sabato 15 novembre 2025

Il primo incarico teatrale documentato di Gio Ponti ebbe luogo a Sanremo

La vispa Teresa, balletto, Compagnia del Balletto Italiano, regia: Walter Toscanini e Cia Fornaroli, scenografia: Gio Ponti, Teatro del Casinò di Sanremo, 1937. Foto di scena. Fonte: Silvia Cattiodoro, Op. cit. infra

Frequentare la riviera ligure negli anni Venti e Trenta del Novecento era un efficace modo per portare avanti gli affari nei mesi estivi, lontano dalla calura delle città di pianura, in un ambiente più rilassato ma altrettanto effervescente dal punto di vista culturale. In particolare, per coloro che erano legati all’ambiente artistico il luogo abituale di incontro era il Teatro dell’Opera del Casinò di Sanremo, dove negli anni che precedono il secondo conflitto mondiale si ammirarono spettacoli degni dei maggiori palcoscenici europei: Petrolini, Ertè, i fratelli De Filippo, Jacques Tati e Max Reinhardt, oltre che Pirandello - in quegli anni consulente artistico del Casinò - con la loro presenza e i loro lavori assicurarono alla cittadina visibilità e risalto internazionali.
Pur non essendo documentato palesemente, possiamo immaginare con facilità Gio Ponti, a suo agio nei salotti culturali milanesi e già abbonato della stagione lirica del Teatro alla Scala, come uno dei frequentatori assidui di questi incontri culturali estivi: alcuni progetti elaborati dalla seconda metà degli anni Trenta - le ville a Bordighera e le piccole case al mare pubblicate su Domus - testimoniano la sua conoscenza e frequentazione della riviera ligure. Non è difficile, quindi, ipotizzare che il balletto "La vispa Teresa" andato in scena a metà del 1939 al Teatro dell’Opera del Casinò di Sanremo con le musiche di Ettore Zapparoli <1, sia stato in parte progettato in un patio affacciato sul mare all’ombra della pineta.
Nel provare a ricostruire l’ambiente dove ha preso vita il primo incarico teatrale documentato di Ponti, purtroppo l’immaginazione sopravanza di gran lunga le fonti esistenti: una foto di scena e un breve accenno in una lettera dell’anno successivo scritta a Ponti dal regista Carletto Thieben <2 durante il comune impegno per "Pulcinella" sono tutto ciò che rimane oggi dello spettacolo. D’altra parte, anche la quasi totalità del lavoro musicale del compositore mantovano è avvolto nel mistero o, come sembra, è andato disperso con la sua morte e il suo stesso nome è poco legato al successo artistico in campo musicale.
Non è neppure chiaro se il testo a cui si sono ispirati Zapparoli, Ponti e il coreografo Walter Toscanini <3 con la moglie Cia Fornaroli <4, direttrice della compagnia di danza, sia stato la poesia di Luigi Sailer <5 "La farfalletta" o la più dissacrante "Vispa Teresa" di Trilussa <6: la posa della protagonista nella foto fa propendere per quest’ultima ipotesi, ma i costumi di repertorio del Balletto italiano di Sanremo, stilisticamente derivati dall’esperienza naturalista ancora molto forte in Italia, sono di difficile interpretazione perché in netto contrasto con la scena che, pur non essendo di totale rottura, punta decisamente all’innovazione teatrale.
In ogni caso, alla fine degli anni Trenta la storia della bambina che cattura una farfalla in un prato viene variamente interpretata, come testimonia anche il cortometraggio diretto da Roberto Rossellini per la Scalera Film <7.
La fotografia che immobilizza un attimo del balletto è, come diceva Ponti, «nella forma, astrazione, sintesi ed estasi di un movimento e della vita» <8 e il suo ripetuto uso nelle numerose mostre internazionali dell’architetto attesta che il concetto di «scena dinamica» annotato di suo pugno sul retro era per Ponti un ossimoro su cui argomentare: nonostante il trentennio che separava questo esperimento italiano - estraneo alle Avanguardie artistiche - dalle lezioni di Adolphe Appia e Gordon Craig, per scena si continuava ad intendere lo scenario dipinto che fungeva da fondale e non già lo spazio scenico attraverso cui si esprime la profondità dell’azione drammaturgica e che possiede un carattere simbolico intrinseco.
L’apparente “naività” del fondale dipinto con alberi e prati, che richiama indubbiamente le pinete di cui si poteva godere sul litorale ligure, trae solo apparentemente in inganno, orientando lo spettatore verso una scenografia di tipo tradizionale che però abdica a quella che per Vitruvio era la sua funzione sostanziale, perché non descrive la profondità. Essa ci esplicita, piuttosto, l’attenzione di Ponti per la pittura dei Fauves in cui il colore, antinaturalistico e vibrante, diventa manifestazione delle emozioni individuali ed è perciò particolarmente adatta ad essere usato in scenografia. L’esponente principale del Fauvismo, Matisse, verrà citato da Gio Ponti qualche anno più tardi nelle note interne per il balletto "Mondo Tondo", divenendo esempio di cromatismo luminoso; tuttavia il fondale naturalistico usato nel 1937 sembra più ispirato dai lavori dei rappresentanti della Scuola di Chatou e in particolare da Andrè Derain, fauve che aveva lavorato subito dopo la prima guerra mondiale con Diaghilev e i Balletti Russi <9, verificando nel lavoro scenografico la sua ricerca pittorica.
[NOTE]
1 Ettore Zapparoli (Mantova, 1899 - Monte Rosa, 1951) fu compositore e alpinista. Morì senza eredi in circostanze tragiche in montagna e il suo corpo, ritrovato in un burrone nel 2007 è stato recentemente riconosciuto da una lontana parente. Genio misconosciuto della musica, frequentatore dei salotti culturali milanesi, per il Teatro alla Scala avrebbe dovuto mettere in scena presumibilmente nel 1943, Enrosadira, un’opera lirica sulle leggende delle Dolomiti. Il bombardamento della Scala impedì la prosecuzione del lavoro e distrusse la partitura che ancor oggi risulta dispersa, come la maggior parte delle sue opere. Fonti orali indirette (sia da parte della famiglia Ponti, sia da parte della famiglia Zapparoli) convergono sul fatto che ci fosse l’accordo con un architetto - in cui si potrebbe ravvisare la figura di Ponti - per realizzare le scene.
2 «Io ricordo la disgraziata “Vispa Teresa” e la meraviglia della vostra messa in scena, una delle più belle ch’abbia visto in vita mia». Thieben C., Epistolario Gio Ponti, D13p, 21 marzo 1940.
3 Walter Toscanini (Torino, 1898 - New York, 1971), figlio del maestro Arturo Toscanini, conseguì la laurea in giurisprudenza, ma non praticò mai. Dopo il matrimonio con l’etoile della danza Cia Fornaroli si dedicò principalmente a collezionare e a vendere libri rari sul balletto, attività che continuò anche dopo il 1940, anno in cui emigrò a New York a causa delle persecuzioni fasciste. Dopo la morte della moglie, Walter Toscanini creò con gran parte della loro collezione il fondo Cia Fornaroli Collection, conservato nella New York Public Library (Jerome Robbins Dance Division). Gli ultimi materiali vennero aggiunti in seguito alla sua morte.
4 Lucia Fornaroli (Milano, 1888 - Riverdale, New York, 1954), detta Cia, dopo gli studi di ballo presso la scuola di danza del Teatro alla Scala e il perfezionamento con Enrico Cecchetti, di cui fu una delle allieve predilette, debuttò come prima ballerina al Metropolitan di New York nella stagione 1910-1911. Restò negli Stati Uniti fino al 1914 e negli otto anni successivi compì numerose tournées nei teatri più importanti e con le compagnie più famose di tutto il mondo. A partire dal 1922 tornò alla Scala prima come etoile e coreografa, poi dal 1929 successe a Cecchetti nella direzione della scuola di ballo, pur senza abbandonare la sua attività artistica nel settore interpretativo. Nel 1933-1934, lasciata la Scala, fondò la Compagnia del Balletto Italiano di San Remo con la quale tentò di contrapporre un equivalente italiano alle più importanti formazioni di danza straniere, come i Balletti Russi (allora artisti residenti del vicino teatro di Montecarlo) e i Balletti Svedesi. Per la Compagnia del Balletto Italiano coreografò prevalentemente balletti di compositori italiani di musica contemporanea. A partire dal 1940 si stabilì a New York con il marito Walter Toscanini dedicandosi all’insegnamento della danza. Si spense a seguito di una lunga malattia, che la rese immobile per due anni.
5 Luigi Sailer (Milano, 1825 - Modena, 1885) fu insegnante di scuola secondaria a Milano, a Siena e a Modena. Nel 1870 pubblicò alcuni componimenti poetici per bambini col titolo L’arpa della fanciullezza. Nel volume si trova La farfalletta, composta tra il 1850 ed il 1858, e dedicata ad una principessina di Savoia-Carignano ritenuta «una bambina incorreggibile, perché male avvezza». II successo del componimento fu tale che a tre anni dalla sua prima pubblicazione si era già alla terza edizione. Alla fine del decennio tutti conoscevano la Vispa Teresa, ma quasi nessuno sapeva più chi ne fosse l’autore.
6 Il poeta Carlo Alberto Salustri (Roma, 1871 - 1950) scelse lo pseudonimo Trilussa, anagramma del proprio cognome col quale firmò un gran numero di poesie dialettali. Lungi dall’essere un intellettuale, fonte della sua ispirazione erano le strade di Roma, assai più che i libri o i circoli letterari che rifiutò sempre di frequentare preferendo le osterie. Quando un giornale locale gli pubblicò i primi versi, questi conobbero rapidamente il consenso dei lettori e furono il primo passo verso la realizzazione di molte raccolte di poesie. La fama di Trilussa crebbe, e tra il 1920 e il 1930 la sua notorietà raggiunse il culmine. A soli pochi giorni dalla sua morte gli venne riconosciuto il titolo di senatore a vita per alti meriti in campo letterario e artistico.
7 Nel 2006 presso l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza è stata ritrovata una copia del film facente parte di una serie di cortometraggi prodotti dalla Scalera Film, che si credeva perduto. Partendo da materiali documentari con protagonisti gli animali, il regista raccontava una breve storia moralizzante. Secondo i critici cinematografici, questi cortometraggi rappresentarono il punto di partenza del Neorealismo italiano. Titolo originale: La vispa Teresa; Paese: Italia; Anno: 1939; Durata: 7 min; Colore: B/N; Genere: Documentario; Regia: Roberto Rossellini; Fotografia: Mario Bava; Musiche: Simone Cuccio.
8 Ponti G. cit., 1957, p. 82. Ponti, prendendo le distanze dal Futurismo di seconda generazione che stava vivendo in quegli anni un periodo di fortunato revival, afferma anche: «non è l’arte ad esprimere il movimento muovendosi, ma è il movimento che esprime - nella danza ed anche nella danza meccanica, nella musica, nel canto, nel ritmo - l’arte. Questo è l’incanto del movimento: che non ha forma perchè ha mille forme». (Ponti G., cit., 1957, p. 45).
9 Nel 1919 Andrè Derain (Chatou, 1880 - Garches, 1954) aveva realizzato le scene per il balletto La boutique fantastique con musiche di Ottorino Respighi, causando la rottura definitiva tra Sergej Diaghilev e Lev Baskt, storico scenografo dei Balletti Russi. La medesima la velocità del tratto nei bozzetti di Derain è presente negli alberi del fondale di Ponti per La vispa Teresa.
Silvia Cattiodoro, Gio Ponti dalla scena al grattacielo. Un unico modo, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Palermo, 2012

martedì 11 novembre 2025

Mi avvio costeggiando Capo Berta

Imperia: la discesa di Capo Berta

Giorgio Lavagna, l'autore dello scritto che qui segue, con altri partigiani imperiesi, quasi tutti autorizzati dal comandante Libero Briganti, aveva raggiunto le linee alleate a ridosso di Mentone ai primi di settembre 1944. Questi patrioti italiani - ed altri, giunti per altre vie - erano stati allora arruolati nella FSSF, First Special Service Force (chiamata anche The Devil's Brigade, The Black Devils, The Black Devils' Brigade, Freddie's Freighters), reparto d'elite statunitense-canadese di commando, già impiegato anche nella Operazione Dragoon nel sud della Francia. Il reparto, però, fu sciolto nel dicembre 1944. Dopo di che, per non farsi internare, questi antifascisti furono costretti ad immatricolarsi nel 21/XV Bataillon Volontaires Etrangérs francese, presso il quale furono impiegati solo per lavori di fatica. 
Adriano Maini
 
