 dei Quaderni dell'Unione Culturale Democratica, pubblicato nel Febbraio del 1974, è dedicato alle intense "Poesie" di Paolo Del Monte a meno di un anno dalla sua morte, avvenuta nell'Ospedale ancora ubicato sulla via Romana di Bordighera. Il secondo quaderno, avrebbe dovuto contenere il suo racconto "Petite fleur, estate che brucia" con la prefazione che Guido Seborga aveva appositamente scritto. Cosa che purtroppo non fu possibile realizzare. Trascorsi quattro decenni e più, ora finalmente col Quaderno numero quattro viene dato alle stampe quel racconto la cui pubblicazione vuole essere un riconoscimento postumo delle qualità di Paolo Del Monte che, nella sua breve vita 'bruciata', nessuno aveva sospettato. Ma anche un 'reperto' di una Bordighera d'un tempo che sorprenderà i lettori per 'freschezza' e per attualità. A Bordighera, Paolo era un personaggio che non passava inosservato. Di corporatura esile, mobilissimo, 'naturalmente' elegante, lo si poteva incontrare in giro per la città o al banco di uno dei bar che era solito frequentare. Abitava stanze in affitto che ogni tanto cambiava ben pochi mezzi, non era molto considerato dai benpensanti che lo ritenevano un perdigiorno. Frequentava alcuni pittori, in particolare Enzo Maiolino cui si rivolgeva per ogni necessità e Gian Antonio Porcheddu col quale condivideva la passione per il jazz; era amico di scrittori e poeti, di Guido Seborga che più di tutti lo aveva capito e apprezzava la sua autenticità estemporanea; partecipava alle iniziative culturali cittadine, abitualmente a quelle della 'Buca', amico dei giovani dell'UCD di cui era socio. Con i suoi comportamenti, le sue ironiche osservazioni, le sue fantasiose 'invenzioni' divertiva chi anche occasionalmente lo frequentava e lui stesso era spesso l'argomento di conversazioni bonarie e allegre. Forse nessuno aveva capito la sua intelligenza, la complessità della sua esistenza, la sua visione tragica della vita che cercava di controllare con le 'sregolatezze' che conduceva e con la scrittura, come poi si è saputo. La sua improvvisa, prematura scomparsa a soli 41 anni, 'impoverì' dolorosamente il "paesaggio umano" di cui Paolo era parte. E coincise, anche se non la determinò, con la fine della fase più formativa di quei giovani che avevano dato vita all'Unione Culturale Democratica. Giorgio Loreti in Paolo del Monte alias Cocco, Petite fleur, estate che brucia (Racconto Sperimentale), Unione Culturale Democratica, Bordighera, novembre 2020, pp. 65,66

Borghetto San Nicolò e Sasso, Frazioni di Bordighera (IM)
 
Uno scorcio di Sasso, Frazione di Bordighera (IM)

Bordighera (IM): un esercizio turistico sul lungomare

Sulla costa la vita eterogenea con l'incrociarsi di non poche civiltà, a Bordighera il segno lasciato dagli inglesi, quando occupavano dopo l'altra guerra, quasi tutte le più eleganti ville di qui, e sentore di Francia vicina, e cadenze liguri dappertutto, di un popolo duro e rugoso, di poche parole che trasforma la sua proverbiale avarizia in economia pubblica e privata.
 
Ventimiglia (IM): le Rocche di Roverino, affacciate sulla Val Roia

Strati di turisti che si sono come innestati nella zona per desiderio di viverci, da una certa agiatezza tipo zucchero filato di San Remo, mecca di giocatori e mantenute, all'asprezza di Ventimiglia con la sua ampia valle della Roja, aperta d'aria e di sole.
Bordighera al centro, più dolce e silenziosa, le giornate attive nei lavori e nei bagni, le serate più lunghe e monotone, e il pubblico estivo di bordigotti e turisti che si riversa sullo splendido lungomare.
E sempre le valli e gli incantevoli paeselli del retroterra, Sasso, Vallebona, Dolceacqua, con le loro alte antiche torri di dove i liguri studiavano le mosse d'arrivo dei pirati saraceni, e i liguri partivano per scambiare le crudeli visite di vino e donne violate e rubate...
Guido Seborga, Riviera di Ponente, Il Lavoro Nuovo, 19 agosto 1951 

mercoledì 30 luglio 2025

Era un filo ligure, quindi di ferro, Elio Lanteri

Imperia: Piazza De Amicis, la Biblioteca ed uno scorcio della banchina del porto di Oneglia

Se Francesco Biamonti è inarrivabile per intensità, Elio Lanteri è l’unico scrittore dell’estremo Ponente ligure che gli si possa avvicinare.
[...] Lanteri non teme la prima persona, non teme di coinvolgere e coinvolgersi nella narrazione: i suoi romanzi sono in prima persona. E varrà ben qualcosa. Così facendo, questo scrittore, così coinvolto eppur così ritroso, ci ha dato tra le pagine più intense della letteratura dell’estremo Ponente ligure.
Fabio Barricalla, Elio Lanteri o dell’intensità in Elio Lanteri, a cura di Fabio Barricalla con la collaborazione di Marino Magliani, La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, n° 85 - gennaio-aprile 2018 - ANNO XXIX (1)