12 maggio 1945
[...] raggiungo Albenga e, sempre in cerca di un mezzo di fortuna, trovo sulla strada «Ricù» Raineri che, con una corriera adibita a trasporto merci, carica di farina, sta per partire. Attendo impaziente per un quarto d'ora, poi si parte; ma quando già credevo di aver trovato il mezzo giusto per avvicinarmi a casa, intoppo in una spiacevole sorpresa: a Capo Santa Croce la strada è interrotta, e per non seguire «Ricù» che deve fare un percorso più lungo, rimango un'altra volta a piedi. Mi guardo attorno, sento che niente potrebbe fermarmi. Vedo in basso la galleria della ferrovia e mi informo che anche quella non sia saltata, poi mi avvio giù per la scarpata a strapiombo, scivolando ne raggiungo l'entrata buia che imbocco, quindi cammino seguendo i binari; durante il percorso incontro due persone che non riesco nemmeno a vedere in faccia; giunto all'altra estremità, mi trovo ad Alassio. 
Percorro a piedi la via Aurelia fino al termine di Laigueglia. Ancora una volta devo agire di prepotenza, mostrando la mia bomba a mano a un camionista che si rifiuta di farmi salire sul proprio mezzo. Oltrepassati Cervo e San Bartolomeo, proseguo a piedi verso Diano Marina. La giornata volgeva al tramonto ma ormai mi sentivo a casa. Mi avvio costeggiando Capo Berta, percorrendo un sentiero tracciato sulle frane della vecchia strada e prima delle venti giungo a Borgo Peri. Guardavo emozionato Porto Maurizio, mi sembrava di vederlo per la prima volta, non mi era mai apparso così bello, mi sembrava un sogno, avrei voluto gridare pensando ai miei che, inconsapevoli della mia vicinanza, attendevano ancora con angoscia il mio ritorno. 
Addentrato nelle strade di Oneglia, ignorato da tutti, cammino senza rendermi conto dello stato in cui mi trovo, guardo qua e là cercando persone di mia conoscenza; sul ponte Impero, quasi distrutto, incontro «Pinù» Acquarone che, non vedendomi da molto tempo, mi chiede da dove arrivo; gli accenno brevemente la mia storia ma la fretta non mi permette di dilungarmi; quell'amico, della cui cortesia non avrei mai dubitato, intuisce la mia premura e, senza che io gli chieda cosa alcuna, mi offre in prestito la sua bicicletta; non chiedo di meglio, parto veloce sull'ultimo tratto del mio percorso, pensando che non mi sarei più fermato. 
Ma prima di giungere a Porto Maurizio, incontro Andrea Corradi, non più rivisto da quando avevo lasciato l'accampamento di Monte Faudo; ci fermiamo uno di fronte all'altro, nella sua voce c'è un'esclamazione di stupore, e, come se tornassi dall'altro mondo, mi chiede anch'egli da dove io venga; anche a lui accenno poche cose, dopo di che ognuno prosegue per la propria strada. 
Giunto a Porto, sotto il vecchio orologio, all'angolo di Via Mazzini, incontro Giovanni Ascheri, amico di famiglia, che, sorpreso nel vedermi, chiama sua zia Maria. Quella donna, gentile e affettuosa, che durante la mia assenza aveva sempre esortato mia madre a sperare, nonostante fosse al corrente delle poche possibilità che ormai si potevano nutrire su un mio ritorno, mi corre incontro stringendomi in un abbraccio emozionato. Mentre a Maria sto spiegando brevemente la causa del mio arrivo in ritardo, una ventina di giorni dopo la liberazione, giunge a salutarmi anche l'amico Andrea. Egli mi attende e insieme ci avviamo verso casa. Durante quel tratto di strada, non sapendo che io già conoscevo quello che si diceva al mio riguardo, egli mi consiglia che sarebbe opportuno avvertire i miei genitori del mio arrivo, per evitare che un'emozione troppo violenta potesse loro nuocere, e si offre di essere lui a fare ciò. 
Pochi minuti mi separavano da un incontro che per me sarebbe stato meraviglioso. Senza provarlo, nessuno può capire cosa significhi poter riabbracciare i propri genitori dopo aver tanto sofferto. Il compagno che mi aveva preceduto con la bicicletta era scomparso davanti a me, ormai lo immaginavo già a contatto con i miei, mentre comunicava loro la notizia. Pedalo contemplando il panorama circostante, osservo emozionato i miei vecchi luoghi, ad un tratto vedo, in alto, davanti a me, il paese di Torrazza che, molte volte, avevo immaginato distrutto. Mi sentivo orgoglioso della causa per la quale avevo combattuto; ero felice di essere tornato, e di poter ancora raccontare gli episodi di quel passato burrascoso, che non avrei più dimenticato. 
Dal monte del Ciapà imbocco la strada che, attraverso una vecchia cava, porta a casa mia. Scendo dalla bicicletta all'inizio di quella cava per salutare un contadino di Torrazza. Dalla strada giungono altre persone che, forse, mi avevano scorto. Nel frattempo, da casa mia arriva mio padre ancora incredulo, con Andrea. Mia madre, colta all'improvviso da quella notizia, per alcuni minuti rimane seduta sopra un muretto in mezzo al vigneto. Stringo finalmente mio padre mentre i nostri visi si bagnano di lacrime. Mia madre, riavutasi, giunge quasi correndo, mi stringe pronunciando varie volte il mio nome, vorrei dirle tante cose ma posso solo piangere e non riesco a dire nulla. Nella mia giovane età, nemmeno quel giorno avevo capito, come capirò più tardi, quanto quella donna avesse potuto soffrire in quell'anno di guerra, nel sapermi in pericolo, confortata solo da una tenue speranza di potermi riabbracciare. 
In mezz'ora la notizia del mio arrivo si diffonde, da Torrazza scendono altri amici, fra loro ricordo solo Don Mela, parroco del paese; da Porto Maurizio giunge in bicicletta il colonnello Laureri. Per più di mezz'ora rimango bloccato nella cava da quella gente desiderosa di conoscere la mia storia, le ragioni della mia lunga assenza dall'Imperiese. Solo a tramonto inoltrato raggiungo la soglia di casa mia, da dove una sera di giugno, al chiaro di un lume a petrolio, i miei genitori mi avevano visto partire. 
Giorgio Lavagna (Tigre), Dall'Arroscia alla Provenza - Fazzoletti Garibaldini nella Resistenza, IsrecIm - ed. Cav. A. Dominici - Oneglia - Imperia, 1982, pp. 148-150 

lunedì 3 novembre 2025

Di Villa San Gaetano mi accompagnerà sempre il melodioso canto del mare infrangersi contro gli scogli

Latte, Frazione di Ventimiglia (IM): Villa San Gaetano



Prefazione

"Villa San Gaetano" è situata su un lembo di mare dell'estremo Ponente Ligure, prima della curva di Latte, in una posizione, a dir poco, incantevole. Ma "Villa San Gaetano" non è solo un luogo fisico. Una villa come ce ne possono essere tante. E' la culla dei ricordi legati ad un periodo particolare della vita dell'autrice. Seguendo il filo della memoria e sull'onda di sensazioni visive, olfattive, uditive, poeticamente riemerse dal profondo, l'autrice rende vivi e palpabili i luoghi che l'hanno vista bambina felice, spensierata, amata. L'autrice, da adulta, ripensando alla sua infanzia, nel libro ripercorre anche un periodo storico terribile. Un evento bellico le sottraeva il padre quando lei era ancora piccolissima e glielo restituiva come "sconosciuto" dopo qualche anno, a guerra finita. Non mancano considerazioni sul sistema di vita, sul mondo del lavoro, sui valori affettivi. Tutto è rivisitato alla luce di tersi ricordi che rendono quegli anni e quei luoghi pieni di incanto. Accanto alle descrizioni di luoghi, vie, angoli, spiagge, ruvidi scogli che l'hanno vista giocare allegramente e che sono resi palpitanti agli occhi del lettore, si stagliano figure umane statuarie come nonna Pia, la saggia, o nonno Cesare, uomo possente, apparentemente rude, ma tenero come un bambino: figure che, nella loro semplicità, hanno saputo trasmettere sentimenti sani e profondi e sono state per lei modelli esemplari. E' uno scorcio di autobiografia che ha il pregio di far conoscere non solo un periodo magico della vita dell'autrice, ma anche di presentare un luogo incantevole, ancora in parte incontaminato, il tutto rivisto attraverso la meraviglia dei suoi occhi di bambina e la maturità di una donna che ha vissuto ed amato intensamente. 
Filomena Loreto 
Al mormorio delle onde sulle rive di Latte mi tornano voci vicine e lontane. 
Di Villa San Gaetano mi accompagnerà sempre il melodioso canto del mare infrangersi contro gli scogli e rappresenterà per me il rifugio alle controversie senza via d'uscita. Lo sbocco catartico di una ripresa. 
Ho sempre considerato quella di Villa San Gaetano la mia unica spiaggia. 
Piccolo lembo di terra che racchiudeva l'universo. Il mondo circoscritto attorno alla Villa è stato la palestra in cui ho appreso l'abc della vita in simbiosi con la natura. Mi porterò sempre dentro questo legame con la natura, la mia grande madre, la mia consolatrice, il mio anello di congiunzione fra presente, passato e futuro. Il mio raccordo fra vita e morte, senza soluzione di continuità. In mezzo a quella natura, in stato di semi-verginità, ho vissuto i primi cinque anni della mia vita, di cui ho vari nitidi ricordi e, in seguito, le estati più serene della mia fanciullezza. Ero circondata da un'atmosfera ricca di stimoli affettivi, ma un po' ferma nel tempo dietro i visi seri deí nonni, a volte un po' ovattata nei silenzi delle stanze in cui rimbalzavano solo gli echi delle onde. 
Atmosfera che obbediva a ritualità quasi cristallizzate, anche se attraversate dalla guerra, dai lutti e dalla tecnologia. Ho ancora nella mente i rimbombi delle cannonate della seconda guerra mondiale, il pianto e la disperazione della mamma per la morte in guerra di suo fratello Aronne, il passaggio del treno che faceva tremare le pareti della casa. Eppure nulla mi ha lasciato segni negativi. Tutto era vissuto in armonia con la sicurezza affettiva dei cari e dei luoghi. Così, ora lo capisco, sono cresciuta senza particolari paure, se non quelle dettate da un minimo di prudenza esistenziale [...]
Maria Pia Urso, Villa San Gaetano, youcanprint, 2015