Luigi Berio è stato professore di francese e letteratura francese, abita sulle colline di Oneglia, frequenta la città, passeggia dalle parti del porto commerciale, entra nelle librerie a comprare libri, segue gli eventi letterari della città... e un giorno conosce Elio Lanteri.
Una sera, con un amico fotografo, ero seduto ad un tavolino del caffè Piccardo a Oneglia, quando il mio amico ha fermato un passante ed ha cominciato a parlare con lui; poco dopo me lo ha presentato come un grande esperto, in particolare di letteratura spagnola: era Elio Lanteri. Subito dopo il fotografo ha fermato un altro passante e si è messo a parlare con lui. Elio ed io ci siamo guardati, un po’ imbarazzati; per rompere il ghiaccio gli ho domandato se conosceva un poeta spagnolo che io avevo scoperto da poco, J. A. Goytisolo. Elio naturalmente lo conosceva e ha cominciato a parlarne. Nel frattempo in piazza Dante dove c’è il caffè Piccardo, che è il centro di Oneglia e lì prima o poi incontri tutti, Elio ha visto un’altra persona e, chiedendomi scusa, si è alzato per salutarlo. Poi è ritornato da me spiegandomi che era un amico scrittore di queste parti, ma che viveva in Olanda. Io avevo appena finito di leggere "Quella notta a Dolcedo" e gli ho domandato se per caso si trattasse di Marino Magliani. Era così e abbiamo parlato di lui e dei suoi libri precedenti che entrambi avevamo apprezzato.
[...] E la Imperia di Elio, Luigi?
La nostra Imperia, mia e di Elio, era essenzialmente il Caffè del Porto dove ci incontravamo quotidianamente. Naturalmente non eravamo soli, a noi si univano regolarmente altri amici e si poteva parlare di tutto. Ma non era una cerchia di seri intellettuali, si parlava certo di libri e di letterartura, ma inframmezzati spesso da battute e commenti vari, a volte anche salaci. Venuti via dal bar, spesso accompagnavo Elio per un tratto di strada - allora non stava ancora a Costa d’Oneglia, ma in via Argine destro - ma quasi sempre per fare quelle poche centinaia di metri ci mettevamo molto più tempo del dovuto perché Elio, nella foga del discorso, ogni pochi passi si fermava per potermi spiegare meglio quello che pensava. E queste conversazioni mi mancano moltissimo! 
Luigi Berio, «Una sera, con un amico fotografo…» in La Riviera Ligure cit.

Bordighera, domenica 31 luglio 2011, ore 18
Giorgio Loreti, nel solito angolo dei giardini Lowe, fra libri e mostra di pittura, presenta la rivista di Torino «Atti Impuri», che coinvolge anche scrittori del Ponente Ligure: Guido Seborga, Marino Magliani, Lorenzo Muratore, Elio Lanteri. Ideatore della rivista è Claudio Panella, coi suoi amici universitari di Torino. Claudio Panella e Giorgio Loreti si alternano alla presentazione.
Nell’attesa, fra i saluti, qualcuno mi presenta Adriana, compagna dello scrittore Elio Lanteri. Lei non ricordava il mio volto attuale e io il suo. Sorpresi, ci siamo guardati. Erano anni che non la vedevo e purtroppo si cambia. È Giorgio Loreti che ha ricordato ad Adriana chi ero e del disegno della rivista. Un’esclamazione: «Ah, sei tu! Che bravo sei stato: il volto di Elio è perfetto; ho ritrovato il suo sguardo, i suoi occhi luminosi... ancora bravo».
Adriana mi parla di Elio tenendomi la mano. La guardo e nei ricordi cerco la sua immagine giovanile. Lei mi parla di Elio e della sua morte improvvisa, indimenticabile. «Sergio, “Ciacio”, credimi: sono morta anch’io. Non riesco a superare questo dolore. Ho tanta paura». La guardo nella sua fragilità di ansia dolorosa. Ho davanti a me una donna trasformata da come la ricordavo. Capelli cortissimi, leggermente scuri, tutta tesa nel suo ricordo di un amore perso e indimenticabile. Una leggera febbre l’anima: la sento attraverso la sua mano. La sua mano ancora nella mia, attimi intensi ricordando Elio. La loro è stata un’unione di amore e affetto. Ricordo che si davano sempre la mano passeggiando. Due innamorati che si guardano parlando. Davvero rara la loro unione. Ora il mio ricordo dei due amici diventa più chiaro. Lei aveva capelli lunghi, castano chiaro, quasi biondi: bella. Lui era dolce, garbato, né bello né brutto: un uomo. Ricordo che andavamo sempre a piedi da Ventimiglia, Vallecrosia, Bordighera e viceversa, verso incontri culturali. Sempre animati fra loro. Elio aveva sempre la parola. Lei, piena di premure, ascoltava. Ecco il mio ricordo di Elio.
L’inizio della conferenza ci separa. Tutti seduti sotto gli ulivi, nell’ascolto ancora di Giorgio Loreti, di Claudio Panella, degli scrittori Marino Magliani, Lorenzo Muratore; per Elio interviene Adriana. Anche Laura Hess interviene per il padre Guido Seborga. Sia Claudio che Laura mi ringraziano per i disegni sulla rivista. Un pubblico attento ascolta i vari interventi applaudendo. Un successo straordinario.
Bordighera, agosto 2011
Sergio "Ciacio" Biancheri, Elio e Adriana in La Riviera Ligure cit.

Qualche nome e una vaga cronologia. Incontro Elio in un pomeriggio d’estate di fine anni Ottanta, a Ventimiglia. A presentarmelo è Marina Lanteri, onesta impiegata della Camera del Lavoro di via Sottoconvento. Entriamo in un bar, beviamo qualcosa. È calvo, ha i baffi; io sono poco più di un ragazzo. E poi ancora qualcosa: parla di Spagna, di cieli di vita, di Palma, di gerani nel sole. E del poeta García Lorca. Mi parla di socialismo. Ha occhi morbidi, quasi apolidi. Mi chiede se ho letto "L’angelo di Avrigue" di Francesco Biamonti. Passa per me un tempo d’amore e dolore - che poi sono la stessa vita - e nuovamente lo incontro, a Oneglia, forse con Marino Magliani, nei pressi della Biblioteca. Certo al Caffè del Porto c’era un via vai di persone come d’uccelli sui fili d’autunno. E cameriere che vanno e vengono dalla cucina belle che guardarle è una sofferenza. Ora ricordo: avevamo bevuto alcuni bicchieri di vino rosso. Elio sorride. Mi dice: tutto è metafora, anche i gerani. Ricordava... Il suo cruccio sereno era conciliare la metafora con il realismo, che è un dovere. Io non sapevo né ricordo che fosse uno scrittore. Per scrivere questo ricordo ho vanamente estratto dalla libreria "La ballata della piccola piazza", il suo romanzo. Ne è uscita una fotografia, colori da nuovo millennio: Elio, Giancarlo Biamonti, un amico fulvo di cui non ricordo il nome ed io, a San Biagio della Cima, in qualche storia di rose. I tempi e qualche nome della piccola piazza.
Taggia, 25 febbraio 2018
Marco De Carolis, «I tempi e qualche nome della piccola piazza» in La Riviera Ligure cit.