martedì 28 ottobre 2025

Mario Calvino: un grande divulgatore della floricoltura


Mario Calvino nasce a Sanremo il 26 Marzo 1875, si laurea a Pisa in Scienze Agrarie nel 1899 diventando più tardi libero docente della stessa disciplina. Nel 1901 è nominato Direttore della Cattedra ambulante di Porto Maurizio, Imperia, Olivicola e Orticola.
Nel 1909 si reca in Messico e in altre zone del Centro America per svolgere attività di ricerca e sviluppo delle agricolture locali insieme a Eva Mameli, una studiosa di botanica, valida e insostituibile collaboratrice, che diventerà sua moglie.
Nel 1917 sono entrambi a Cuba, a Santiago de las Vegas dove svolgono la loro attività di ricerca agronomica presso la locale Stazione Sperimentale.
In seguito si trasferiscono nel sud-est dell’isola, quando Calvino riceve l’incarico di fondare una stazione sperimentale per lo studio della canna da zucchero da parte di una ditta locale.
Molteplici sono i loro studi nel campo fisico e biologico ma mai disgiunti dall’applicazione pratica: Mario Calvino era convinto, infatti, che il miglioramento delle attività agricole avrebbe contribuito notevolmente al progredire delle condizioni sociali ed umane dei popoli.
I suoi numerosi viaggi all’estero gli permettono intanto di perseguire un’attenta opera di ricerca di piante adatte ad essere impiantate nel particolare clima di Sanremo, i cui semi vengono selezionati e spediti con regolarità alla Stazione “Orazio Raimondo”.
I primi semi di Persea drimifolia e di Casamiroa edulis, vengono inviati dal Messico nel 1909. Nel 1910 vengono piantati a Sanremo i primi esemplari di “Grapefruit” sempre inviati da Calvino dalla Florida. Nel 1938 esce una pubblicazione sulle varie specie e sulla coltivazione dell’Avocado e al Congresso Internazionale di Berlino presenta una relazione sulla diffusione a Sanremo di frutti tropicali e subtropicali.
Dopo il suo rientro in Italia nel 1925 come Direttore della Stazione Sperimentale di Floricoltura “Orazio Raimondo” sviluppa la coltivazione della Sterlitzia reginae.
Quanto detto mostra come Calvino sia stato un grande divulgatore della floricoltura: egli aveva intravisto lo sviluppo che avrebbe assunto la coltivazione dei fiori, ma soprattutto, grazie ai suoi contatti, Calvino compie una grande opera di introduzione di germoplasma subtropicale, anche australiano. Emerge così la sua grande opera di promotore dell’evoluzione genetica floricola: fu infatti il primo ad inculcare ufficialmente ai coltivatori la convenienza di occuparsi di ibridazione e selezione.
Fra le principali specie introdotte meritano di essere ricordate: Hedychium coronarium (India 1926), Dahlia Maxoni (Guatemala 1926), Photinia arbutifolia (California 1927), Anigozanthos Manglesi (Australia 1939).
Nel 1934 vi è notizia dell’introduzione del Chaemelaucium uncinatum e varie piante ornamentali come Oreopanax capitata, Trevesia palmata, Ficus sp, Sanseviera, piante da foraggio, da alcool e così via.
Tra i fondatori della Stazione Sperimentale per la Floricoltura “Orazio Raimondo”, Calvino ne rimane Direttore fino al 1950 quando è costretto a lasciare per raggiunti limiti di età; muore poco dopo, il 25 Ottobre 1951.
Il Prof. Alberto Pirovano ricordava così Mario Calvino: “C’era tra noi una comunanza di sentimenti: il fascino dell’ignoto, della via vergine, delle realizzazioni peregrine o difficili da conseguire. Vi è analogia fra lo spirito dell’esploratore che incede tra mille difficoltà alla scoperta di una terra, di una flora o di una fauna e lo sperimentatore che s’accinge a nuovi cimenti con metodologia necessariamente improvvisata, imperfetta, ma sua. Ed è da questa affinità di sentimenti che nasceva fra me ed il caro scomparso una reciproca stima e una salda fiducia attestata da fatti”.
Alfredo Moreschi, Calvino prof. Mario, Nuovo "Fiori di Liguria" (in ricordo del Professor Giacomo Nicolini), 2020

martedì 21 ottobre 2025

Ventimiglia costruiva il suo futuro mattone su mattone come con il lego


E arrivarono così gli anni '70 e le cose cominciarono a mutare. 
Ventimiglia non aveva risentito molto dello scossone dell'economia del 1968, intravvisto da noi più per gli avvenimenti francesi che nostrani: Il franco aveva ricominciato a rivalutarsi e i nostri vicini d'oltralpe ritornarono ad affollare i nostri negozi e ristoranti. I frontalieri da parte loro potevano avvalersi di un maggior potere d'acquisto, visto il maggior valore della moneta transalpina, e, anche grazie ai sacrifici, molti di loro poterono anche migliorare le loro situazioni abitative.
Insomma il mattone continuava ad essere l'investimento preferito e i condomini spuntavano uno dopo l'altro. Ai piccoli impresari del dopoguerra erano subentrati i gruppi e le società costituite, oltre che da tecnici, anche da finanziatori, che vedevano nel'edilizia una grande occasione di arricchimento immediato.
Anche nel resto della penisola la situazione economica era migliorata e quindi nacque il desiderio di chi abitava nelle città del nord e ne aveva la possibilità di acquistare una casa per le vacanze, la "seconda casa". Seconda casa che  costituiva una ulteriore ghiotta occasione di guadagno per gli speculatori immobiliari: la zona delle Asse e di Nervia videro i primi insediamenti mentre a Roverino nasceva l'edilizia popolare per residenti, grazie anche a cooperative. La città si dava, dunque, un assetto un po' raffazzonato, senza direttive da parte degli amministratori, anche se si cominciò a parlare di piano regolatore.
Tra le occasioni mancate si era aggiunta qualche anno prima quella della realizzazione di un porto, che, dopo grandi entusiasmi per l'inizio dei lavori, si era arenato per mancanza di fondi ed era rimasto lì con moli e strutture interrotte "propiu cume in couru sens'aiga".
In quegli anni si era completata anche l'autostrada dei fiori, dapprima osteggiata come progetto da molti concittadini che temevano di perdere la clientela che non sarebbe più stata obbligata a percorrere le vie cittadine, ma che aveva dato lavoro ad alcune ditte dell'indotto per trasporti di materiale, impiego di mano d'opera, forniture di esplosivi: sarebbe potuta essere una buona occasione per far realizzare dalle società costruttrici qualche opera pubblica, come avevano fatto quasi tutti i comuni sui quali era passata, ma stranamente - e solo a fare questo esempio - il materiale di risulta finì in mare e venne inghiottito dalle onde.
All'amministrazione della città era stato nominato come primo cittadino Albino Ballestra, che ormai aveva consolidato la sua leadership con la costituzione di una giunta di centro-sinistra, la quale avrebbe governato la città per molti anni. Si andava avanti, tuttavia, con il piccolo cabotaggio, senza prevedere opere di viabilità definitive, solo stabilendo qua e là piccole opere di urbanizzazione per il centro città e le frazioni: le vie di scorrimento per il grande traffico continuarono a latitare.
Anche nel centro alcune costruzioni furono trasformate in grandi condominii. A titolo di esempio rammento che dove sorgeva una villetta con giardino sorse un grande caseggiato, che ospitò il supermercato Standa (ma non si era pensato ai parcheggi per gli acquirenti e ad una zona di carico e scarico), e che dov'era villa Davigo (una grande villa che ospitava anche il Consolato francese con un bellissimo giardino annesso) venne costruito - dopo che il Comune ne aveva rifiutata l'acquisizione nel proprio demanio ad un prezzo di favore - quell'enorme condominio di gusto discutibile, dove oggi vi è la sede della Banca ex Carige: così come era successo sul Vallone ad un distributore trasformato nell'attuale palazzo della Oviesse e via costruendo. 
Intanto le piccole industrie chiudevano i battenti, il turismo, che, aveva avuto il massimo del fulgore negli anni '60, stava scemando abbandonato per altri interessi, e la floricoltura era quasi sparita. Il mercato dei fiori si era trasferito a Sanremo e persino la Battaglia di Fiori, vanto e onore della città, cessò di esistere nel 1969.
Mentre le città della Riviera lanciavano nuove e invitanti manifestazioni turistiche, Ventimiglia costruiva il suo futuro mattone su mattone come con il lego, che allora andava di moda.
Nella seconda metà degli anni '70 si avvicendò ad Albino Ballestra come sindaco l'avvocato Aldo Lorenzi, un ligure di quelli all'antica, che continuò sulla falsariga delle precedenti amministrazioni, con visioni limitate al presente: tipica la sua espressione di commento al progetto della costruzione di una strada di scorrimento adiacente al mare con la collaborazione dei comuni vicini per la realizzazione di un ponte sul fiume Nervia "pe mi Ventemiglia a fenisce cu a sciùmaira du Nervia".
Intanto erano nate le regioni e molte delle competenze dei comuni furono assegnate a quelle istituzioni, cosicché la nostra città dovette d'allora in poi dipendere oltre che da Roma (che aveva accentrato il potere economico con l'abolizione del dazio) anche da Genova, che, come è risaputo, non è mai stata in ottimi rapporti con il Ponente: la vita degli amministratori si complicò tra regolamenti, commissioni, comitati comprensoriali e chi più ne ha più ne metta.
Gli anni 70 erano cominciati con l'austerity, dovuta alla guerra del golfo con il conseguente aumento del costo della benzina, e finivano con un'orizzonte non più sereno anche se i ventimigliesi (quelli che contavano... in ogni senso) non se ne rendevano conto.
Per quanto mi riguarda la vita scorreva a ritmo frenetico... a tempo perso (cioè di sera) poiché al giorno continuavo la mia attività di commesso: avevo intrapreso l'hobby (chiamarla carriera sarebbe troppo pretenzioso) del presentatore: serate organizzate dalle aziende del turismo in Riviera, concorsi di miss (che allora erano di gran moda), eventi e manifestazioni canori... 
Gianfranco Raimondo, 29 - Passa il tempo e si matura, Diario di un ventemigliusu... nel suo piccolo..., 3 giugno 2025