Ho avuto il piacere di conoscere Lanteri, purtroppo solo telefonicamente, nel 2010. L’avevo contattato in merito al «Premio Città di Cuneo» per il Primo Romanzo e, da subito, mi aveva colpito la sua riservatezza, una riservatezza che avevo già avuto modo di riscontrare, in tandem, però, con poesia e musicalità, nella "Ballata della piccola piazza". Lì traspare con delicatezza uno spaccato sociale tipicamente ligure che riesce a catturare il lettore e condurlo delicatamente nel pentagramma della vita fra note allegre e tristi che, spesso, solo i bimbi, nella loro ingenuità, riescono a recepire con i giusti toni. Lanteri, a mio avviso, conosceva bene quei toni e sapeva musicarli con maestria per narrare storie di quell’entroterra imperiese simile, per certi aspetti, al basso Piemonte, coerede indiscusso dell’augustea «Regio IX», con le famose Alpi del Mare, il monte Toraggio, i freddi venti invernali, le favole e le paure.
Ricordo di esserne stato ammaliato fin dalla prima pagina. La frase, però, che mi ha fatto innamorare del romanzo, del suo lessico e della leggiadria con cui è stato scritto, è la seguente: «Quando ero bambino, al calar del sole, indugiavo stupito a contemplare le ombre degli alberi che si allungavano, le guardavo crescere e raggiungere l’acqua, creando figure fantastiche di animali che si abbeveravano nella corrente». E, col medesimo filo conduttore, il libro racconta quella che, in fondo, era, ma forse continua un po’ ad essere, la quotidianità del Ponente ligure, con le tradizioni, le metafore e le storie di una zona di frontiera che, proprio grazie a Elio Lanteri, fanno battere forte il cuore e, nel contempo, sognare.
Piero Falco, La quotidianità del Ponente ligure nella sabbia in La Riviera Ligure cit.

Era un filo ligure, quindi di ferro, Elio Lanteri. Un solitario che ascoltava l’ansimare dei mari in un caffè o in un sentiero che sale nell’erba. Custode di una verità mille volte rimuginata nei silenzi che indossava come un tabarro, come un amuleto, come una promessa di decenza, sì, la virtù più difficile, così la innalzò poeticamente un baritono di Levante, Eugenio Montale. A Ponente, Elio Lanteri, originario di Dolceacqua, ha misteriosamente, gelosamente accudito
la passione letteraria, poco prima di compiere il passo d’addio porgendo "La ballata della piccola piazza", una prosa lirica che ha il respiro di una bussola morale, un mosaico di zolle, profumi, sillabe necessarie, di levissima, ancestrale sapienza.
Che cos’è "La conca del tempo", il dono postumo di Lanteri, se non un ulteriore girotondo intorno a un piccolo mondo salvifico?
Bruno Quaranta, Un novello Sisifo. Prefazione alla Conca del tempo in La Riviera Ligure cit.

martedì 22 luglio 2025

Io mi sono mangiata le quattro banane davanti al doganiere

Camporosso (IM): uno scorcio di Piazza Garibaldi

Pierina
A Camporosso veniva l'ambulante a vendere e a comprare e ogni volta che veniva c'era un signore che "batteva la cria", cioè avvisava tutti; con una trombetta suonava e poi diceva: «Oggi c'è uno che compra le olive». E se gli davi le olive, si faceva lo scambio, il baratto con qualcosa.
L'indomani diceva che comprava l'olio e invitava di nuovo a comprare o a vendere. Tutti i giorni c'era qualcosa di nuovo da scambiare.
[...]
Pierino S.
Qui nella zona del ventimigliese più del commercio funzionava il contrabbando. C'erano persone senza un lavoro che per guadagnare qualcosa andavano in Francia a vendere verdura, ad esempio carciofi e frutta. C'era un limite alla merce che doveva passare alla frontiera: per esempio, una persona poteva portare 7 carciofi e non di più. Ma quelle persone riuscivano a sistemarseli così bene che ne passavano 10-14 alla volta. Per passare più roba, sia all'andata che al ritorno, se la nascondevano sotto; erano talmente cariche che camminavano male; tante volte si pensava che si fossero proprio fatte male!
In Francia si portavano verdure, liquori, parmigiano, gorgonzola, salumi... Di ritorno si portavano in Italia carne, zucchero a zollette, banane, cioccolato e le famose caramelle "berlingo" (erano caramelle di forma un po' irregolare con strisce colorate secondo i gusti). Si importavano molto anche i profumi, le colonie, le essenze.
Era "le petit trafic de frontière".
Ziviana
C'era della gente povera che faceva questo piccolo traffico di frontiera proprio per vivere. Ricordo un certo Franceschino che negli anni d'anteguerra era venuto da Milano ed aveva aperto un negozio di biciclette a Ventimiglia. Negli anni venti questo negozio era rifornitissimo di bici da corsa e Franceschino faceva affari d'oro. Poi è invecchiato: durante la guerra non c'erano più mezzi sufficienti per il commercio di biciclette, la moglie si era ammalata, non avevano possibilità di un altro lavoro e non avevano più niente. C'era a quel tempo, nel dopoguerra, l'ECA (Ente Comunale di Assistenza), che dava loro un Kg. di zucchero al mese, la pasta, ecc., ma non riuscivano ad andare avanti solo con quello. Allora per poter campare si erano messi a fare anche loro un po' di contrabbando: tutti i giorni si trascinavano in Francia a portare quello che potevano e ritornavano con quello che riuscivano a comprare là. Poveri vecchietti, facevano pena, perché facevano con grande fatica questo commercio per pochi spiccioli, proprio per vivere! Eppure qualche volta, anche in quel caso lì, la dogana "cattiva" perquisiva tutto! Sono morti infatti in miseria assoluta, tanto che i funerali sono stati fatti dal Comune (con una cassa al risparmio che sembrava una cassa da frutta!).
La dogana con questi limiti è durata ancora per alcuni anni dopo la guerra. Ricordo che una volta ho partecipato ad una gita di insegnanti supplenti a S. Paul de Vence. Al ritorno, per portare qualcosa ai miei genitori, ho comprato quattro banane che pesavano un Kg. Arrivati alla frontiera, alla dogana ci hanno fatti scendere tutti e il doganiere ha cominciato a dire: «Questo non si può passare... questo ce n'è troppo... Anche lei, quelle banane o le lascia qui o paga la dogana».
«Le lascio qui? Ma neanche per sogno! Scommettiamo che me le mangio? La dogana se la paghi lei!».
Il doganiere non pensava che lo facessi davvero e mi teneva d'occhio. Io mi sono mangiata le quattro banane davanti a lui: è rimasto esterrefatto!
Emma
Ma c'erano anche quelli che con il contrabbando si arricchivano veramente: a Ventimiglia c'è una casa che, si dice, "è stata fatta col gorgonzola", perché i proprietari in mezzo alla sabbia che trasportavano con i loro camion nascondevano le forme di gorgonzola da vendere in Francia. Anche la moglie poi, visto che il contrabbando rendeva, aveva iniziato a fare un suo "petit trafic", ma portando oro e sterline.
Redazione, ... E il commercio funzionava? in Il tesoro della memoria, Città di Camporosso, 2007, pp. 127-130