martedì 14 ottobre 2025

Alessandro Natta e la poesia di Giorgio Caproni

Imperia: Borgo Peri, un luogo caro ad Alessandro Natta

Non so gli ultimi giorni, ma certo gli ultimi anni di buon ritiro onegliese di Alessandro Natta hanno potuto godere di una palese felicità mentale anche grazie alla letteratura e alla poesia. Quella letteratura su cui si formò negli anni della Scuola Normale di Pisa, classe di lettere, con compagni come Ettore Bonora che - Natta medesimo raccontava - gli furono quasi maestri nello studio e nell'intelligenza della grande poesia francese da Baudelaire ad Apollinaire, e i maestri a pieno titolo come Luigi Russo, docente ammirato e temutissimo di Letteratura italiana che non transigeva sui fondamenti classici della preparazione degli allievi, per i quali dunque l'arte, la letteratura e la poesia contemporanea dovevano restare ai margini, quasi un culto privato; tant'è che Natta sgobbò parecchio prima sul Canzoniere del Petrarca e poi sul Leopardi. Questi ricordi sono racchiusi in una recentissima nota a Alfonso Gatto, Alla scoperta della terra più sconosciuta (Ed. San Marco dei Giustiniani), ovvero gli articoli che Gatto scrisse nel 1947 per "l'Unità" sui luoghi più belli della Riviera di Ponente.
Ma, tra gli studi e gli interventi di Natta sulla letteratura (un esempio: la biografia del portorino Giovanni Boine), non avrei dubbi - anche perché ne conservo memoria viva - ad attribuire un valore quasi testamentario alla sua rilettura di Giorgio Caproni, fatta il 21 giugno 1997 al Santuario di Montebruno in Val Trebbia, in occasione di una tavola rotonda sul poeta con Massimo Quaini e chi scrive (ora si legge in "Per Giorgio Caproni", sempre per i tipi di Giorgio Devoto, un editore che ha affettuosamente e intelligentemente contribuito a estrarre Natta dalla nicchia onegliese e a proporgli benefiche sfide di lettura).
Ebbene, Natta qui, in un soggetto intitolato "Il tempo e il luogo della guerra", s'ingaggia nella lettura serratissima di un poeta che evidentemente conosce benissimo e che gli serve per ripercorrere l'autobiografia propria e di tutta una generazione, senza tuttavia scomporre di un millimetro Caproni, anzi evidenziandone, a forza di citazioni, le prese di posizione sul conflitto e sulla resistenza sia in versi che in prosa (con un'intensa rilettura del racconto caproniano "Il labirinto"). 
E prese posizioni anche secche, quanto mai attuali: «Provare compassione e rimorso di fronte alla distruzione nel mondo di milioni e milioni di uomini (...); essere aperti e fraterni ai tanti che passarono le barricate e trovarono nelle brigate garibaldine un riscatto, come anche qui accadde a molti alpini della "Monterosa"; e patire, sentire pietà anche per i fascisti, anche per "i torturati e i carnefici dei nostri compagni", giustamente condotti a morte, nell'aprile del '45, sui sassi della Val Trebbia, non significa affatto confondere le idee, il costume, la condotta degli uni e degli altri, non vuol dire affatto pareggiare i conti della storia, legittimare ed eguagliare il passato degli uni e degli altri: il collaborazionismo subalterno e la violenza assassina di Salò e il patriottismo nuovo e fiero del movimento partigiano che rifondeva la dignità e l'unità della nazione nel segno della libertà e della giustizia sociale».
E poco dopo: «E la Repubblica, del resto, è stata già estremamente magnanima e pronta nel chiudere ferite, nel concedere pietosi perdoni. Forse anche al di là del giusto».
Può essere che lo avvertisse pure Caproni quando dopo tanti anni, e nuove guerre lontane e feroci e stragi oscure, indicibili nel nostro Paese, sembrava constatare con disincanto e in modo desolato la fine della memoria della resistenza: «I morti per la libertà / Chi l'avrebbe mai detto. / I morti. Per la libertà./ Sono tutti sepolti».
Per dire che gli ultimi anni di Natta sono stati tutt'altro che uno stanco ripiegamento nostalgico o un chiuso silenzio.
La letteratura coniugata con la storia, secondo l'insegnamento di Russo e il costume di una vita, è riuscito anzi a farla oggetto di un nuovo investimento, un bilancio e una conferma di posizioni incrollabili, le stesse delle ragioni della sua estraneità di uomo, costruitosi in altri tempi, ai tempi nuovi e alla cultura trasformata, di cui forse lui non dichiarava apertamente tutto l'orrore che avvertiva.
E la poesia, coraggiosissima e sempre in trincea (se non altro sul fronte estremo, teologico), di un uomo tutto d'un pezzo come Caproni lo aiutò a trovare ciò che in ultimo si fatica sempre a trovare, le parole giuste.
Così iniziava, appunto, quel suo testo letto in Val Trebbia: «Forse perché mi appresso oramai al limite, e sta già passando per me il momento di decidere, anch'io, di staccare dal muro la lanterna e di scendere nel vallone, forse é per questo che la poesia di Giorgio Caproni mi inquieta e mi affascina sempre più».
Giorgio Bertone, Le passioni politiche e letterarie, (da "Il Secolo XIX" - 29 maggio 2001) in Pagine Nuove del Ponente, bimestrale di politica e cultura, Imperia, Numero 4 - Anno III luglio-agosto 2001

lunedì 6 ottobre 2025

L'acetum ligusticum

Sanremo (IM): a sinistra Via Mameli e dietro il Palazzo Via Matteotti

Se c'è un elemento tipico di questo estremo ovest della Liguria, un qualcosa che in qualche modo possa contrassegnare il carattere nazionale delle genti che abitano il Ponente, non sarà difficile - osservando non solo viaggiatori, letterati, pittori e scienziati ma anche le così dette persone comuni, che poi comuni non sono - individuare questo elemento nella follia
Una peculiarità come può essere quella che - diceva Ruggero Orlando a proposito dei siciliani - è la capacità di spaccare il capello in quattro, e quindi da lì viene fuori Pirandello, o per gli irlandesi è il gioco di parole, lo scherzo, il paradosso, e così abbiano i Wilde e gli Shaw e i Joyce.
Bene, se c'è un elemento così nel Ponente, una sorta di genius loci, e questo è la follia, non è allora una grande follia, intendiamoci, nulla di patologico, nella maggior parte dei casi. Ma una eccentricità particolare, questo sì, che si aggiunge alla normale stravaganza, se ci è concesso l'ossimoro, di cui è ammantata la figura dell'artista o dello studioso, di colui insomma che, ragionando con il proprio cervello, finisce con l'esulare dalle consuetudini e dalle convenzioni e ad apparire, come si suol dire, un poco strano. Un'estraneità che appartiene appunto al fare arte, all'essere in qualche modo in anticipo sui tempi (perché in tal modo li si sta inventando, i tempi futuri) e a disegnare nuove forme e praticare nuovi comportamenti. Perché, e la buttiamo lì quasi come una definizione di massima, l'artista è colui che rifiuta di adagiarsi negli stereotipi e nel già detto e in qualche modo, col suo cammino, apre nuovi sentieri: adopera il suo ingegno per scoprire le cose del mondo o trovare le idee nuove.
Ma, abbiamo appena dichiarato, nel Ponente sembra esserci, come aggravante, un pizzico di deragliamento in più. Giorgio Bottini, fra l'altro grande conoscitore di jazz, parlava di acetum ligusticum. Non perdiamoci in lunghi elenchi, ora, ma da Edward Lear a Tommaso Landolfi, da Guido Seborga a Giacomo Natta, non si può negare che in questa terra nascano, o trovino ospitalità e rifugio, figure animate da vivaci bizzarrie e spesso anche da un certo spirito nonsense
Sarà un caso? Può darsi. Ma anche un Mario Calvino che si mette le bisce e le rane in tasca (va bene, voleva porsi alla pari coi contadini che incontrava), un Piero Simondo e una Elena Verrone che festeggiano le loro nozze con qualche giorno di libagioni in compagnia di alcuni amici, come Guy Debord e Asger Jorn, e già che ci sono fondano l'Internazionale Situazionista, un Giuseppe Varaldo che scrive poesie costruendosi delle incredibili gabbie (tipo usare solo una vocale, usare solo monosillabi e così via), be', diciamocelo, non sono cose e persone tanto normali.
Qualcuno potrà obiettare che forme di follia di questo tipo si trovano un po' dappertutto, e meno male se le cose stanno così, e che ora del Ponente ligure vogliamo privilegiare e sottolineare certi aspetti che ci stanno a cuore. Possiamo anche concederlo, ma ci venga riconosciuto che abbiamo i nostri buoni motivi per elaborare certe tesi, e fomentarne magari futuri sviluppi. E chiamiamo qui come testimoni, dunque, due figure sul cui carattere eccentrico e scanzonato nessuno potrà opporre, pensiamo, dubbi e riserve. Un sanremese di nascita e uno di adozione: Antonio Rubino e Farfa.
Li accomuna l'umorismo, il gioco, lo spirito infantile. Che sono cose difficili da praticare, specie in un paese serioso come l'Italia. Se fai ridere o sei parodico o vai sopra le righe, per ben che ti vada sarai valutato aprioristicamente un autore minore. "È considerazione corrente - scrive Sandro Bajini - che gli spettatori, e con essi i critici, siano più disposti a tollerare una brutta opera seria che una brutta opera comica".
Ma Farfa e Rubino hanno altre cose in comune. L'eclettismo, tanto per cominciare, la capacità di essere poliedrici. Farfa è pittore, poeta, costumista, fotografo, ceramista, cartellonista, inventore di ricette gastronomiche. Antonio Rubino in un suo biglietto da visita si definisce giornalista e poeta-pittore ed elenca poi ciò che può fare: libri, albi, opuscoli, giornali, quadri, illustrazioni, pannelli decorativi, cartelloni, inserzioni, etichette, marchi di fabbrica, grafici statistici e dimostrativi, sigle, storielle umoristiche, figurini, scenografie, stands per esposizioni, decorazioni di ambienti, mobili e oggetti decorativi, sagome, progetti di pubblicità. Che è un elenco incompleto, ovviamente, e noi sappiamo che Rubino ha fatto tante altre cose, dalle ricette culinarie (anche lui! collaborando per la Cirio e coinvolgendo la moglie Angiola nella stesura) agli ex-libris, dai disegni per le feste baiocche a quelli di giochi da tavolo, dalle poesie alle composizioni musicali.
Già, la musica, altro elemento che appassiona sia Farfa che Rubino.
[...] Farfa e Rubino furono due grandi sognatori, che qualcuno talvolta oggi colloca nel clima culturale del Futurismo. E futurista Farfa lo fu senz'altro, anche se di quell'ala pacifista, giocherellona, vagamente dada (alla Palazzeschi, per intenderci) che lo porterà non solo a polemizzare con Marinetti ("Marcire e non marciare / per non subire le delusioni amare") ma infine a essere "recuperato" da surrealisti come Enrico Baj e Arturo Schwarz e ad entrare nel Collegio di Patafisica. Rubino non fu futurista ma se ne è notata la vicinanza con alcuni futuristi "fantasiosi", in particolare con Fortunato Depero. Ma sono piuttosto imparentabili, Farfa e Rubino, proprio per il loro fare - diciamolo con un bel bisticcio di parole - indisciplinato e pluridisciplinare.
E quindi, per tornare al tema della leggiadra follia degli indigeni, rechiamoci allora in un luogo per molti aspetti tipico riguardo tale questione. Eccoci [a Sanremo] all'angolo fra corso Matteotti e via Mameli, in un locale che si chiama Bar Venezuela. Siamo negli anni del secondo dopoguerra, anche se questo posto esiste da molto tempo. Entrate pure, vi facciamo strada. È frequentato da mezzo mondo: impiegati, croupier, sportivi... C'è il biliardo, e ci sono i separé, dove si va a giocare a carte (si usano persino i tarocchi) e si fuma tantissimo, tanto che da ogni separè, come vedete, si leva una colonna di fumo, e allora per la salubrità dell'aria sono stati battezzati "pinete". Ecco, siamo già arrivati al dunque: qui non c'è un modo di parlare "serio" ma c'è l'uso di un linguaggio metaforico, a tratti grottesco, e le evocazioni strampalate, gli accostamenti di parole, le battute stralunate. Qui puoi incontrare Floriano Calvino e Antonio Rubino, Duilio Cossu e Aligi Laura (due personaggi dei racconti che scrive il fratello di Floriano), Carlo Dapporto, Pippo Barzizza. Non è un cenacolo culturale ma è molto di più.
La si pensi come si vuole ma ci sono nessi, legami, influenze, fra tutte queste esperienze: e Farfa che declama le sue poesie scoppiando a ridere quando recita quella del treno (e siamo proprio qui, c'è il paesaggio sanremese che si intravede sullo sfondo) lo poniamo come suggello di questo nostro omaggio all'estrosità e allo spirito ludico di una Liguria che sa essere così amabilmente anarchica, quando vuole esserlo...
Marco Innocenti, 23 - Follia, affinità musicali e suoni futuristi in Marco Innocenti, Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d'occasione), Lo Studiolo - Sanremo, 2018, pp. 91-97

Si possono annoverare tra i lavori più recenti di Marco Innocenti: Piccolo bestiario tascabile, philobiblon edizioni, 2025; Paesaggi, lepómene editore, Sanremo, 2025; La passeggiata avventurosa (esercizi di scrittura automatica e altre cose similari), lepómene editore, Sanremo, 2025; Silvana Maccario, Francobolli. 36 poesie (Introduzione di) Marco Innocenti, lepómene editore, Sanremo, 2025; (a cura di) Marco Innocenti, Presenzio Astante, Tre fotografie, lepómene editore, Sanremo, 2024; Silvana Maccario, Margini (Introduzione di) Marco Innocenti, Quaderno del circolo lepómene, Sanremo, gennaio 2023; Lorem ipsum, lepómene editore, Sanremo, 2022; (a cura di) Marco Innocenti, Il magistero di Cesare Trucco - per il centenario della nascita 1922-2022, Lo Studiolo, Sanremo, 2022; Fabio Barricalla, Formiche in fila indiana (noticina introduttiva di Marco Innocenti), Sanremo, Lepómene, 2020; Scritti danteschi. Due o tre parole su Dante Alighieri, Lo Studiolo, 2021; I signori professori, lepómene editore, Sanremo, 2021.
Adriano Maini 

martedì 30 settembre 2025

Ci vorrà qualche anno per far sì che i quotidiani nazionali si interessino a Torri Superiore

Fig. 2. Torri Superiore all’inizio della fase dei restauri. Fonte: Samuele Briatore, Op. cit. infra

Delineare la storia di Torri Superiore non è semplice, considerando che viene presa in esame una porzione di Torri, frazione di Ventimiglia. Infatti il piccolo borgo si trova arroccato sopra la frazione di Torri, piccolo agglomerato urbano medievale diviso in due dal fiume Roja, a una decina di chilometri dal capoluogo Ventimiglia.
Torri Superiore negli anni Ottanta era completamente disabitata, faceva eccezione un solitario, Nando Beltrame, che era l’unico residente. La particolarità di Torri Superiore è la completa aderenza al progetto rurale iniziale, infatti le sue caratteristiche costruttive e strutturali sono rimaste intatte nel tempo.
[...] La costruzione degli edifici a Torri Superiore non è frutto di un unico intervento ma i lavori sicuramente si sono protratti per diversi secoli, alcune porzioni della fitta griglia costruttiva del paese sono state ultimate alla fine del settecento. In quest’epoca il villaggio raggiunse la massima densità infatti la struttura testimonia un’accoglienza di più di duecento abitanti.
Lo spopolamento avvenuto già nell’ ottocento e concluso nel dopoguerra, è dovuto principalmente alla carenza di lavoro, ma un fattore determinante è stato anche la collocazione geografica che ha visto per più di un secolo un continuo cambio di confine tra Italia e Francia, infatti è giusto ricordare l’intenso lavoro di Nilla Gismondi, che nel dopoguerra dedicò la sua vita per dare la possibilità a queste zone di essere ancora italiane. Infatti costituì il Comitato per l’Italianità in difesa dai profughi delle zone di confine cedute alla Francia <8.
Filosofia dell’intervento
L’intervento inizia nel 1983 dal volere iniziale di una coppia di torinesi, che appena giunsero a Torri Superiore ne rimasero affascinati e nel 1989 si impegnarono, considerata l’entità dell’intervento, a costituire l’Associazione Culturale di Torri Superiore. Attraverso lo statuto è facile individuare la filosofia dell’intervento: tra le finalità dell’associazione è di primaria importanza dare vita a una comunità basata sull’armonia e sul rispetto delle persone, della natura e dell’ambiente, superando ogni tipo di dogma e ideologia precostituita.
Questa riflessione fa notare una prima differenza dagli altri esempi di valorizzazione: in questo caso l’accento non è messo sull’aspetto del recupero del patrimonio culturale, architettonico e paesaggistico ma sulla creazione di una societas diversa.
Infatti nei punti a seguire sarà ampliato il concetto secondo cui la vita nel borgo contribuisca al movimento mondiale per la salvaguardia dell’ambiente e la tutela dei diritti umani.
Solo tra gli ultimi punti dello statuto troviamo l’interesse artistico e culturale del luogo, considerato però funzionale alla finalità dell’associazione, infatti si legge che Torri Superiore rappresenta un prezioso patrimonio storico culturale del territorio e per i propri caratteri urbaistici è idoneo alle finalità culturali ed umane che si vogliono perseguire.
Per far sì che il luogo non diventi una località in cui soggiornare solo alcuni mesi all’anno, l’associazione si impegna a promuovere attività economiche collettive e individuali che provvedano al sostentamento degli abitanti, permettendo l’insediamento stabile a Torri. Per essere associati bisogna essere presentati da due soci e all’atto dell’ammissione ci si impegna a prestare opera in modo costruttivo e in armonia con gli altri soci. Prima di essere associati il candidato dovrà passare un periodo di prova di massimo un anno e successivamente dovrà essere accettato dall’intera comunità.
La collettività però non è concepita per essere autoreferenziale e chiusa su se stessa, infatti si impegna a costruire un centro studi per la diffusione, la ricerca e l’informazione delle tematiche trattate, inoltre, anche se non si è associati, è possibile soggiornarvi: sono ospitati tutti quelli che desiderino sostenere e diffondere lo scopo dell’associazione ed i suoi intendimenti. È specificato che nessuno potrà trarre profitto privato dalla comunità, né percepire una rendita propria.
Il progetto ambizioso era quindi di restaurare interamente il borgo antico e di inserirvi all’interno una collettività che ne condividesse la spinta originaria. Nel 1995 erano agibili solo tre stanze e in esse presero la residenza i primi tre pionieri dell’avventura che possiamo riassumere nella parola ecovillaggio (fig. 2). Che cosa sia un ecovillaggio non è cosa facile da spiegare, considerati i tanti aspetti e il forte senso di appartenenza a un determinato territorio; a tratti generali possiamo dire che sono insediamenti abitativi a misura d’uomo nei quali ci si impegna a seguire e creare modelli di vita sostenibili in accordo con l’ambiente.
Questo forte legame con la natura ha caratterizzato la filosofia dell’intervento non solo dal punto di vista della valorizzazione, ma anche per quanto riguarda il recupero, infatti Torri Superiore è stata interamente recuperata seguendo i principi della bioarchitettura, infatti nello statuto si evidenzia che l’associazione si impegna a promuovere e realizzare il recupero e la rivitalizzazione, proteggendo e valorizzando i suoi originali caratteri architettonici e urbanistici ovviamente seguendo i criteri ambientali e naturalistici su cui è fondata la “comunità”. Il recupero, in vista degli ideali di condivisione e di rispetto, è stato svolto grazie a intensi campi di lavoro di giovani provenienti da tutto il mondo autonomamente, attraverso organizzazione ambientaliste, servizio civile internazionale e organizzazioni scoutistiche.
[...] Uno dei primi articoli che evidenzia le potenzialità di Torri Superiore sarà pubblicato sulla rivista «Essere» nel settembre del 1988 dove Piero Caffaratti, promotore del Progetto Torri Superiore, rilascia una lunga intervista nella quale delinea la filosofia e la progettualità che desidera intraprendere a Torri Superiore. Nell’intervista si parla della creazione di un centro sensibile alla natura e alla sostenibilità architettonica, ricettiva e abitativa. La realizzazione di un villaggio alternativo improntato sulla cooperazione è la linea guida del progetto, la creazione di un falansterio sta prendendo lentamente forma nel piccolo paese di Torri Superiore. In varie parti dell’articolo si chiede ai lettori di partecipare alla ricostruzione del paese e alla partecipazione attiva al progetto da parte non solo di italiani ma anche di stranieri e così avverrà nel futuro di questo piccolo borgo medievale.
Ci vorrà qualche anno per far sì che i quotidiani nazionali si interessino a Torri Superiore, uscendo dal circuito della stampa specializzata. L’11 settembre 1993 il quotidiano «Il Secolo XIX» dirà che il vecchio borgo medievale di Torri sta lentamente rinascendo grazie al volontariato internazionale; in questo articolo non si parla ancora di ristrutturazione del borgo ma di pulizia e recupero limitato. In questo periodo «Il Secolo XIX» evidenzia l’acquisizione dell’intero borgo da parte dei promotori dell’intervento.
Sarà nel 2000 che Torri Superiore avrà il definitivo lancio mediatico attraverso il settimanale «D. La Repubblica delle Donne» allegato a «La Repubblica». Titolo dell’articolo sarà "La favola del villaggio. Un giorno a Torri. Dove in venti vivono un’utopia che funziona". La giornalista V. Vantaggi dà una descrizione fiabesca, nottetempo del borgo, paragonandola a un disegno di Escher. Per la prima volta l’attenzione si sposta dall’aspetto politico-organizzativo orientandosi verso la definizione di ecovillaggio, parola ancora non in uso in Italia ma in uso dagli anni settanta negli Stati Uniti. Difatti viene descritta la vita all’interno del borgo medievale come dimostrazione dell’idea che si può abitare un luogo rispettando le leggi della natura, inoltre vengono descritte le attività economiche che vogliono intraprendere.
Nel marzo del 2002 due quotidiani nazionali parleranno di Torri, «La Stampa» il 19 e «Il Secolo XIX» il 12. L’attenzione ora è rivolta all’apertura delle attività ricettive già annunciate del 2000. Nel piccolo borgo ligure è stato inaugurato il primo ristorante e il primo albergo. In questi articoli per la prima volta di parla di bioarchitettura e tecniche di restauro naturali e tradizionali inserite all’interno dell’ottica del risparmio energetico, si evidenziano l’utilizzo di intonaci naturali, calce, legno, cotto.
Nella rivista «Volontari per lo sviluppo» si darà molto spazio a Torri Superiore e grazie alla sua distribuzione internazionale assicurerà una diffusione europea del progetto. Per la prima volta una rivista di settore darà la definizione di ecovillaggi definendoli come insediamenti a misura d’uomo, rurali e urbani che aspirano a creare modelli di vita sostenibile. Oltre alla descrizione dei restauri vengono anche evidenziati gli aspetti di gestione ecosostenibile, come l’utilizzo degli scarti della potatura per alimentare il fuoco della cucina e del riscaldamento, l’assenza di concimi anche naturali per la coltivazione e la produzione di cibi e saponi. Inoltre si sottolinea la differenza tra agriturismo e ecovillaggio definendolo una comunità.
Nel 2005 il periodico di architettura «Casaviva» è attento all’aspetto del restauro e della preservazione delle caratteristiche architettoniche e ambientali del territorio. «Terra Nuova» nel giugno 2006 pubblica un intero inserto descrivendo Torri come l’alternativa al vuoto consumismo dei centri turistici alla moda. Torri Superiore, piccolo gioiello di architettura medievale popolare, è considerata qui un’ottima opportunità turistica a vocazione culturale, ambientale e sociale. La rivista offre una dettagliata documentazione fotografica soprattutto a testimonianza delle modalità di restauro.
Come spesso accade la stampa estera è più attenta rispetto alla stampa nazionale a ciò che accade in campo culturale. Di seguito riporterò solo gli esempi più importanti. Nella rivista «Permaculture Magazine» nel 2004, oltre a descrivere il villaggio, descrive anche gli abitanti definendoli foolish, idealists or pioneers. Si fa attenzione al periodo storico della nascita dell’idea, un periodo dove le strutture erano solo in cemento e l’idea della pietra e del limo ricordava solo la miseria. Vengono evidenziati i criteri di restauro, molto attuali ora ma assolutamente non contemplati negli anni Ottanta. La rivista inglese, con approccio molto tecnico, mette in luce l’importanza del riscaldamento a bassa entalpia, alimentato da una caldaia mista solare e gas.
Sempre nel 2004, la rivista statunitense «Communities» pone l’accento sul gruppo di persone e la loro scelta responsabile di vivere in modo altro. Descrive i meccanismi associativi e i relativi costi economici, analizzando gli ingranaggi organizzativi. Il giornalista inoltre delinea i profili degli abitanti del piccolo borgo e la modalità di accettazione all’interno della comunità.
Nel 2007 sarà l’importante rivista francese «l’Ècologique» a stupirsi per la meraviglia del posto e per lo stile di vita assolutamente non convenzionale. Come in «Permaculture Magazine» viene analizzata la tecnologia utilizzata soprattutto per il riscaldamento e l’isolamento termico, viene messa in luce l’offerta turistica presente sul territorio e le iniziative in essere a Torri come i corsi di yoga e shiatsu.
Nell’ottobre del 2008 anche la stampa spagnola guarda con interesse l’esempio di Torri. «Ecologìa y Desarrollo» vede in questo piccolo borgo un’esperienza di benessere e consenso, proponendolo come una meta turistica alternativa dove poter prendere contatto con un passato che può essere un’opportunità per il futuro.
8 M. Fini, Val Roja mutilata. Nilla Gismondi, una vita per difendere il diritto di essere italiani, Edizioni Team 80, Milano 1987. 
Samuele Briatore, Valorizzazione dei borghi storici minori. Strategie di intervento, Edizioni Diabasis, 2011