martedì 15 luglio 2025

Ma questa donatrice è in pessime acque

Due casi emblematici: il Premio Mediterraneo e il Premio San Remo Nato nella primavera del 1932 entro la cornice sanremese, il “Mediterraneo” è stato un premio letterario istituito dai giovani scrittori Giovanni Comisso e Adolfo Franci (fondatore anche del Premio Bagutta a Milano), con la collaborazione di Bianca Maria Brayda, la proprietaria del Grand Hôtel de la Méditerranée di Sanremo. La manifestazione, che ricevette il benestare di autorità politiche e accademiche, rispettivamente nella persona di Giovanni Gentile e Guglielmo Marconi, era sorta allo scopo di premiare con cinquemila lire «un libro di prosa italiano edito tra il 1931 e il 1932» <112, che fosse riconosciuto come la migliore opera della giovane letteratura.
Il compito, assai delicato, spettava a un giurì - come Montale soleva definire le commissioni giudicatrici <113 - ben assortito: a presenziare il «canagliesco convivio» <114 una folta compagine di letterati, tra cui «strapaesani» e «stracittadini» (oltre che una piccola componente di giudici stranieri) <115, tra i quali Antonio Baldini, Alberto Moravia, Corrado Alvaro (che nel 1931 aveva vinto - pur «fra molti contrasti» <116 - il prestigioso “Premio Edoardo Agnelli” de «La Stampa»), Adriano Grande, Enrico Falqui, Vincenzo Cardarelli, Eugenio Bertuetti, Giacomo De Benedetti, Mino Maccari, Camillo Pellizzi, Sandro Volta, gli stessi Comisso e Franci e, appunto, Bontempelli. Il quale sembra fosse stato chiamato a presiedere la commissione non tanto in virtù del suo ruolo da accademico, quanto per essere «il solo scrittore che a buon diritto può stare fra i giovani: egli che fu il fondatore del novecentismo letterario, e la cui arte ha un’impronta così schietta di originalità e di modernità <117»; caratteristica, quest’ultima, a cui l’assegnazione del premio stesso era ispirata.
Il prefetto d’Imperia però decise di proibire l’evento, nel rispetto di alcuni veti burocratici tesi a sancire che per lo svolgimento di qualsiasi manifestazione artistica e sportiva fosse necessario chiedere il permesso alla Presidenza del Consiglio almeno un mese prima (iter che gli organizzatori del Mediterraneo non avevano osservato). Tale risoluzione mandò in escandescenze Bontempelli, il quale, oltre a protestare duramente, si rivolse al presidente Marconi per chiedergli di appoggiare la sua causa. In una lettera datata 7 aprile 1932 si legge:
"Eccellenza,
La ringrazio della autorevole [illeggibile] e delle amichevoli parole da Lei scritte a riguardo del “Premio Mediterraneo”.
Il quale premio è stato proibito dal Prefetto d’Imperia, di qui una mia protesta, sia per la ingiustificata proibizione, sia per il contegno del Prefetto nei miei riguardi - contegno nel quale ho visto gli estremi di una deplorata mancanza di rispetti verso l’Accademia di cui sono tanto onorato di far parte.
Le comunico il testo delle mie proteste, nella speranza che Ella voglia abbracciarle e appoggiarle, facendolo magari per la parte che può integrare la dignità della nostra Accademia, da Lei con così geloso fervore protetta". <118
In difesa di Bontempelli intervenne anche Carlo Formichi, che si rivolse al Sottosegretario di Stato del Ministero dell’Interno, Leandro Arpinati, per chiedergli di risolvere la questione:
"Roma, 9 aprile 1932/X
Eccellenza,
Verso S.E. Massimo Bontempelli, reo di essere presidente di una commissione per un premio letterario costituito a S. Remo e intitolato “Mediterraneo” (sul tipo di premio “Viareggio” - “Bagutta” ecc.), il contegno di S.E. il Prefetto d’Imperia è stato assai poco obbiettivo e sereno, oltre che, per diverse ragioni, inesplicabile.
S.E. Bontempelli si è ritenuto inoltre offeso da alcune frasi a lui dirette dallo stesso Prefetto.
Ed è per questo ch’egli ha indirizzato a V.E. la qui unita protesta di cui mi risulta essere V.E. già a conoscenza.
Nella mia qualità di Presidente della Classe di Lettere, e anche a nome del Presidente Marconi, prego V.E. di voler esaminare la vertenza, nella speranza che essa abbia una soluzione atta a salvaguardare la dignità e il buon nome dell’Accademico, chiamato a presiedere una manifestazione d’arte, promossa da giovani scrittori.
Con gli atti della più alta considerazione <119
[Carlo Formichi]"
Il presidente della commissione, sia pure con la mediazione di altre importanti personalità, agì dunque da vero e proprio deus ex machina, riuscendo a salvare il premio da un annullamento quasi certo. Era, questo, un incontrovertibile segno del suo prestigio accademico.
Risolti finalmente i contrasti, il 30 aprile 1932, sulla scorta dell’orientamento teso alla volontà di premiare un autore giovane, la giuria - riunita nei locali della Taverna Mediterranea presso l’albergo “Mediterraneo” di Sanremo - apriva le discussioni per decretare il verdetto del premio conteso dai due schieramenti letterari, discussioni che, ben s’intende, furono animate, tanto che Quasimodo ne parlò in termini di «antiche lotte elettorali» <120.
[...] Le preferenze della giuria furono accordate all’opera del giovane Gallian, assiduo scrittore in «900», nonché affezionato “novecentiere” <123. La premiazione, arrivata dopo «tanta inquietudine e siccità» <124, avvenne certo tra il giubilo di Bontempelli, il quale tanto peso aveva avuto nel far trionfare un autore della sua cerchia. La vittoria di Gallian infatti era senz’altro sintomatica del potere e dell’influenza del suo “maestro” all’interno del certame letterario, il quale nel suo ruolo di giurato era evidentemente orientato alla consacrazione del successo delle opere dei suoi sodali. 