domenica 21 settembre 2025

Le torri saracene fino a ieri


"Uomini in fiamme" e "Il carico umano" sono gli ultimi due libri di Mirko Servetti, poeta ligure, nato ad Alassio il 5 febbraio 1953 e scomparso a Imperia il 2 luglio 2023. Due libri ai quali ho contribuito, nella veste di coautore. Gesti letterari nati da una collaborazione artistica, che è stata naturale conseguenza di un’amicizia iniziata nel 2014 ai tempi di Matisklo Edizioni. Matisklo piccola e coraggiosa casa editrice di Savona, ideata e diretta da Francesco Vico e Cesare Oddera, nella quale pubblicavano opere autori off mainstream come la poetessa Vera Bonaccini e il filologo Fabio Barricalla (entrambi amici di Mirko). Realtà di innovativa rottura che ha però cessato l’attività da qualche anno. In quel 2014 io e Mirko avevamo due libri, anzi due eBook pubblicati da Matisklo: lui "Terra bruciata di mezzo-tra Vespero e Lucifero" ("Il mio libro migliore", mi avrebbe sempre ripetuto negli anni a venire), ed io, insieme a Roberto Keller Veirana e con un contributo poetico della compianta Serena Zaiacometti, "Il verso dei lupi". In tutta sincerità devo a quel momento che amo definire “gli anni di Matisklo” l’incontro e la sintonia umana con Mirko e la sua poesia che ha portato al nostro dittico su carta [...].
Carlo Di Francescantonio, Caro, carissimo Mirko Servetti! Poeta, ma prima di tutto Amico, L'Altro Settimanale, 5 febbraio 2024 

Mirko Servetti è nato ad Alassio nel 1953 e viveva ad Imperia, dove è scomparso nel 2023. I suoi libri di poesia, dopo l’esordio con Frammenti in fuga (Lalli Editore, 1981, scritto in coppia con Teresio Zaninetti), sono: Quasi sicuramente un’ombra (Forum/Quinta Generazione, 1984); il poema Canti tolemaici (Tracce, in due volumi, 1989 e 1993); L’amor fluido (Bastogi Editrice, 1997); Quotidiane seduzioni (Edizioni del Leone, 2004); Canzoni di cortese villania (Puntoacapo Editrice, 2008, riunisce con alcune variazioni le due precedenti raccolte); Terra bruciata di mezzo-fra Vespero e Lucifero (Matisklo Edizioni, 2013, poemetto in digitale); Indefinito Canone (Matisklo Edizioni, 2016, versione digitale e cartacea).
[...]
Le torri saracene fino a ieri
gli ossigeni splendenti in mare aperto
acquaioli e bruni contrabbandieri
sapevano decifrare i deserti.
Gli altri erano sempre gli altri l’esperto
di maree confidava che i filari
(Dio divenne poi un prezioso reperto)
sputassero un mosto da capogiri.

Il deserto è una notte che non basta
nominare e vedere da vicino
i profughi portano a spalla paesi
interi alcuni con aria entusiasta
raccolgono acqua e notte in un catino
riuscendo a sognare per mesi e mesi

Mi scapicollo per viuzze leggere
a rotta di sasso verso un altrove
in piena discesa fino alle nuove
viste che occultano il quieto terziere.
Scheletrici pilastri di un cantiere
mai avviato sfregiano il cielo fin dove
puoi toccarne il dolore. Per ben nove
lune ne ho custodito il forziere

anzi lunaire cercavo Malvine
in ogni sua minor costellazione
e nelle umide alcove e nel beffardo
balzello del sole sulle colline
nel tempo e nel suo mutar direzione
forse in tempo per squagliarne il ricordo
[...]
Redazione, Mirko Servetti, Italian Poetry   

Sembrava l'ultima parte del viaggio
un cielo sereno dopo la guerra
che sperse il mio corpo nella tempesta
le nostre allegrie rinacquero a maggio.
Trovammo memoria e insieme
                                              [coraggio
pazzi di gioia tornammo alla terra
folli d'amore e di vino alla testa
del sole arraffammo l'ultimo raggio
e poi a nuotare nel fiume più terso
spremendo sidro dai frutti più ghiotti
ché si cospargon di me le acqueforti
e tu che perduta apri all'universo
labbra di carta e amorevoli motti
m'investi ariosa di piccole morti.
Mirko Servetti, Canzoni di cortese villania
Fabio Barricalla, Luca de Vincentiis, Rossella Masper, Serena Pieraccini, Rebecca Rodi, Amici, Poeti. Tazebao, Sanremo, 20 agosto 2023 

[Mirko Servetti] Esordisce nella seconda metà degli anni Settanta con poesie, interventi critici e d’opinione sulle pagine della rivista Alla Bottega. Risale a quegli anni l’incontro con Teresio Zaninetti (1947-2007) e, proprio da quell’intensa frequentazione, nasce “Frammenti in fuga”, silloge poetica a quattro mani, edita nel 1981 da Lalli Editore.
Seguono collaborazioni con diversi importanti periodici di letteratura ed un assiduo rapporto con Logos, la rivista fondata nel 1982 da Zaninetti, dalla quale si allontanerà polemicamente qualche anno dopo.
Intorno alla metà degli anni Ottanta comincia anche la lunga ed ininterrotta corrispondenza con Giorgio Bárberi Squarotti, considerato mentore e preziosa guida, che esprime giudizio positivo su “Quasi sicuramente un’ombra”, secondo volume di versi apparso nel 1984 per l’editrice Forum/Quinta Generazione.
Nel frattempo lavora al poema “Canti tolemaici”, il cui primo volume, intitolato “Degli scherzosi proemî”, vedrà la luce nel 1989 per i tipi di Edizioni Tracce.
A quegli anni risale anche l’adesione alle antologie poetiche in tape “Paté de voix” (1982) curata e pubblicata da Offerta speciale, e “Baobab”, in collaborazione con il musicista ed amico Walter Ferrandi, che esce nel 1986 con Tam-Tam, la rivista del compianto Adriano Spatola. Queste esperienze, che inizialmente lo vedono scettico, suggellano però l’interesse per la “poesia sonora”, che si concretizzerà in anni più recenti con la partecipazione a numerosi reading, soprattutto in Liguria, amata terra natale.
“Canti tolemaici” suscita, intanto, il positivo interesse di molti poeti e uomini di pensiero italiani, quali Alessandro Raffi (con cui comincia una proficua amicizia), Paolo Ruffilli, Maria Grazia Lenisa, Antonio Spagnuolo e Giò Ferri, che firma la prefazione al primo volume. La seconda parte, “Le rifrazioni asimmetriche”, pubblicata da Bastogi Editore nel 1993, sarà prefata proprio da Maria Grazia Lenisa.
Nel 1997, sempre Bastogi stampa la raccolta di sonetti “L’amor fluido”, con prefazione di Bárberi Squarotti.
Si allargano e si intensificano i contatti con i migliori periodici letterari. Collabora col gruppo toscano di ricerche intermediali Eliogabalo alla realizzazione del cortometraggio sperimentale “Ciack… la prima!”, girato presso un centro psichiatrico e di cui cura la regia.
Nello stesso periodo entra in contatto con la rivista L’area di Broca, dando inizio ad una nutrita e amichevole corrispondenza con Mariella Bettarini [...].
Redazione, Mirko Servetti, Bibbia d'asfalto poesia urbana e autostradale 

sabato 20 settembre 2025

A Cosio d'Arroscia è stato creato lo Spazio Piero Simondo


A Torino, la Rotonda di Talucchi all’Accademia Albertina di Belle Arti ospita, dal 21 ottobre 2021 al 9 gennaio 2022, la mostra Piero Simondo. Laboratorio Situazione Esperimento, promossa dall’Archivio Simondo e curata da Luca Bochicchio. Si tratta del primo approfondimento monografico e retrospettivo sull’opera di Piero Simondo (Cosio di Arroscia, 1928 - Torino, 2020), tra i fondatori dell’Internazionale Situazionista e particolarmente legato alla città di Torino, dove l’artista si è spento il 6 novembre 2020 e dove ancora oggi ha sede il suo archivio.
Nato a Cosio di Arroscia (Imperia) nel 1928, Piero Simondo frequentò l’Accademia Albertina di Torino dal 1949 (contemporaneamente alla Facoltà di Chimica) e lavorò incessantemente come artista e teorico, creando gruppi cooperativi artistici come il CIRA e i Laboratori Sperimentali all’Università di Torino. La mostra offre per la prima volta un ampio sguardo sull’ampia produzione sperimentale dell’artista, dalle prime produzioni degli anni Cinquanta alle ultime degli anni Duemila.
Dopo l’anticipazione di Alba, presso la Chiesa di San Domenico (fino al 12 dicembre), la mostra di Torino costituisce la seconda tappa di una retrospettiva antologica sull’artista che si articolerà tra il Piemonte e la Liguria, regione in cui Simondo nacque nel 1928, e che oltre all’Accademia Albertina vedrà nel 2021 un evento collaterale a Casa Ramello, a San Maurizio Canavese (a cura de La Bottega delle Nuove Forme). Nel 2022 il viaggio di questa mostra antologica proseguirà al MuDA Casa Museo Jorn di Albissola Marina (maggio 2022), con due spin-off: al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea (con opere di Simondo all’interno dell’allestimento Espressioni. Epilogo, gennaio 2022) e a Cosio di Arroscia (IM), con un evento nello Spazio Piero Simondo (estate 2022).
A integrazione della mostra sarà pubblicato un volume (coedizione Gli Ori-Albertina Press, con il contributo di Compagnia di San Paolo, Fondazione CRC e Fondazione De Mari) in italiano e inglese, con la duplice funzione di documentare l’esposizione e proporre una riflessione sulla figura dell’artista, grazie a contributi di autorevoli studiosi di critica e storia dell’arte, filosofia e visual studies: Luca Avanzini, Paul Bernard, Luca Bochicchio, Franco Brunetta, Flaminio Gualdoni, Karen Kurcynski, Lisa Parola, Sandro Ricaldone, Maria Teresa Roberto, Marco Senaldi, Sara Tongiani.
Redazione, Torino, la prima retrospettiva su Piero Simondo è all'Accademia Albertina, Finestresull'Arte, 2 novembre 2021   

[...] Le sale espositive del Centro esposizioni del MuDA e di Casa Museo Jorn ospiteranno una accurata selezione di dipinti, monotipi, sculture e video che, attraverso la loro eterogeneità, scandiscono i decenni di attività di Piero Simondo, attraversando tutta la seconda metà del secolo e soffermandosi su aspetti poco noti della produzione artistica dell’artista originario di Cosio di Arroscia.
4 giugno - 4 settembre 2022
Orari:
MuDA Centro Esposizioni - Via dell’Oratorio 2, Albissola Marina
Orari di apertura: da martedì a domenica 10 - 12 / 17 - 19. Chiuso il lunedì
MuDA Casa Museo Jorn - Via D’Annunzio 6-8, Albissola Marina (Loc. Bruciati)
Orari di apertura: martedì 9 - 12, giovedì 15 - 17, sabato e domenica 10 - 13 / 16 - 19 (fino alle 20 nei mesi di luglio e agosto)
[...] La rotonda centrale dell’Ipogeo dell’Accademia Albertina sarà occupata da un’installazione inedita di Piero Simondo, risalente ai primi anni ’70, che apre simbolicamente il percorso espositivo articolato lungo le suggestive sale comunicanti del sotterraneo. In ogni ambiente, una accurata selezione di dipinti, monotipi, sculture e video scandisce i decenni di attività dell’artista, attraversando tutta la seconda metà del secolo e soffermandosi su aspetti poco noti della produzione artistica di Simondo.
Oltre ai monotipi - con cui Simondo diede inizio alla propria ricerca sperimentale ad Alba, nei primi anni ’50 insieme a Pinot Gallizio e successivamente ad Asger Jorn - in mostra saranno presenti le topologie, i dipinti tridimensionali realizzati a partire dai primi anni ’60 a Torino, che costituiscono una sorta di corrispettivo sperimentale agli studi teorici sul concetto di spazio nella filosofia di Poincaré (oggetto della tesi di laurea di Simondo in filosofia, con Nicola Abbagnano). Saranno inoltre esposti alcuni grandi dipinti che denotano la tensione verso lo spazio e l’ambiente architettonico, sottolineato anche da pannelli decorativi e sculture mobili. Tra gli anni ’60 e ‘90 l’artista sperimentò diverse tecniche di generazione spontanea dell’immagine (tra cui ipo-pitture, nitroraschiati, decalcomanie, collage), che nella mostra trovano ampio spazio nella sezione degli anni ’70 (con opere di stampo politico e sociale). Accompagneranno le opere alcuni video sperimentali ritrovati nell’archivio personale dell’artista.
Attraverso la mostra sarà possibile conoscere meglio l’originale ricerca artistica di Simondo, figura che ebbe un’importanza notevole per lo sviluppo delle relazioni artistiche, intellettuali e culturali internazionali nella città di Torino e nel territorio cuneese e savonese. Interessato ai processi di creazione delle immagini e alla situazione-laboratorio, Simondo ha sempre sperimentato tecniche e linguaggi espressivi anti-convenzionali evitando di inserirsi chiaramente in correnti, stili o tendenze e creando opere con tecniche e materiali disparati, elaborando metodologie e teorie anche in forma scritta e producendo numerosi libri e saggi su temi quali lo strutturalismo, il labirinto, il pensiero logico, la psicologia della conoscenza, l’arte elettronica. Analizzando le opere, gli scritti filosofici e i progetti creati lungo il corso della sua vita, è possibile seguire gli sviluppi del pensiero critico di un uomo che ha sempre cercato e trovato nel laboratorio e nella ricerca sperimentale le chiavi metodologiche e processuali di un’attività artistica in costante movimento, praticata in chiave sociale e didattica, oltre che estetica.
L’artista
Piero Simondo (Cosio d’Arroscia, Imperia, 25 agosto 1928 - Torino, 6 novembre 2020) è stato un importante artista e intellettuale italiano, esponente dei movimenti internazionali d’avanguardia del secondo dopoguerra.
Nel settembre del 1955 fonda ad Alba, con Asger Jorn e Pinot Gallizio, il Laboratorio Sperimentale del Mouvement International pour un Bauhaus Imaginiste (M.I.B.I.).
Sempre ad Alba, nel 1956, insieme alla sua compagna e futura moglie Elena Verrone, ad Asger Jorne e Pinot Gallizio, organizzò il Congresso Mondiale degli Artisti Liberi e diede vita alla rivista d’avanguardia Eristica. Nel luglio del 1957, in occasione di una vacanza nella sua casa di Cosio d'Arroscia, insieme a Michèle Bernstein, Guy Debord, Pinot Gallizio, Asger Jorn, Walter Olmo, Ralph Rumney e Elena Verrone fonda l’Internazionale Situazionista, da cui fuoriesce nel gennaio successivo con la moglie Elena Verrone e Walter Olmo, in polemica con Debord.
Nel 1962 fonda a Torino il CIRA (Centro cooperativo per un Istituto internazionale di Ricerche Artistiche) con il proposito di recuperare l'esperienza del Laboratorio di Alba.
Dal 1968 Simondo prosegue individualmente la propria ricerca artistica, dedicandosi alla produzione di opere bidimensionali e tridimensionali, fedele a una propria coerenza metodologica nella sperimentazione delle molteplici possibilità di configurazione dell’immagine. Tale ricerca si riflette in una intensa attività teorica, che spazia dal pensiero logico greco alla teoria dei colori, dalle pratiche di situazione alla computer art.
A partire dal 1972 e fino al 1996 ha lavorato all’Università di Torino, dove ha diretto i laboratori di attività sperimentali presso l’Istituto di Pedagogia presieduto da Francesco De Bartolomeis e ha tenuto la cattedra di Metodologia e Didattica degli Audiovisivi. Il 6 novembre 2020 Piero Simondo si spegne nella sua casa di Torino.
Il nome di Simondo è stato per lungo tempo collegato esclusivamente a questi gruppi e movimenti, e di conseguenza la critica e la storiografia artistiche ne hanno letto l’opera alla luce, anzi all’ombra, dei più rinomati compagni di ricerche situazioniste.
In realtà, dai primi anni Cinquanta ai primi Duemila, Simondo ha costantemente dipinto e lavorato in modo originale e autonomo, portando avanti le idee del Laboratorio Sperimentale oltre i confini e i limiti imposti dall’evoluzione di gruppi e movimenti che egli stesso aveva contribuito a creare anche nella Torino degli anni Sessanta e Settanta. Inoltre, anche focalizzandosi all’interno del perimetro situazionista, diversi aspetti necessitano di essere ulteriormente approfonditi: dal contributo teorico di Simondo e Verrone, fino ai rapporti di questi ultimi con gli esponenti delle neoavanguardie europee.
[...]
Nel gennaio 2016 Amelia Simondo, insieme a un team di studiosi, ha dato vita all’associazione culturale Archivio Piero Simondo. Grazie al lavoro svolto in particolare tra 2016 e 2018 dal Dott. Luca Avanzini, oggi il fondo di documenti e opere è archiviato a uno stadio pre-inventariale, permettendo così di avviare studi sistematici sul lavoro artistico e intellettuale di Simondo.
Negli ultimi anni si sono potuti cogliere chiari segnali di una rinnovata attenzione nei confronti di Simondo e delle sue ricerche. Il 21 e 22 settembre 2019, ad Alba, la Fondazione CRC e il Museo d’Arte Contemporanea Castello di Rivoli hanno organizzato una conferenza internazionale per celebrare e ripensare il Congresso Mondiale degli Artisti Liberi del 1956. L’Archivio Simondo è stato fra i partner dell’iniziativa, che ha visto la partecipazione di numerosi critici e storici dell’arte, tra i quali Hans Urlich Obrist e Tom McDonough.
Nel 2016 il famoso dipinto collettivo Senza titolo, realizzato nel 1956 da Simondo in collaborazione con Constant, Pinot Gallizio, Jorn, Kotik e Wolman, è stato esposto al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid ed è stato poi acquistato dalla Fondazione CRC. Più recentemente, la Fondazione CRC ha acquisito l’opera Figurine, del 1955. Altre opere di Piero Simondo sono conservate alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, al Museo d’Arte Contemporanea Castello di Rivoli, all’Archivio Pinot Gallizio, all’EAM Collection di Berlino, al Centro Studi Beppe Fenoglio di Alba, alla Biblioteca Civica “A. Arduino” di Moncalieri, al Comune di Alba, alla Fondazione Peano di Cuneo, al Comune di Cosio di Arroscia. Proprio a Cosio, nel luglio 2017 è stato creato lo Spazio Piero Simondo: un centro espositivo e informativo che accoglie e rende fruibile una selezione di opere realizzate dall’artista anche in collaborazione con i suoi compagni dell’avanguardia europea.
Redazione, Piero Simondo. Laboratorio Situazione Esperimento, OfficineBrand 

domenica 14 settembre 2025

Abbiamo trovato nel quartiere ecologico l’interpretazione che integra al meglio le esigenze del Comune