[...] Al di là della vittoria, che inevitabilmente avrebbe scontentato alcuni e rallegrato altri, va detto che l’evento, in termini generali, non godeva di grande stima, così come, del pari, non godeva di buona reputazione la sua ideatrice, Bianca Maria Brayda; quantomeno stando alle dichiarazioni di Giovanni Ansaldo, il quale ne sintetizza il profilo, a partire dalla sua esperienza alla manifestazione. Scrive nel suo diario: "Sono stato due giorni a Sanremo, per il “Premio Mediterraneo”. La scena si prestava a qualche osservazione interessante. Il premio (5.000 lire) è donato dalla proprietaria dell’albergo “Mediterraneo”, una torinese introdotta e scaltra, che ha la mania di essere in relazione con letterati ed autorità, e - nonostante la sua furbizia - è così ingenua da credere che la presenza di qualche Accademico giovi al suo albergo. Ma questa donatrice è in pessime acque. Il “Mediterraneo” è in stato fallimentare; la vigilia del premio le “scorte vive” erano sotto sequestro. La signora si difende contro i creditori valendosi delle sue relazioni politiche; essa - si dice - è molto amica del Segretario Federale Brusa di Milano. L’anno scorso essa irretì tutte le Autorità; il Prefetto pareva alle sue dipendenze. Quest’anno, le Autorità, informate delle profonde “carie” della faccenda hanno fatto macchina indietro; il Prefetto non presenziò alla Fiera del Libro, che essa era riuscita ad ottenere si facesse nel proprio giardino. Tutto il paese l’ha sui c…; ma essa s’impone con i suoi rigiri, tiene in scacco il Comitato locale turistico, va a Roma e ottiene lei dal ministero delle Comunicazioni, i ribassi per Sanremo; ribassi che poi rivende al Comitato stesso. Minaccia il confino ai propri creditori". <127
Il giornalista non riserva commenti più benevoli per Bontempelli, accusato di aver passato «dei mesi a… sbafo» presso questa «mecenate della letteratura italiana» <128.
[NOTE]
112 Un premio letterario “Mediterraneo”, «Corriere della Sera», 1 marzo 1932.
113 Cfr. MARIA CORTI, Premessa, in EUGENIO MONTALE, Lettere a Quasimodo, a cura di Sebastiano Grasso, Milano, Bompiani, 1981, p. VIII.
114 SALVATORE QUASIMODO, Carteggi con Angelo Barile, Adriano Grande, Angiolo Silvio Novaro (1930-1941), a cura di Giovanna Musolino, p. 70.
115 La presenza della quota straniera, segnatamente nei nomi di Valery Larbaud, Benjamin Crémieux, Léon Kochnitzky, Orlo Williams del Times ed Henry Furst, rispondeva alla volontà di sprovincializzare la cultura letteraria italiana, in linea con quelle simpatie europeiste e antiprovinciali che avevano marcato la rivista bontempelliana «900». Il giornalista americano Henry Furst, peraltro, in data 10 aprile 1932 aveva pubblicato sulle pagine di «The New York Times Book Review» un memoriale dell’evento sanremese, che qui si riproduce in appendice B.9. Per la lettura del testo in lingua originale si rimanda ad ANDREA AVETO, Incontri liguri di Elio Vittorini (1931-1943), Novi Ligure, Città del silenzio, 2012, pp. 39-42, dal quale traggo anche la citazione della versione italiana dell’articolo di Furst (ivi, pp. 28-30).
116 CORRADO ALVARO, Quasi una vita, Milano, Bompiani, 1950, cit. in GASPARE GIUDICE, La renitenza di Alvaro. Un anno a Berlino, «Belfagor», 31 maggio 1990, p. 254. Il premio letterario in questione gli venne affidato per due raccolte di racconti (Gente in Aspromonte e La signora dell’isola) e per il romanzo di ambientazione bellica Vent’anni (Treves, Milano 1930).
117 Il “Premio Mediterraneo”. I diciannove giudici e le opere in esame, «La Stampa», 25 marzo 1932.
118 Lettera del 7 aprile 1932, RAI, Corrispondenza con gli accademici e sulle loro funzioni, B. 3, fasc. 20. Il testo al quale Bontempelli fa riferimento non risulta essere allegato alla lettera.
119 Lettera del 9 aprile 1932, RAI, Corrispondenza con gli accademici e sulle loro funzioni, B. 3, fasc. 20.
120 Lettera di Quasimodo ad Angelo Barile, in SALVATORE QUASIMODO, Carteggi con Angelo Barile, cit., p. 70. Nella missiva Quasimodo non risparmia allusioni alla dubbia rettitudine della modalità di svolgimento del concorso: «La Gazzetta porta come candidato (che ingenuità questa parola) M. Gallian» (ibidem).
123 Sulla definizione di ‘novecentieri’ cfr. Il Futurismo; Il Novecentismo, a cura di ENRICO FALQUI, Torino, ERI, 1953, p. 95. Bontempelli ha inserito Gallian nel novero degli scrittori “novecentisti”, tra i quali aveva pure menzionato Antonio Aniante, Aldo Bizzarri, Corrado Alvaro, Paola Masino e Gian Gaspare Napolitano. Tuttavia, non si possono trascurare, dal punto di vista della poetica, le innegabili differenze che separano il caposcuola del realismo magico da Gallian. Se per il primo, infatti, la locuzione “realismo magico” «significa non tanto uno sbrigliarsi della fantasia o un tuffo nel caos dell’irrazionale, quanto piuttosto uno sguardo sempre lucido e razionale attraverso la sostanza reale delle cose», il secondo «muove, invece, da un punto di vista opposto: alla scrittura ‘razionalista’ e ‘funzionalista’ che Bontempelli, ispirandosi all’architettura moderna, si auspica nel suggerire di “edificare senza aggettivi, scrivere a pareti lisce”, egli contrappone un itinerario tormentato, al limite dell’allucinato, costruito non certo con una linea retta ma con la curva barocca che si perde in spirali e vortici. È notturno quanto Bontempelli è solare» (CLAUDIA SALARIS, Gallian magico, in MARCELLO GALLIAN, Nascita di un figlio ed altri scritti, introduzione di MASSIMO BONTEMPELLI, Montepulciano, editori del Grifo, 1990, pp. 36-37).
124 ENRICO FALQUI, «Critica Fascista», poi in In margine ad un premio letterario, cit., p. 3.
127 GIOVANNI ANSALDO, nota del 22 aprile 1933 in Il giornalista di Ciano. Diari 1932-1943, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 38-39, cit. in ANDREA AVETO, Incontri liguri, cit., p. 34.
128 Ibidem.
Rosiana Schiuma, «Elencare e graduare». Il profilo "istituzionale" di Massimo Bontempelli, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, 2020