Fonte: Tesi cit. infra

L’obiettivo di questa tesi è quello di affrontare la progettazione di un nuovo quartiere residenziale a Vallecrosia, piccolo centro urbano in provincia di Imperia, cercando di soddisfare le direttive comunali e allo stesso tempo le istanze di efficientamento energetico ambientale, espresse nelle contemporanee progettazioni di eco-quartieri ed edifici N-Zeb <1.
Il punto di partenza del nostro lavoro corrisponde alla partecipazione alla competizione internazionale Solar Decathlon Europe 2019, avvenuta durante il Laboratorio di progetto Tecnologia e Ambiente, a cui la Scuola Politecnica di Genova ha partecipato insieme ad altre 8 Università italiane riunite nel Team SEEDItaly <2, di cui capofila è stato il Politecnico di Milano.
Fine della competizione è la progettazione di un Nucleo Abitativo N-Zeb, che sia concepito e progettato per essere innovativo dal punto di vista tecnologico, energetico, funzionale e formale. Il principio fondamentale della gara è che i progetti elaborati non rimangano prototipi fini a sé stessi, ma possano trasformarsi in edifici multipiano per la progettazione in scala urbana.
In sede di laboratorio quindi abbiamo sviluppato il prototipo base - modulo abitativo - elaborando il tema della competizione “densificazione urbana” come “densificazione verde” su base modulare, elementi che rimangono fondamentali nella fase di studio successiva per un edificio residenziale, che costituisce l’elemento base della pianificazione di un tessuto urbano.
Per l’applicazione di questo esercizio progettuale è stata scelta un’area all’interno del Comune di Vallecrosia per la quale l’Amministrazione prevede la trasformazione in Quartiere Residenziale, attualmente ad uso agricolo ma in stato di progressiva dismissione, caratteristiche che, facendone un “vuoto urbano” e una delle poche aree rimaste disponibili per interventi di nuova costruzione, la rendono adatta a questa sperimentazione.
Identificato come Distretto di Trasformazione n° 12 (D.T. 12), il sito si estende su circa 98.500 mq ed è suddiviso in 7 sub-distretti che ne differenziano a livello normativo i limiti quantitativi dell’intervento in termini di superficie agibile, numero di abitanti e standard urbanistici.
In sede di laboratorio il progetto è stato sviluppato ponendo maggiore attenzione sullo sviluppo del modulo abitativo in un quartiere residenziale, osservando solo parzialmente la normativa: l’organizzazione distributiva e funzionale dell’intervento è stata elaborata considerando il distretto nella sua totalità, tralasciandone la suddivisione interna in sub-distretti.
[...] L’idea della tesi nasce dalla volontà di coniugare il progetto originario sviluppato in laboratorio con una progettazione effettiva al fine di fare di questo intervento uno strumento per la risoluzione delle criticità esistenti e un’occasione di rilancio per il territorio.
In prima battuta è stato per noi fondamentale approfondire il significato di città giardino dalle sue origini ad oggi, cosa si intende per quartiere sostenibile e come questi due concetti si possano fondere e creare un unico pensiero pianificatorio che si possa rapportare con Vallecrosia nella sua realtà urbana e normativa.
Questa ricerca ci ha portato all’approfondimento dei riferimenti tipologici dati dal comune, il quale, per città-giardino intenderebbe una realtà di sobborgo residenziale a medio bassa densità insediativa, caratterizzato dalla presenza del verde e che viene resa conforme alle attuali necessità di efficientamento energetico attraverso l’orientamento tipologico del quartiere sostenibile, intendendo con questa espressione il livello più prettamente tecnologico e prestazionale dell’intervento.
Alla luce di queste considerazioni abbiamo trovato nel quartiere ecologico l’interpretazione che integra al meglio le esigenze del Comune quindi gli aspetti imprescindibili della città-giardino e quelli del quartiere sostenibile armonizzando in un approccio unitario i due relativi livelli di pianificazione a fronte delle note esigenze ambientali, ma anche sociali.
Su questa base il progetto da singola proposta è diventato una sequenza di 4 possibili approcci progettuali, partendo dal più frammentario, derivato dalle regole dettate dal P.U.C., per arrivare a quello finale, unitario, in linea con l’approccio più ecologico, articolando la progettazione su criteri scelti e gerarchizzati a fronte dell’analisi dell’area, dei precetti della normativa urbanistica ed edilizia e della nostra elaborazione delle previsioni-richieste fatte dalla committenza.
[...] Una prima analisi della Normativa Edilizia del Comune di Vallecrosia per le nuove edificazioni suggerisce una tipologia edilizia assimilabile alla casa a schiera e a quella in linea, tipologie edilizie residenziali tradizionali fino all’avvento della densificazione urbana del Secondo Dopoguerra che, con la costruzione di palazzi fuori scala rispetto al contesto tanto nei volumi quanto nelle forme, ha stravolto il tessuto urbano di Vallecrosia, distaccandola anche sul piano estetico dalla vicina Bordighera.
Questa tipologia inoltre risulta in linea con il modello di città-giardino preso a riferimento per la Nuova Area Residenziale, evitando l’alta densità edificatoria.
[...] Passando ora all’analisi del progetto, il Distretto di Trasformazione n° 12 (D.T.12) si presenta come un lotto di circa 98.000 m 2 attualmente ad uso agricolo, si inserisce nella piana costiera dei Piani di Vallecrosia e si tratta di un vuoto urbano delimitato a nord dalla Via Romana, che perimetra l’area ad una quota relativa di + 7 metri, a ovest da Via Giovanni Bosco, ad est da Via Padre Pio e dal confine con Bordighera ed infine a sud da Via Angeli Custodi. Queste vie perimetrali al lotto sono tra quelle su cui si concentra maggiormente il traffico veicolare di Vallecrosia e attorno alle quali l’attività edificatoria è stata più intensa. Attualmente è occupato da impianti a serra in gran parte abbandonati e dal notevole impatto ambientale. Il P.U.C. prevede il completamento del processo insediativo attraverso la realizzazione di nuova edilizia residenziale che dovrà essere caratterizzata da un elevato standard qualitativo dal punto di vista architettonico e dal punto di vista della sostenibilità ambientale e bio-ecologia, tale da porlo come modello di sviluppo e di studio in grado di attrarre un “turismo professionale”.
[NOTE]
1 N-Zeb, nearly Zero Energy Building, si intende un edificio a rendimento energetico elevato, il cui fabbisogno energetico (seppur minimo) venga coperto in larga parte da fonti rinnovabili. Il concetto espresso da questo termine si può assimilare a quello di casa passiva.
2 SEEDItaly, Sustainable Energy Efficient Design Italy, coordinato dal Politecnico di Milano.
Beatrice Boido e Federica Cannici, Cambiare Vallecrosia: da un modulo abitativo ad un eco-quartiere, Tesi di laurea, Università degli Studi di Genova, 2019 

venerdì 5 settembre 2025

La Parasenegalia Visco è segnalata in Italia solo in Sicilia e a Ventimiglia


La Parasenegalia Visco di Via M. E. Basso a Nervia di Ventimiglia (IM). Foto: Silvana Maccario

Il mio mondo di appartenenza, quello vegetale, ieri e oggi.
I primi boschi che ho attraversato e percorso quelli delle favole raccontate dagli adulti.
Quello pieno di paura di Cappuccetto Rosso, quello allegro di Pollicino che sapeva come non perdersi, quello protettivo della Bella au bois dormant, quello pauroso attorno al palazzo di Barbablù.
Più avanti i boschi addomesticati sarebbero stati quelli delle nonne, avrei fatto conoscenza con i lillà in cui avrei tuffato il naso, la Justicia carnea chiamata Giustizia, con i suoi fiori tubolari che avrei scoperto ricchi di un dolce nettare, e gigantesche ortensie. Queste le mie prime amiche perchè avevano un nome come lo hanno i veri amici. Gli adulti quasi mai mi presentavano i veri nomi e cognomi, come avrei poi imparato in seguito, se non qualche volta in dialetto.
C’era nel giardino di una nonna una rosa che solo anni dopo avrei potuto chiamare e salutare.
Una rosa diffusa nelle coltivazioni del ponente che i floricoltori spedivano nel nord Europa.
Era la Gruss an Koburg, ibridata da Ducher in Germania.
A scuola [n.d.r.: a Ventimiglia, località Nervia] avrei amato il profumo del Pitosforo, sotto cui saremmo state fotografate nel cortile della scuola, noi piccole alunne dal grembiule con il fiocco, insieme alla maestra. 
All’ingresso tre imponenti alberi ignoti mi avrebbero inebriato con il loro profumo annunciandomi la fine dell’anno scolastico. Le chiamavano Gaggie, non è stato facile risalire alla sua vera identità. Forse erano state piantate dal dottore e benefattore Ludovico Isnardi nel 1918-9 quando vicino agli scavi romani eresse la sua clinica.
Clinica che nel tempo avrebbe avuto diversi utilizzi.. Collegio di suore francesi, e poi scuole statali elementari, per diventare Ospedale ed essere recentemente abbandonato.
I suoi pesanti rami contorti hanno sostegni in cemento per evitarne la rottura. Le chiome sono immense e raggiungono la sovrastante via Aurelia e le sue radici saranno finite sotto i mosaici romani raffiguranti i delfini.
Ancora oggi quando transito da quelle parti apro il finestrino dell’auto per far entrare quell’aroma avvolgente che sa di terre lontane.
Dopo infinite diatribe tra gli appassionati si è giunti alla sua esatta identificazione. Arriva dall’Argentina, Bolivia, Perù, ama le altitudini i terreni aridi e il caldo.
È segnalata in Italia solo in Sicilia e a Ventimiglia.
Si chiama Parasenegalia Visco o più comunemente Acacia Visco.
Del grande Gelso che si affaccia alla finestra dell’aula sapevo molte cose imparate sul libro scolastico.
Sempre da quelle parti, mi appassionava per la forza che esprimeva, una pianta dal fogliame grigio-argenteo e dai fiori giallo limone, arrampicata a strapiombo, cresciuta in una crepa del Cavalcavia ferroviario, con vista sulle terme romane, anche lei innominata.
Il suo nome era Nicotiana glauca.
Ama le macerie e i muri vive di niente.
Ho occupato crescendo e diventando adulta e ormai con i capelli bianchi, di cercare  di dare un nome alle piante anche le più umili che erroneamente si chiamano erbacce.
Sono diventate così care amiche che mi hanno raccontato le loro storie che sono racchiuse nei loro nomi botanici, che a saperle leggere ci forniscono la loro esatta identità.

Silvana Maccario