domenica 6 luglio 2025

La vita sociale si è ridotta o spostata nel vicino centro di Imperia

Pontedassio (IM): Piazza San Pietro

Vittorio Coletti, professore emerito dell'Università di Genova, è stato docente in atenei italiani e stranieri, linguista, storico della lingua, lessicografo, grammatico, accademico della Crusca. Ha pubblicato oltre cento titoli, tra libri e saggi. Ha collaborato con le pagine liguri di 'la Repubblica'.
Caro Professore, ci parli un po' della sua famiglia, se non le spiace.
La famiglia materna era di Pontedassio, in passato di discreto censo, basato su terre e fabbricati, come usava una volta. Ma la sua prosperità, già più che dimezzata dalle divisioni successorie, era stata ulteriormente ridotta dalle vendite di necessità. Non di meno, il fratello di mia madre, lo zio Carlo, poté studiare e divenne un alto funzionario della Banca popolare di Novara e la sorella, la zia Menuccia, ebbe l'istruzione sufficiente per essere assunta come impiegata dalle Poste dove lavorò sino alla pensione.
Mia madre, Giovanna, si dedicò invece ai quattro figli, di cui io sono l'ultimo. Mio padre, Paolo, era di famiglia lombarda per via paterna, del varesotto, ed era presto rimasto orfano dei genitori e non molto dopo senza nessuno dei tre fratelli: uno, molto più vecchio di lui, morto in seguito alle ferite riportate nella prima guerra mondiale, le due sorelle uccise ancor giovani dalla tubercolosi. Mio padre si fece letteralmente da sé e praticò diversi mestieri. La seconda guerra fu una durissima prova per lui, perché, avendo firmato a favore del locale ospedale. di cui era segretario, la donazione dei mobili della sede del Fascio chiusa nell'estate del '43, fu poi schedato dai tedeschi occupanti come antifascista e ostaggio da catturare e uccidere in caso di rappresaglie. Avvertito da una giovane cugina, riuscì a fuggire e rimase alla macchia fino al '45, dopo mesi di paure, avventure e fame. Al ritorno, con grande preoccupazione di mia madre, papà, tanto ostile al fascismo quanto diffidente del comunismo, si diede alla politica nella Democrazia Cristiana e fu a lungo saggio e disinteressato amministratore del suo paese. Per anni fece il vicesindaco, ma sindaco di fatto, perché il sindaco, un autorevole ammiraglio, viveva a Roma e veniva a Pontedassio giusto un paio di volte l'anno (incredibile oggi …).
Come un po' ovunque, il paesaggio sociale e urbano di Pontedassio è stato a un modo sino a tutti gli anni Cinquanta e poi è cambiato radicalmente. Negli anni Cinquanta, quelli della mia infanzia, un carro ci portava ogni giorno il latte, le barre di ghiaccio per conservare i cibi e solo verso la fine del decennio fu sostituito da un non più veloce camioncino; una pastorella veniva a vendere la ricotta, una vecchina i fagioli di Conio e un ex frate, sempre molto pio, il formaggio; un mendicante zoppo si presentava ogni due settimane arrivando a piedi con le stampelle da Diano Arentino lungo una mulattiera.
Pur essendo la mia famiglia di condizioni modeste, il costo del lavoro era così basso che si poteva permettere degli aiutanti, in casa e in campagna: una donna veniva alcuni giorni della settimana per il grande bucato, un'altra per alleggerire un po' nei lavori di casa mia madre, sempre impegnata a sfamare quattro figli e un marito di ottimo appetito; una coppia di marito e moglie, piemontesi, lavorava nelle nostre campagne. In scuola ci si scaldava con una stufa a legna e c'erano dei bambini bravissimi ad accenderla e alimentarla (io purtroppo non ero tra questi). La chiesa e la religione erano il centro della vita sociale, tanto più per i miei, specie per la mamma, molto devota e praticante. Le feste religiose (San Pietro in aprile, Santa Margherita in luglio) erano anche laiche, con balli e cene all'aperto.
Con gli anni Sessanta è cambiato tutto, come si sa, anche a Pontedassio. Il paese si è trasformato; la strada nazionale, prima spesso usata anche come campo di calcio o di pallone elastico, si è riempita di automobili rumorose, pericolose e ingombranti; la vita sociale si è ridotta o spostata nel vicino centro di Imperia; la gente ha cominciato a parlare solo in italiano e a non salutarsi più per strada; abitare nel centro del paese, un tempo luogo di prestigio, è sempre meno ambito e chi può si costruisce una villetta in collina e di fatto ignora il paese.
Durante il corso di studi da qualche insegnante avrà avuto una particolare lezione di vita, oltre che disciplinare.
Al liceo solo dal professore di religione, un avvocato e prete di grande qualità umana e apertura culturale. Ricordo però anche i docenti più giovani e supplenti, come lo scrittore Beppe Conte, che interessò con le sue lezioni me e i miei compagni assai più del precedente titolare, che, essendo sindaco della città, si dedicava assai poco all'insegnamento. Tra i professori più bravi, debbo anche menzionare quello di greco, Antonio Battegazzore, cui la mia perenne agitazione dava ai nervi, ma che mi dava anche dei bei voti: anni dopo l'ho ritrovato in università come collega, di cui, curiosamente, ero un po' più anziano dal punto di vista accademico. [...] 
Gian Luigi Bruzzone, Intervista/ Vittorio Coletti dal 'clan dei ponentini' al gotha dei linguisti... L'infanzia a Pontedassio, Trucioli. Blog della Liguria e Basso Piemonte, 28 luglio 2022 

martedì 1 luglio 2025

Il Partito comunista nizzardo concordava sulla proposta di dar vita a gruppi di lavoro

Nizza: rue Bonaparte, dove un tempo aveva la sede la Federazione del Partito comunista delle Alpi Marittime

All'inizio del 1989 il Comitato federale del Pci di Imperia aveva approvato un documento impegnativo che nelle intenzioni doveva porre basi per un salto di qualità dell'iniziativa politica del partito nel Ponente Ligure. Con ambizione e un po' di presupponenza l'avevamo intitolato "Progetto di Polo transnazionale. L'opportunità del Ponente ligure    per gli anni duemila".
Redigere il documento era costato non poca fatica, che ricordo assai bene per essermi sobbarcato gran parte dell'impegno per darvi corpo; ma ne era valsa la pena in quanto eravamo riusciti a sintetizzare le proposte politiche che avrebbero caratterizzato il Pci nella provincia di confine. Non eravamo partiti da zero per definire i nostri punti di vista, ma avevamo prodotto uno sforzo di elaborazione per corrispondere in modo appropriato alla realtà che stava mutando.
Il documento enucleava in dieci punti le scelte che erano state alla base dei diversi fallimenti della politica regionale del Pci, a partire dalla strategia che puntava sulla priorità dell'area centrale Genova-Savona e concludere con la mancanza di politiche innovative. Avevamo intravvisto, come anche i nizzardi, in modo speculare, avessero problemi di emarginazione rispetto a Marsiglia, come noi avevamo già sperimentato con Genova.
Denunciavamo le responsabilità dell'imprenditoria ligure che aveva privilegiato la rendita, condannando conseguentemente al mancato sviluppo il nostro territorio. Nel Ponente la regressione padronale si era identificata con la difesa della mezzadria e della rendita urbana, frutto della speculazione edilizia.
Con il passare degli anni si era costruita una tela di interessi parassitari tutelati dalla Dc e dal suo sistema di alleanze, un sistema che aveva favorito l'intreccio tra mondo della politica, mafia, logge d'affari, come le vicende Teardo e Casino avevano chiaramente esplicitato.
Il credito veniva gestito con priorità esterna al nostro territorio. Alcune migliaia di persone, inoltre, erano strutturalmente interessate al proliferare dell'economia criminale se teniamo presente che il mercato della droga si calcolava movimentasse un giro d'affari dell'ordine di cento miliardi di lire.
Eravamo consci, come Pci, che con la crisi del pentapartito, una forza di sinistra doveva proporre soluzioni alternative per favorire la modernizzazione di un Polo fortemente integrato tra Ponente ligure, basso Piemonte e Sud-Est francese, presupposto per un'efficace inversione di rotta. E quindi per quello che riguardava noi, una riforma elettorale che garantisse la rappresentanza con scelte del territorio e una riforma della finanza locale che attribuisse la prevalenza delle risorse ai comuni e una politica di partnership tra i diversi livelli istituzionali.
Il documento individuava, per le scelte successive, la formazione di un organismo sovranazionale per determinare e coordinare le opzioni fondamentali del Polo transfrontaliero. I giovani e l'occupazione qualificata dovevano diventare la stella polare della nuova politica.
La proposta enunciava alcuni progetti, come l'istituzione dell'Università del Ponente ligure, la riforma del Festival della Canzone in sintonia con una nuova politica turistica, l'impiego dei proventi della Casa da gioco per grandi scelte strategiche e favorenti l'arte e la cultura, la costituzione di grandi centri per la fornitura di servizi alle piccole e medie aziende, la revisione della politica regionale per l'istruzione professionale, l'istituzione del "salario sociale", il favorire l'autoimpresa giovanile nei settori innovativi e infine dar vita a una Costituente per il rilancio industriale.
Nella seconda parte del documento venivano individuate le principali questioni su cui esisteva una forte comunanza delle diverse aree come la politica di tutela e valorizzazione dell'ambiente, con la realizzazione del Parco delle Alpi Marittime e la politica del mare, la custodia e il coordinamento contro gli incendi boschivi, la politica dei collegamenti per superare i ritardi e includervi anche il cabotaggio.
L'elencazione proseguiva con la lotta alla criminalità organizzata e il controllo delle Case da gioco per colpire il riciclaggio di denaro sporco. Centrale diventava la politica del lavoro e la difesa dei diritti dei lavoratori a partire dalla priorità del collocamento pubblico e la revisione della Convenzione italo-monegasca, la rivendicazione dello Statuto internazionale dei lavoratori migranti da parte della Cee e il dare vita a Centri di tutela per le minoranze e organizzare un Centro studi di informazione della cultura islamica. 
Il Mercato dei fiori di Sanremo poteva diventare, secondo il documento, un riferimento anche per la produzione dei fiori coltivati nella regione Paca. Sarebbe stato opportuno, inoltre, dare vita al coordinamento dei rispettivi piani sanitari e sviluppare la politica di cooperazione, così come una nuova politica bancaria. Si dovevano incentivare gli studi sulle modalità di integrazione del mercato transfrontaliero, così come i vasti temi culturali e tutte le forme di bilinguismo.
Per approdare alla Convenzione dei territori del Polo italo-francese si auspicava il maggior numero di incontri tra organizzazioni politiche, sociali, sindacali e produttive.
Nel giugno di quell'anno l'Europa era stata al centro del dibattito politico in quanto si erano svolte le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo e, soprattutto in occasione della tornata elettorale, si era tenuto un referendum per conferire il mandato costituente al Parlamento stesso.
Ritenevamo, noi comunisti del Ponente, che fosse opportuno inserire nel dibattito sui temi europei la proposta di costituire un Polo transfrontaliero. Sempre in quell'anno la Festa nazionale de l'Unità si svolgeva a Genova e avevamo approfittato dell'occasione per fissare un incontro con i socialisti francesi delle Alpi Marittime nell'ambito della Festa stessa.
Avevamo presentato la proposta di Polo transnazionale con la conseguente necessità di dar vita uno specifico gruppo di lavoro. Anche in Costa Azzurra, ci riferivano i nostri interlocutori, l'economia mostrava segni di difficoltà, ma aveva speranze sullo sviluppo di Sophia Antipolis, un polo intellettuale che avrebbe calamitato giovani intelligenze. Anche sul versante francese era all'ordine del giorno il problema dei collegamenti.
Il segretario socialista Colonna aveva manifestato la gioia, aveva detto proprio così, con cui avevano accolto il nostro invito, riconoscendo che i partiti italiani erano più flessibili che non in Francia dove le relazioni tra il Partito comunista e quello socialista non erano ottimali. In quanto socialisti, continuava il segretario, dovevano tener conto della presenza del Psi, ma ciò non avrebbe impedito i rapporti tra i nostri partiti per riflettere sulla proposta di costituzione di un Polo transfrontaliero. Il segretario socialista teneva a sottolineare come la destra francese avesse connotazioni politiche vicine al fascismo e in Costa Azzurra tale realtà fosse assai pesante in quanto la destra fruiva di una situazione di monopolio.
Pochi giorni dopo incontravamo a Nizza, presso la sede comunista, i compagni del Pcf delle Alpi Marittime. Il segretario Tiberi sottolineava l'importanza dei rapporti tra i nostri partiti anche per far fronte a una situazione particolarmente difficile per i salariati. Il segretario valutava buono il documento del Pci imperiese sul Polo transnazionale e in particolare riteneva assai importante che avessimo evidenziato il tema della penetrazione mafiosa nell'economia.
Nella stessa occasione ci avevano informato sulla loro contrarietà al raddoppio dell'Autostrada n.8, quella che si raccordava con l'Autostrada dei Fiori.
Il Partito comunista francese (Pcf) nizzardo postulava un rapporto privilegiato tra i nostri due partiti ed evidenziava le cattive relazioni con il Psf, un partito senza organizzazione, né impianto sociale che si scontrava con la destra, così lamentava il segretario comunista, solamente sulla pura gestione del potere. Comunque sarebbe stato possibile creare larghe intese su aspetti concreti e concordava sulla proposta di dar vita a gruppi di lavoro.
Per rafforzare la nostra proposta di costruzione di un Polo transfrontaliero avevamo organizzato un incontro provinciale con le tre confederazioni sindacali più rappresentative. I sindacalisti avevano apprezzato la proposta che, tra l'altro, aveva stimolato un dibattito assai interessante sul complesso delle problematiche economiche e sociali del Ponente. Le organizzazioni sindacali avevano espresso l'intendimento di farci pervenire quanto prima gli elaborati che avevano intenzione di produrre. Giuseppe Rainisio, a nome del Pci, aveva annunciato la decisione del Partito di organizzare entro dicembre un convegno specifico. Purtroppo gli avvenimenti susseguenti alla "Bolognina" avrebbero modificato il calendario degli impegni.
Singolarmente, ci eravamo ritrovati con i compagni francesi a Imperia in occasione di un nuovo incontro nel giorno che sarebbe stato ricordato per l'abbattimento del Muro di Berlino, avvenimento che avevamo appreso quella stessa giornata.
Nella mattinata, in occasione dell'incontro, i compagni francesi avevano riconfermato l'importanza del documento sul Polo transnazionale, preannunciandone uno loro sui punti comuni, non senza aver lamentato, penso a ragione, che nelle nuove organizzazioni del Pci in Francia entrassero comunisti francesi. Come erano cambiati i tempi: negli anni '60 il Pcf non permetteva che il Pci organizzasse i lavoratori italiani in proprie strutture, tanto che si era dovuto dar vita ad una associazione, l'Amicale, attraverso la quale poter far conoscere l'elaborazione del nostro partito, mentre trent'anni dopo si verificava il fenomeno inverso!
Con l'abbattimento del Muro non sapevamo ancora che tre giorni dopo avrebbe iniziato il calvario del Pci verso la sua fine, di cui raccontiamo in uno specifico capitolo, con le priorità del dibattito che sarebbero cambiate.
Giuseppe Mauro Torelli, Viaggio tra generazioni e politica, ed. in pr., 2017, pp. 697-700